“La strategia per sviluppare il turismo delle radici” di Letizia Sinisi
Si chiama turismo delle radici e punta a riportare in Italia gli italo discendenti degli emigrati che nel secolo passato sono andati a cercare fortuna oltre Oceano. Il 31 marzo presso l’Achivio di Stato di Napoli si terrà un interessante convegno dal titolo: “Rooting Experience- Turismo delle Radici e Grande Archivio” che vedrà la partecipazione di illustri relatori. Sarà presentato il volume ““Turismo delle Radici, un’opportunità per ripartire con il Rooting Experience Planning®”, un vero e proprio manuale, il primo in Italia che offre conoscenze tecniche e metodologie scientifiche utili a far decollare questo tipo di turismo. L’autrice è Letizia Sinisi, che da molti anni sta lavorando per costruire proprio un sistema dell’accoglienza degli italo-discendenti, fornendo le giuste competenze e le tecniche più idonee. Noi de Lo Speciale l’abbiamo intervistata.
Dottoressa Sinisi, da dove nasce l’idea di questo libro?
“Cominciamo con il dire che è stato elaborato nel periodo del lockdown e che raccoglie un’ esperienza ultra decennale nel campo del turismo delle radici. Tutto è partito da un’ispirazione che ebbi nel 1991, quando decisi di fare una ricerca sui miei parenti emigrati negli Stati Uniti. Nel 2008 poi, per una serie di circostanze, ho seguito un master in turismo e ho potuto maturare una conoscenza approfondita della materia. Sono partita dalle mie radici cercando di riportare quanti più italo-discendenti della mia famiglia in Italia. Tenga conto che tutto è iniziato con un mio prozio partito all’età di quindici anni e mai più ritornato. Ho vissuto in prima persona la diaspora in famiglia, comprendendo perfettamente cosa abbia significato l’emigrazione, la povertà e tutte le conseguenze seguite a questo distacco dalla famiglia e dalla terra di origine. Ho quindi assecondato una missione che sentivo dentro di me, quella cioè di costruire ponti per gli italo discendenti e riportarne in Italia quanti più possibile, rendendo accessibile questo ritorno anche per chi non ha le possibilità per farlo”
Come si è svolto il suo lavoro?
“Il libro è il frutto di una lunga esperienza e di molti anni di studio. Ricordo che quando parlavo di questo turismo delle radici in Italia tutti mi guardavano con grande perplessità, compresi gli operatori turistici, che non riuscivano a comprendere come fosse possibile far tornare in Italia i discendenti di quegli italiani che tanti anni prima erano partiti con le valigie di cartone. Non capivano come si potesse incentivare in loro il desiderio di tornare a casa. Ho portato avanti contemporaneamente uno studio sui territori per sviluppare una tipologia di accoglienza idonea per questi nostri figli che ritornano, un’accoglienza però non soltanto turistica; non a caso non utilizzo mai in questo ambito il termine turisti ma quello più appropriato di ‘rootisti’, ovvero destinatari di un ‘turismo da rootismo’ fondato su uno stile di viaggio che si chiama Rooting”.
Di cosa si tratta?
Il Rooting è un vero e proprio viaggio per le radici, con il ‘per’ che viene ad avere un duplice significato; quello cioè di voler ritrovare le radici attraverso le radici stesse, non solo quelle della propria storia ma della cultura italiana. Nel mio libro racconto anche le esperienze di altri Paesi che già negli anni ottanta hanno iniziato scientificamente ad organizzare viaggi di ritorno per i propri discendenti, in primis Scozia ed Irlanda”.
I risultati ci sono stati?
“Da noi questo tipo di turismo inizia finalmente ad affermarsi. Nel 2018 è stato istituito dal Ministero degli Esteri un tavolo su questo tema, ma ciò che io intendo fare con questo libro e con la mia attività, è far comprendere agli operatori turistici che non stiamo parlando di un turismo come tutti gli altri, ma di uno impregnato di memoria e di storia; una storia legata al grande fenomeno delle emigrazioni che fa parte del nostro Paese. Le emigrazioni però hanno storie diverse. C’è quella australiana che ha una sua caratteristica, quella nord-americana che ne ha un’altra, quella sud-americana che ne ha un’altra ancora; emigrazioni intrise di valori e di storia che gli emigrati italiani acquisivano nel Paese in cui arrivavano”.
Che tipo di metodologia ha seguito?
