La sindrome da accerchiamento della Sicilia viene da lontano
Di Gianvito Pipitone
Il Mediterraneo è da sempre un quadrante fondamentale del nostro pianeta, oggetto di grande attenzione per gli interessi economici militari e strategici delle potenze di turno. Agli appetiti di attori internazionali del calibro di Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito, oggi si sono aggiunti quelli degli stati Mena (Medio Oriente e Nord Africa), fra cui emerge l’Egitto la cui ascesa, insieme a quella prepotente della Turchia, rappresenta la vera novità dell’area. Infine ci sono i paesi del Golfo Persico, come Iran, Qatar, Emirati Arabi, Arabia Saudita che, seppure dalle retrovie, svolgono comunque nel Mediterraneo i loro interessi imbastendo alleanze a suon di petroldollari. E l’Italia?
L’Italia si trova al centro del Mediterraneo e la Sicilia addirittura nel suo cuore nevralgico. Lo Stretto di Sicilia, braccio di mare largo 150 km che separa la Sicilia dalla Tunisia, è il punto di collegamento fra Gibilterra e il Canale di Suez, fra l’Atlantico e il Pacifico, fra le rotte del petrolio e quelle del gas: da qui transita più di un quinto del commercio mondiale.
Eppure, nonostante l’invidiabile posizione geostrategica, l’Italia appare clamorosamente disinteressata al suo elemento primario, un tempo veicolo di ricchezza e potere per l’intera penisola: il Mare Nostrum. Diretta conseguenza di ciò è la sufficienza con cui i vari governi italiani abbiano storicamente guardato alle potenzialità della sua isola più importante. Al punto da spingerla fra le braccia di altre potenze, piu’ attente e consapevoli della grande fortuna toccata alla Sicilia. Ma com’è possibile?
Per comprenderne le ragioni bisogna prendere le mosse dalla Storia. E, senza andare troppo lontano, fare un salto nel passato di 160 anni. Non fu un caso se la Sicilia venne scelta come approdo e base di partenza per la Spedizione dei Mille nel sud Italia, con lo sbarco di Marsala l’11 maggio 1860. Allo stesso modo, non fu un caso che 83 anni dopo, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, la riconquista degli Alleati contro le forze dell’Asse, iniziasse anch’essa dalla Sicilia, da Gela, il 9 luglio 1943, con l’operazione Huskey.
E non è un caso se, in entrambe le occasioni, le due invasioni segnarono un’importante svolta nelle successive operazioni militari. La prima occupazione ebbe lo scopo di cacciare i Borboni annettendo il Regno delle due Sicilie al Regno Sabaudo. Operazione di certo agevolata dalla neutralità “interessata” di Francesi e Inglesi, che vedevano di cattivo occhio la potenza Borbonica nel Mediterraneo. Allo stesso modo, durante l’occupazione del 1943, la Sicilia tornò ad assumere un’importanza geopolitica e strategica segnando per le forse alleate la prima tappa per la lenta e sanguinosa conquista della penisola ai danni del nazi-fascismo.
La (relativamente) facile conquista dell’isola, viene spiegata dagli storici grazie agli accordi presi sottobanco dagli Alleati con l’onorata società, in una sorta di patto fra cosa nostra siciliana e alcuni influenti boss italoamericani. Ad entrambi, peraltro, non sembrò vero di potersi rendere utili alla causa, in cambio di una vantaggiosa ricompensa in caso di vittoria: l’ Indipendenza dell’Isola.
L’indipendentismo in Sicilia affonda le sue radici nella notte dei tempi: un’idea probabilmente accarezzata in ogni tempo, nel corso delle dure dominazioni che si sono succedute ininterrottamente sull’isola. Di certo, all’indomani dell’Unità, un grave contributo alle ragioni del separatismo lo diedero i vari governi unitari che dimostrarono fin da subito di prendere sottogamba la Questione Meridionale, acutizzando i sentimenti di insofferenza contro uno stato percepito lontano ed incurante del destino del Sud, abbandonato in balia di sè stesso.
