IL PENSIERO MEDITERRANEO

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“La scomparsa di Benedetto XVI ha la tradizione nella salvezza” di Pierfranco Bruni

Papa-Benedetto-XVI

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Papa Benedetto XVI

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Con Benedetto XVI non solo finisce una epoca. Finisce un tempo ontologico della tradizione.  Era nato il 16 aprile del 1927. A Marki. Germania.  È morto il 31 dicembre del 2022. A Città del Vaticano. Un tempo. Un’epoca. Una missione.  Ha attraversato la luce ma anche il bosco e la foresta.
Il bosco e la foresta sono metafora di buio e di caos. Ci salverà la preghiera cidiceva spesso Benedetto. Il Papa della Tradizione. Ci salverà il Vangelo. Cristo che sciogli i nodi nella Croce della vita.  Siamo figli che cerchiamo nel bosco una fa lama di luce e nella foresta uno spicchio di umile speranza. Restiamo avventure oltre l’orizzonte. Nella “Imitazione di Cristo” il viaggio ha il suo sentire: “Nessuno è più ricco, nessuno è più potente, nessuno più libero di chi sa abbandonare se stesso e ogni cosa e porsi all’ultimo posto”. Dobbiamo uscire dal bosco che ci tormenta. Che tormenta la nostra frequente quotidianità. Da laico in Cristo credo che c’è una “teologia” del Cristo che ci possa far capire la storia. Ci possa far capire le lacerazioni nella storia. Un maestro di Fede è Benedetto XVI. 
Affidarsi al “potere del silenzio” è comprenderlo (Robert Sarah).  “Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire”, così nella “Omelia” che il Papa Benedetto XVI pronunciò il 24 aprire del 2005. Benedetto XVI citava spesso una chiosa di Sant’Ignazio di Antiochia nella quale si sottolinea: “E’ meglio rimanere in silenzio ed essere, che dire e non essere”. Si tratta di una Lettera agli Efesini. Il grande Pontefice, ovvero il Papa dallo sguardo lungo e dalla preghiera contemplante.  Perché la debolezza di Dio è più forte degli uomini nel messaggio paolino.
Antonio Socci ha tracciato un vero e ontologico passaggio cristologico nel suo “Avventurieri dell’eterno”. Con “Il segreto di Benedetto XVI” (Rizzoli) tocca alcuni nodi ancora non risolti e che non facilmente si risolveranno. L’attuale pontificato è un nodo di gordio. Ci saremmo dovuti domandare, come dovrebbero chiederselo ancora tutti i pellegrini in Cristo, perché Benedetto XVI è rimasto ancora papa? Emerito.

È un costante dialogare che parte proprio da Cristo nella centralità di un umanesimo che va oltre le frontiere di Bonifacio VIII per attraversare San Paolo nella Damasco del deserto e compiersi in Agostino che detta il linguaggio delle confessioni grazie alla definizione della bellezza come metafisica e mai come teologia. A questi riferimenti si era ancorata anche la filosofa spagnola Maria Zambrano, sulla quale lavoro da decenni per cercare di definire un pensiero come confessione appunto anche di un genere letterario. Zambrano è tra Sant’Agostino e Paolo.

Agostino diventa il porto che emerge dal sepolto per farsi Terra Promessa. Ma è il concetto di infinito che si sottolinea sia in Kierkegaard che in Dostoevskij, che sono sempre stati riferimebtiriferimenti di BenedBenedetto XVI,  in una dimensione che va oltre la siepe e si focalizza proprio nel concetto di eterno. 
Scrive Don Luigi Giussani: “Ognuno di noi è stato scelto attraverso un incontro gratuito perché si renda egli stesso incontro per gli altri. È dunque per una missione che siamo stati scelti…”. Una missione in questo nostro tempo. La lacerazione che ci attraversa tocca il vuoto delle coscienze ed è indifferenza il legame tra laicità e relativismo, tra sostanza ed essenza. Siamo dentro un viaggio privo di metafisica. Siamo anche stanchi ma mai ci si arrende. Mendicanti di deserti o nel deserto. Rincorriamo la Grazia e la Voce.
Don Luigi Giussani: “Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo“. Una “parabola” che diventa la metafora vera di questo nostro tempo di contraddizioni e scavanti lacerazioni. Siamo in cammino. Quale sarà mai il nostro porto o la nostra Isola o il nostro stare tra le vele in mare aperto?
La lezione di Don Giussani diventa caratterizzante come quella di Benedetto XVI ed è chiaro che siamo ad un pensiero forte e non relativista come nei tempi bui che luce non conoscono. Ciò è evidenziabile, ovvero il pensiero forte, nei suoi viaggi raccontati sulla vita sia di Paolo che di Gesù.