“La mia storia familiare l’ho ricostruita grazie alle lettere e ad anni di corrispondenza. Mi sono resa conto di come questo mio prozio emigrato avesse portato con sé tutti i valori della sua terra. Mi sono posta quindi un problema: se un emigrato dovesse tornare in Italia, come può riconoscere i valori che ha lasciato nell’odierno presente? Ho capito una cosa: l’accoglienza di queste persone non può essere demandata ai soli operatori turistici, perché il turismo delle radici è soprattutto un viaggio esperienziale. Il Rooting infatti non è soltanto un viaggio nella nostalgia e nei ricordi ma deve servire a far maturare la consapevolezza per gli italo discendenti di possedere dna italiano. Il ritorno di chi arriva per la prima volta nella terra di origine, deve essere appagante e rappresentare una sorta di momento della verità rispetto ad un’immaginazione che ha colmato il vuoto del distacco. Questo momento della verità deve dunque essere vero, altrimenti rischia di diventare un boomerang, di non riempire quel vuoto nella giusta maniera. Per questo sono andata nei territori e ho riunito intorno ad un tavolo attori pubblici e privati con una proposta integrata. L’accoglienza deve farla la comunità nel suo insieme, non soltanto la guida turistica, il ristoratore o l’albergatore. Il rootista diventa un ospite di valore, essendo un italiano fra italiani, un italiano non per cittadinanza ma per dna. Chi lo accoglie deve essere a sua volta sensibilizzato e formato, vanno create delle vere e proprie squadre di accoglienza o laboratori creativi, come amo definirli io, sui territori. E’ stato creato di recente un vero e proprio laboratorio di formazione sul tema, un laboratorio internazionale del Rooting (LIR) dove sono presenti anche ambasciatori di tutti i continenti ed esperti della materia, affinché si possa diventare un ponte fra turismo classico e turismo delle radici. I vantaggi non sarebbero soltanto economici e culturali ma soprattutto umani”.
Il suo libro dunque è un manuale di formazione, così possiamo definirlo?
“Il libro è composto di tre macro aree: la prima legata alle emigrazioni, la seconda alla genealogia, la terza costituisce un vero e proprio manuale tecnico di organizzazione territoriale per un’accoglienza all’altezza delle aspettative”.
Il 31 marzo ci sarà questo convegno sul tema. Cosa si aspetta?
“Ci sarà la presentazione ufficiale del libro. Non potevo che farla all’Archivio Storico di Napoli, dove è conservata la storia di tutto il centro-sud. Poi ci saranno rappresentanti autorevoli esperti di emigrazioni, di genealogia e di italianità. Il turismo delle radici non riguarda soltanto i discendenti, ovvero chi ha dna italiano, ma anche tutti coloro che attratti dall’italicità ne vogliono conoscere le radici culturali. Un libro che metto al servizio sia degli operatori pubblici che di quelli privati per conoscere il tema e offrire un modello di accoglienza unico in questo genere”.
Cosa ha scoperto di interessante in questi anni di lavoro?
“Ho scoperto che il mondo degli emigrati italiani non è affatto univoco, ma presenta delle differenze sostanziali. Ci sono emigrati di Boston o di Washington che sono molto divesi da quelli che stanno a New York o a Brooklyn. Pensi che a Brooklyn ci sono italo discendenti che parlano ancora molto bene il dialetto delle origini, mentre a Boston o Washington, per meglio integrarsi e avere successo, molti hanno preferito dimenticare la loro lingua. Il Rooting comunque fa sempre rifiorire la vita, ed ecco che molte delle nuove generazioni scoprono il desiderio di ritrovare le proprie radici pur non conoscendo una parola di italiano. Ho capito soprattutto che ogni generazione di discendenti ha vissuto l’emigrazione in maniera diversa, quindi ognuna va studiata e accolta in base alle proprie peculiarità e non con una visione unanime. Gli emigrati non sono tutti uguali. Esiste un abbisso enorme fra un emigrato australiano e uno sud-americano, si tratta di due mondi completamente opposti”.
Lei ha parlato di una missione. Davvero la percepisce come tale?
“Assolutamente sì, e mi appello agli operatori della comunicazione affinché non sottovalutino la qualità che questo tipo di turismo richiede. Una qualità non legata unicamente al servizio, ma una qualità soprattutto umana. Con il PNRR arriveranno anche fondi per il turismo delle radici, ma il rischio che si corre è quello di non dare la giusta importanza a questo settore, non conoscendo adeguatamente ciò per cui questi soldi saranno impiegati. Fondamentale sviluppare le competenze, perché questo tipo di turismo può davvero fare la differenza e rappresentare una grande occasione di ripartenza attaverso il Rooting Experience Planning®, la metodologia che descrivo dettagliatamente nel libro”.
Fonte: Lo_Speciale dove la notizia è solo l’inizio.