LA VITA DI EDUARDO DE FILIPPO: ARTE, LOTTA, AMORE. È CALATO IL SIPARIO SULL’ULTIMO ATTO DELLA SUA STRAORDINARIA VITA
di Maurizio Nocera
Nella mia vita ho visto il grande drammaturgo napoletano più di una volta, a Roma ma anche nel suo teatro San Ferdinando di Napoli. Ero assieme ad un suo ammiratore, Amedeo Curatoli, pittore e politico anch’egli di Napoli, che lo conosceva personalmente. Allora, assieme ad Amedeo, scrivevo su un settimanale – «Nuova Unità», stampato a Firenze. Quando Eduardo volò nel più alto dei cieli, scrissi questo articolo, che ripropongo oggi ai lettori del «Pensiero Mediterraneo», in occasione del centenario della sua morte
Eduardo De Filippo (Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, 31 ottobre 1984), il dolce e acuto interprete della «Napoli amara» di questo secolo, silenziosamente, quasi senza che nessuno se ne accorgesse, se n’è andato calando definitivamente il sipario sull’ultimo atto della sua straordinaria vita di autore-attore-regista. Pensare ad Eduardo come ad un qualsiasi morto non è possibile: la sua figura macilenta, la sua scavata «maschera d’attore», la sua tenera e penetrante voce sono così vive, così pulsanti di vita nel nostro ricordo che siamo indotti a pensare che ancora domani lo rivedremo apparire nello scenario di un palcoscenico a raccontarci le sofferte ed amare storie della sua Napoli, del suo sacrificato Meridione. Perché Eduardo, oggi amato cittadino del mondo, era prima di ogni cosa napoletano e figlio del Sud.
Le generazioni che hanno avuto la fortuna di conoscerlo in vita non lo potranno dimenticare, le generazioni future, i nostri figli ed i figli dei nostri figli, lo conosceranno attraverso la sua arte, perché la sua opera sopravviverà alle limitate cose della vita umana.
Nei giorni tristi dell’ultimo addio, nei giorni del dolore e della forza, assieme a tutto il suo pubblico che mestamente lo accompagnava all’ultima dimora, dietro «quinte» inaccessibili, abbiamo gridato forte «Eduardo è morto, viva Eduardo», volendo così testimoniare la grandezza dell’uomo e della sua arte, l’immortalità del messaggio di vita e di umana comprensione che egli ci ha trasmesso nel silenzio e nell’umiltà. Per noi comunisti, poi, Eduardo è stato e sarà più caro di ogni altro, perché sappiamo quanto egli ha fatto per l’emancipazione dell’umanità sfruttata, per i diseredati, per la povera gente di Napoli e di ogni altra parte del mondo. L’intera sua opera sta a testimoniare da che parte e con chi stesse Eduardo De Filippo: non certo con i fascisti di Achille Lauro, che lo combatterono e lo disprezzarono, non con i democristiani di Gava che non pochi ostacoli frapposero al suo lavoro, ma con i lavoratori, i disoccupati, gli emarginati che a partire dai bassi spagnoli di Napoli hanno trovato in lui un amico, un compagno, un artista che li ha fatti ridere e piangere proprio come un buon padre fa con i propri amati figli. Perciò, chi lo ha pianto come il padre perso, non è stata la borghesia boriosa che lo ha disprezzato perché «tanto è un comunista», ma quel suo popolo «dominato» che egli ha saputo riscattare culturalmente.
La vita di Eduardo è stata arte, lotta, amore. Ripercorrerla, sia pure sommariamente, non è scoprirvi delle novità, ma ritrovare le tappe attraverso cui egli ci ha donato i suoi più cari sentimenti, senza nulla chiedere in cambio se non rispetto e amore fraterno. La sua poliedrica personalità si formò a Napoli, dov’era nato il 24 maggio 1900, grazie soprattutto all’insegnamento di Eduardo Scarpetta, l’altro grande – assieme a Petito e Viviani – commediografo napoletano che negli anni 1880-1925 aveva dato alla città partenopea l’umoristica figura di don Felice Sciosciomocca, spesso interpretata dallo stesso Eduardo. E a Napoli l’amara, come la definì in un suo saggio critico Federico Fràscani, nacquero tutte le sue commedie, che da un contesto quasi sempre rionale riescono ad elevarsi fino a raggiungere l’universalità, perché universali sono la comprensione, l’amore, la pietas umana. Nelle sue commedie Eduardo denuncia con forza e senza veli l’ipocrisia, l’inganno, il conformismo piccolo borghese teatralizzandoli tragicamente, drammatizzandoli umoristicamente. Egli ha scritto e rappresentato complessivamente 55 commedie e tutte testimoniano la sua fervida fertilità e la sua acutezza analitica e poetica. In Sik Sik, l’artefice magico (1930), una delle prime, egli dileggia il sentimentalismo, smaschera la menzogna, combatte la perfidia, affermando che solo il rispetto reciproco. l’umana solidarietà possono ripagare gli uomini dagli orrori della guerra. Mentre, nell’ultima sua fatica (maggio ’84), la traduzione nel dialetto napoletano del ‘600 della Tempesta di Shakespeare, egli lancia al mondo il suo messaggio di pace, riaffermando che solo essa può permettere la sopravvivenza dell’umanità sopra il pianeta Terra. Tra questi due monumenti dell’opera eduardiana si collocano gli altri insuperabili lavori: Natale in casa Cupiello, del 1937, in cui egli descrive il dramma del nostalgico Lucariello, un povero vecchio dei bassi di Napoli che, alla fine della sua vita, si accorge di aver vissuto senza essere riuscito a mettersi in comunicazione con chi gli stava attorno; Napoli milionaria, rappresentata per la prima volta al San Carlo il 26 marzo 1945, in cui egli ricrea sulla scena il clima drammatico che Napoli vive nell’atto finale della guerra antinazifascista.