Fragilità e certezza. Due punti di partenza. Eterno e infinito. Due punti di arrivo.
Perché questo?
Scrive San Tommaso d’Aquino: “L’ultimo fine della vita umana è la visione di Dio”. Allora qui si incontrano la filosofia dell’umanismo e la teologia cristologica. Infatti è il “Cantico delle Creature” che pone una tale dimensione nella quale ci si rispecchia.
Senza il valore dell’eternità nessun concetto avrebbe più senso. Si incontrano il cercare e il trovare e interagiscono. Nella vita inquieta del cristiano vale l’osservazione che Kafka scrisse nel 1916: “Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene trovato”.
Siamo in quel cammino del mendicante al quale facevo riferimento con Don Giussani e al quale rimanda l’immagine di Giovanni Paolo II.

Ma è il libro di Benedetto è il libro di una esistenza cristiana profonda. Attraversato completamente dalla consapevolezza metafisica in un tempo in cui la guerra dichiarata ai cristiani dal mondo Ottomano investe una gravissima geo-esistenza. Una guerra dichiarata contro la tradizione della cristocentricità. Ratisbona resta una testimonianza di coraggio e vvirtù.
Gli strumenti cattolici attuali sono debolissimi.
Saremo islamizzati? La nostra temperie è il vissuto estremo di uno scontro.
Benedetto sapeva benissimo che
si scontrano due modelli di cultura e due paesaggi di civiltà in una fase in cui la distinzione tra Cattolici e Cristiani è ben consistente.
Il viaggio non smette. Ma noi cristiani in Cristo poniamo come principio fondamentale la Tradizione. In questi tempi dolorosi non dobbiamo mai smettere di essere testimoni di Cristo. Ma dobbiamo soprattutto saperlo testimoniare. Nel mistero dell’incontro e dell’infinito il Cristo rivelante. Lungo quale strada percorrere il cammino? Resta l’interrogativo ma abbiamo bisogno di vivere nella Profezia.

Così Maria Zambrano, che Benedetto conosceva bene: “Il sapere delle cose della vita è frutto di lunghi patimenti, di lunga osservazione, che ad un tratto si condensa in un istante di lucida visione. Tale sapere si rivela dietro un evento estremo, un fatto assoluto, come la morte di qualcuno, la malattia o la perdita di un amore”. Il problema si pone con molta gravità, oggi. Benedetto è la cristianità nella tradizione. In quella tradizione in cui il mio viaggio si fa rivelante!
Perché Benedetto XVI è rimasto papa fino alla morte? Egli sottolinea: “Possiamo nel silenzio della ‘notte oscura’, ascoltare tuttavia la Parola. Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’Amore” (2013). Non vanno dimenticate le parole di questo grande Pontefice pronunciate nel momento della sua andata via dal Soglio di Pietro: “Chi crede si affida completamente a Dio e per questo non teme di perdere nulla, avendo Lui come ricchezza”.

Perché tutto ciò? Il suo saluto sta in questa benedizione: “Dio è amore. Ma l’amore può anche essere odiato, laddove esige che si esca da se stessi”. Il bosco e la foresta hanno lame di luce soltanto nella fede in Dio. Cosa ci resta? Ciò che disse sempre Benedetto: “Oggi la barca della Chiesa, col vento contrario della storia, naviga attraverso l’oceano agitato del tempo. Spesso si ha l’impressione che debba affondare. Ma il Signore è presente e viene nel momento opportuno. ‘Vado e vengo a voi’: è questa la fiducia dei cristiani, la ragione della nostra gioia”.
Ed così che Benedetto comprese e dialigò con l’Assoluto:
«Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte. In proposito mi ritorna di continuo in mente quello che Giovanni racconta all’inizio dell’Apocalisse: egli vede il Figlio dell’uomo in tutta la sua grandezza e cade ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di lui la destra, gli dice: “Non temere! Sono io…”». Un viaggio nell’assoluto che è Cristo.

