La triste sorte di Giovan Giacomo Dell’Acaya
di Giorgio Mantovano
Del barone Giovan Giacomo Dell’Acaya, tra i primari esponenti della nobiltà napoletana -salentina ai tempi di Carlo V, non possediamo più il ritratto che, stando a Michele Paone (L’avventurosa storia di Giovan Giacomo Dell’Acaya, in “Le voci di dentro”, Editrice Salentina, 1993), l’ospedale dello Spirito Santo conservava insieme con gli altri dei suoi benefattori, né il sepolcro che ne accolse il vecchio corpo.
Al 1548 risale l’esecuzione di due opere, su disegni del Dell’Acaya, realizzate in Lecce: l’Arco trionfale, quella che noi oggi chiamiamo Porta Napoli (in foto, da una prospettiva posteriore), dischiusa nella cinta muraria come la sublime Porta di una fortezza spagnola, osannante, nell’epigrafe dedicatoria, l’Imperatore Carlo V, e l’Ospedale dello Spirito Santo, di cui il barone fu per molti anni rettore.
Della sua notorietà e bravura, ben testimoniata dal rigore geometrico e dalla severità architettonica delle opere, sappiamo molto e non è su tale aspetto che intendo soffermare l’attenzione.
Vorrei, invece, ricordare la triste sorte che segnò drammaticamente l’ultimo periodo della sua vita.
Siamo nel 1570 quando, a causa dell’inadempienza contrattuale di un riscossore dei tributi doganali, il barone Dell’Acaya ed altri aristocratici che avevano prestato garanzia alla Regia Corte, non essendo in grado di sborsare l’oro delle somme garantite, furono assoggettati alle procedure esecutive ed anche alla misura dell’arresto prevista per i debitori insolventi.
Il Dell’Acaya, dopo aver subito il sequestro dei suoi fondi, fu ristretto nelle segrete di quel Castello che aveva progettato.
Nulla valse a sottrarlo alla sorte che lo avrebbe condotto alla morte. Non le proteste del figlio Manilio, né il favore dei Loffredo, di Ferrante, ch’era il Preside provinciale, e dei suoi figli, Cicco e Carlo, quest’ultimo castellano della fortezza di Lecce.
Giovan Giacomo Dell’Acaya morì quello stesso anno e, come spesso accade, venne presto dimenticato, malgrado quanto avesse fatto per la città di Lecce.
Occorrerà attendere lo Scardino e l’Infantino per rievocarne la memoria.
L’Infantino ebbe a ricordare i disegni che “l’eccellentissimo Architetto” aveva dato alla “fortificatione della sua Terra dell’Acaya … del Castello di Lecce, di Capua, di Crotone, di Napoli, e di molt’altre fortezze del Regno”.
Lo Scardino lo lodò come ” gentiluomo, mentre visse, non men di vera nobiltà che di compiuto valore guarnito”.
Noi, turisti inconsapevoli, dobbiamo a lui, a Giovan Giacomo se, ogni volta che lo osserviamo, quello splendido Arco di trionfo, testimone della storia, ci lascia irrimediabilmente ammutoliti.