I governi successivi finirono solo per peggiorare la situazione: mancando di investire sulle potenzialità del territorio e sopratutto trattando le problematiche dell’isola con troppa sufficienza se non addirittura con altezzoso disprezzo. Una situazione che presto scappò di mano al governo centrale e che finì per portare i governi a scendere a patti con la criminalità organizzata per cercare di arginare i problemi via via rimasti irrisolti. Culmine di questa rovinosa strategia dello Stato Unitario fu toccato dal maldestro tentativo di dare una mano alla Sicilia, favorendo l’emigrazione verso le Americhe, specialmente gli Stati Uniti. Fenomeno che per un cinquantennio, dal 1870 fino al 1920, interessò più di un milione di persone, un terzo della popolazione siciliana di allora. Primo fondamentale fil rouge dipanato sull’asse Palermo-New York.
Il flusso migratorio si arrestò poi durante il ventennio fascista. Per riequilibrare il peso politico dell’Italia all’interno del Mediterraneo, Mussolini diede vita ai campi di addestramento a Sciacca, Gela e Comiso. Secondo i piani dei gerarchi fascisti, la Sicilia sarebbe dovuta diventare la base strategica per il controllo delle colonie del Nord Africa. Ma, lungi dal rendere l’Italia una grande potenza del Mediterraneo, la fallimentare strategia fascista, finì invece per aprire le porte all’invasione degli Alleati nel 1943.
E siamo al punto nodale. Il lascito per eccellenza della seconda guerra mondiale è proprio la massiccia presenza militare delle truppe statunitensi sul suolo italiano e in particolare in Sicilia. Sul tema separatismo, gli Usa si sarebbero sfilati in sordina, così come sulla ventilata annessione dell’isola, tirandosi infine fuori anche dal favorirne l’indipendenza dal resto dell’Italia. Come contropartita di questo nuovo patto di acciaio contratto con la Democrazia Cristiana, che si preparava all’ egemonia incontrastata sull’isola per i decenni a venire, gli americani finirono per ottenere in sostanza il controllo militare dell’isola. Allo stesso tempo, per tacitare le rumorose sirene del separatismo, venne concesso all’isola lo statuto speciale, ancora oggi la forma di autonomia più ampia fra quelle riconosciute alle regioni Italiane.
il MUOS (Mobile User Objective System) presso Niscemi (CL)
Negli anni successivi la presenza Usa sul suolo siciliano fu rafforzata, a partire dalla costruzione nel 1957 della base americana di Sigonella, a due passi da Catania. Installazione strategica per vigilare sui movimenti sovietici nel Mediterraneo. Comiso fu prescelto all’inizio degli anni ‘80 per divenire la sede d’installazione dei missili nucleari Cruise della Nato. Mentre nel decennio seguente, a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, si è aggiunto il MUOS, un moderno sistema di comunicazione satellitare della marina militare statunitense che prevede nel mondo solo altre tre varianti, due in America e una in Australia. Tutto ciò per sottilineare quanta importanza geopolitica rivesta la Sicilia nel sistema di comunicazione mondiali degli Usa. Un ruolo e una centralità che a Roma invece sembrano essere sempre sfuggite.
Importanza certificata anche dalla recente installazione sull’isola di Sicily Hub, un sistema di cavi internet che si snodano dalla Sicilia e che uniscono tre continenti (Europa Africa e Medio Oriente) fornendo agli Usa uno straordinario strumento di indagine e controllo dati su tutti i paesi dell’area.