Qui, con «adda passa ‘a nuttata», la celebre frase che il protagonista don Gennaro pronuncia prima che il sipario cali, Eduardo ci vuole indicare che il dolore e le sofferenze sopportate dal popolo saranno alla fine superate e verrà il nuovo mattino di luce e di felicità. Questi fantasmi Eduardola scrive nel 1946: il grande successo di questa commedia è dovuto all’eccezionale sua capacità di rendere fantastica e quasi impalpabile una situazione di miseria tipica della Napoli del dopoguerra. Il protagonista è quel Pasquale Loiacono, alle prese con quelli che egli crede spiriti, ma che in realtà sono persone in carne ed ossa, con i quali instaura immaginari rapporti con un effetto misto di umorismo e drammaticità.
L’arte di Eduardo diviene nota in tutto il mondo, affermandosi grazie anche all’altro suo grande successo, Filumena Marturano (1946) dove egli, per la prima volta nella storia del teatro, riesce a dare dignità letteraria e grande umanità ad una donna di strada, fino a quel momento oggetto di disprezzo, priva di affetti e speranze. Le bugie con le gambe lunghe (1947) è l’altra commedia dell’ironia eduardiana nel cui stesso titolo sta tutto il senso drammatico. Ma una delle più belle invenzioni di Eduardo è il personaggio di «zi Nicola» ne Le voci di dentro (1948), il vecchio saggio che da lungo tempo ha deciso di non comunicare più con gli altri mortali, se non con il nipote Alberto Saporito, ma solo attraverso un linguaggio pirotecnico, di scoppi di mortaretti e batterie di fuoco. E poi La grande magia (1949), dove illusione e fede danno alimento alla vita, e La paura numero uno (1950) dove Eduardo impegna esplicitamente la sua arte contro la guerra e che possiamo iscrivere fra le tante iniziative prese in quegli anni dal movimento dei partigiani della pace contro l’eventualità di una nuova guerra mondiale: c’è qui un ammonimento all’uomo a che mai più si faccia promotore di una guerra perché, dopo Hiroshima e Nagasaki, essa distruggerebbe l’intera umanità. Altre commedie seguono e tutte con lo stesso intreccio di umorismo e drammaticità: Mia famiglia (1955); Bene e core mio (1956); De Pretore Vincenzo (1957); Sabato, domenica e lunedì (1959); Il sindaco del rione Sanità (1960); II contratto (1967) il monumento (1970); Gli esami non finiscono mai (1973); e tanti ancora atti unici, allestimenti di vecchie e nuove commedie nelle quali, com’egli stesso scrisse all’amico e compagno Paolo Ricci il 22 febbraio 1964, disvela «la vanità, 1’ipocrisia, la prepotenza, l’astuzia, la vigliaccheria» che spesso vengono mascherate sotto «le false sembianze di autentiche virtù».
Eduardo fu regista ed interprete di bellissimi film, come Napoletani a Milano, in cui denuncia la drammatica situazione degli emigrati del Sud, costretti a cercare lavoro nel triangolo industriale; scrisse anche poesie nella sua prediletta lingua (II paese di Pulcinella, 1951); riadattò e mise in scena commedie di altri autori, fra i quali Pirandello, che egli conobbe ed ammirò. La sua arte è oggi un successo in tutto il mondo: anche in Unione Sovietica e negli altri paesi socialisti egli è conosciuto e stimato almeno quanto in Italia. È molto conosciuto e apprezzato negli Stati Uniti d’America, nel mondo del teatro e dell’arte: un po’ meno fra le autorità governative, che una volta arrivarono a negargli il visto d’ingresso in quanto «amico dei partiti di sinistra». Per quel visto negato, la Filumena Marturano, rappresentata a New York negli anni ’60, incontrò un clamoroso insuccesso perché, come egli stesso ebbe a dire, «il testo rappresentato non aveva più niente di mio».
De Filippo fu uomo impegnato civilmente e politicamente e, non solo nell’arte: nel dopoguerra, sulle macerie di Napoli, s’impegnò a ricostruire il teatro San Ferdinando sventrato dai bombardamenti (21 gennaio 1954). Questo suo teatro, trattato quasi come fosse un figlio naturale, vide finalmente coronato il suo progetto inaugurandolo con la rappresentazione di «La Palummella vola e zompa» del grande Antonio Petito, in cui egli stesso interpretò magnificamente il ruolo della famosa maschera di Pulcinella; nel 1974 lo ritroviamo impegnato nella battaglia contro l’abrogazione della legge sul divorzio e nel 1981, appena nominato senatore a vita dal Presidente Pertini, lo troviamo impegnato a sostenere, in Parlamento e nella società, la battaglia a favore della rieducazione degli scugnizzi napoletani reclusi nel carcere minorile Filangieri e nell’Istituto Fornelli; ancora l’anno scorso (1980), nel mese di luglio, a 83 anni suonati, con un coraggio che commosse tutti, lo rivedemmo a Roma, nel quartiere San Lorenzo, a manifestare con i giovani contro l’installazione dei missili nucleari, per la pace e il disarmo.
Per la sua arte, per la sua grande umanità, per il suo impegno civile costante e limpido, noi abbiamo amato ed ameremo Eduardo e ci piace ricordarlo con le sue tenere, ultime parole pronunciate in pubblico prima di lasciarci in un mare di dolore: «La mia è stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo: così si fa il teatro. Ma il cuore ha tremato sempre, tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni. E l’ho pagato. Anche ora mi batte il cuore. E continuerà, continuerà a battere. Anche quando si sarà fermato…».
Maurizio Nocera (22-11-84)