Negli ultimi trent’anni comunque, la caduta del muro di Berlino ha sicuramente cambiato le carte in tavola, rendendo meno strategico il Mediterraneo per gli americani. La sesta flotta ha abbandonato progressivamente le sue acque prediligendo interessi dislocati in differenti parti del mondo, ma gli Usa sono comunque rimasti attivissimi nell’area grazie alle strumentazioni aereo spaziali. Nel frattempo, lo spazio lasciato libero dagli Usa nel Mare Nostrum è stato a poco a poco colmato da una pletora di Stati che, perseguendo una politica estera spregidicata, si sono accaparrati ampie fette di interessi nell’area.
Come ampiamente riportato altrove (vedi articolo Pari e dispari: chi sta con chi nel Mediterraneo) la Russia e soprattutto la Turchia la fanno ormai da padroni nella parte orientale del Mediterraneo, mentre dal blocco occidentale la Francia sembra la potenza più attiva nel tentativo di arginare la crescente minaccia turca. E di nuovo urge chiedersi: ma l’Italia in tutto ciò?
L’azione dei governi italiani continua ancora ad essere fortemente deficitaria, inquadrata in un ormai tradizionale cauto (e incomprensibile) atteggiamento attendista e di (in)cosciente passività, in cui sembra bastare il bearsi dell’amicizia con tutti, senza mai prendere posizione da una parte o dall’altra. L’impressione è che, relegata al tradizionale ruolo di gregario che la Storia sembra averle cucito addosso, l’Italia non abbia mai elaborato una propria strategia, risultando di volta in volta strettamente allineata ai dettami della Nato o dell’Unione Europea. Cosa che ha limitato da sempre il campo visivo degli obiettivi concreti alla propria portata. Un atteggiamento fin troppo ossequioso che sovente si è dimostrato sterile e alla lunga controproducente.
Purtroppo, con la guerra in Libia, a causa della sua ondivaga passività, l’Italia ha perso un’occasione utile per ricostruire i rapporti di forza nell’area, cedendo di fatto spazio a Turchia e Russia e non riuscendo nemmeno a recuperare sulla Francia che, a differenza dell’Italia, la sua battaglia strategica la gioca sempre a viso aperto, riuscendo in un modo o nell’altro a portare a casa qualche risultato concreto: giacimenti petroliferi, contratti di ricostruzione o diritti di pesca.
A questo punto, il rischio per l’Italia è quello di finire soffocata dagli interessi degli altri stati che premono ai propri confini marittimi. Le frontiere siciliane sono infatti naturalmente esposte alla minaccia e rappresentano un sensibilissimo elemento di fragilità. L’area di turbolenza e di instabilità che sta ancora attraversando buona parte del nord Africa (compresa la Tunisia recentemente) dovrebbe per lo meno mettere un po’ di fiato sul collo a Roma.
Acquisire maggior forza nell’area, pertanto, potrebbe spingere l’Italia a rinegoziare nuovi rapporti con i paesi nordafricani: si pensi al problema dei migranti oltre che ai negoziati mai conclusi sulle Zee (Zone Economiche Esclusive) e che ci vedono parecchio indietro rispetto al resto dei paesi mediterranei. E che, giusto per fare un esempio, consentono indisturbatamente all’Algeria di estendere la propria zona di interesse a due passi dalla Sardegna. Per non parlare del progressivo avanzamento di Turchia, Grecia, Malta, della stessa Tunisia, oltre che della Libia, su acque tecnicamente in disputa con l’Italia.
Ne sanno qualcosa i pescatori di Mazara del vallo, la cui unica colpa sarebbe quella di sconfinare in zone tuttora contese con la Tunisia o la Libia, laddove spesso i negoziati delle relative Zee si sono arenati (2014), a causa della debolezza dei nostri governi. E non c’è niente di peggio per le zone dei paesi transfrontalieri che dipendere da una politica che tiene in poco conto gli interessi dei propri cittadini.
Alla fine dei giochi, aveva ragione Sciascia quando parafrasando Goethe, affermava con la sua consueta ironia che “bisognava andare in Sicilia per capire quanto fosse incredibile l’Italia”.