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L’uomo che vive è nel divino. Il divino viaggia nell’uomo in Cristo. L’uomo storia finisce nella storia narrata dalla cronaca. L’uomo religioso è nell’antropologia dell’umanesimo che è ontologia della preghiera. Orante,  Benedetto XVI ha scritto la cristianità del Cristo dal miracolo alla nascita, da Betlemme al Tempio, dalla Croce alla Resurrezione.
La storia non siamo noi. Noi siamo il nostro destino. Si vive dentro le città dell’anima e dei deserti. Provengo da una scuola di pensiero tradizionalista. Benedetto XVI ebbe a scrivere coraggiosamente: “La filosofia descrive in fondo precisamente ciò che la fede chiama «peccato originale». Questa specie di «mondo» deve scomparire; deve essere trasformato nel mondo di Dio. Proprio questa è la missione di Gesù, nella quale i discepoli vengono coinvolti: condurre il «mondo» fuori dall’alienazione dell’uomo da Dio e da se stesso, affinché il mondo torni ad essere di Dio e l’uomo, nel diventare una cosa sola con Dio, torni ad essere totalmente se stesso. Questa trasformazione, però, ha il prezzo della croce e per i testimoni di Cristo quello della disponibilità al martirio”.
La Chiesa di oggi vive in una profonda crisi. Una crisi di “cristianità”. Ovvero di identità cristiana. È come se mancasse il carisma del Cristo. La parola é una Esistenza dell’Essere. Accogliere in Cristo è la verità assoluta smarrita.

DIO, CRISTO NON SCOMUNICA. ACCOGLIE. IL DIVINO NON CONOSCE IL VERBO SCOMUNICARE. NON SAREBBE DIVINO CRISTO DIO.

Benedetto XVI è il Papa della lungimiranza profetica. Le sue parole sono le parole serie che hanno un vero senso. Il vero Papa. Il Papa della verità! Il divino è una metafisica dell’anima che raccoglie gli orizzonti della Fede e della Devozione. Essere in Cristo ed essere in Maria è una partecipazione mistica che vive la teologia del sacro come unità sacramentale.
Soltanto nel divino Cristo diventa uomo e ci partecipa il suo Viaggio nella profondità della innocenza che è conoscenza. Il relativismo è figlio della Ragione. Fede e Ragione sono, insieme, la profezia della provvidenza. Una Ragione che non è illuminismo. Non può esserci illuminismo nella Fede – Ragione.
Benedetto XVI: “La libertà di Gesù non è la libertà del liberale. È la libertà del Figlio e così è la libertà di colui che è veramente pio. Come Figlio, Gesù porta una nuova libertà, ma non quella di colui che è senza alcun legame, bensì la libertà di Colui che è totalmente unito alla volontà del Padre e che aiuta gli uomini a raggiungere la libertà dell’unione interiore con Dio”.
Il sacro divino ha la bellezza della vita oltre la fine. La Fede non si pone il problema del relativo del progresso ma ha la divinità del sacro che rende umani. Bisogna vivere teologia e filosofia come unicum per dare al divino l’umanità. L’uomo si sradica nel solo umano. Ha bisogno di radicarsi nel divino. Il rispetto del divino rende rispettoso l’umano. Non il contrario. Le civiltà umane nascono radicate in Dio.
“La vera adorazione di Dio, allora, è dare se stesso a Dio e agli uomini, la vera adorazione è l’amore. E la vera adorazione di Dio non distrugge, ma rinnova, trasforma. Certo, il fuoco di Dio, il fuoco dell’amore brucia, trasforma, purifica, ma proprio così non distrugge, bensì crea la verità del nostro essere, ricrea il nostro cuore”. Cosi Benedetto XVI – dalla “Udienza Generale del 15.06.2011”.
Dio non scomunica mai. Accoglie sempre. La grande lezione di Benedetto. Resta una pietra miliare: “«SPE SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24). La «redenzione », la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l’affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c’è, noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?”.

La mia visione di cristiano non cattolico, in questa stagione di forte radicalismo relativista, è dentro una posizione che pone seri interrogativi antropologici alla cultura DELL’UMANESIMO.
Di grande attualità è questo monito di Benedetto: “La presunzione, che vuole fare di Dio un oggetto e imporgli le nostre condizioni sperimentali da laboratorio, non può trovare Dio. Infatti si basa già sul presupposto che noi neghiamo Dio in quanto Dio, perché ci poniamo al di sopra di Lui. Perché mettiamo da parte l’intera dimensione dell’amore, dell’ascolto interiore, e riconosciamo come reale solo ciò che è sperimentabile, che ci è stato posto nelle mani. Chi la pensa in questo modo fa di se stesso Dio e degrada così facendo non solo Dio, ma il mondo e se stesso”.
L’uomo è tale soltanto se riesce ad anteporre alla ragione illuminista una Ragione umana, ovvero immanente in cui il senso della materia è assorbita dalla rinascita dell’uomo che vede in Cristo la guida e la sentinella dell’umanesimo. Il volere e la fede sono principi e non valori. La volontà è un destino ma anche una rivelazione. Fede e Ragione sono l’uomo nuovo. Benedetto ha posto al centro la perseveranza. Mai la scomunica. Scomunicare è inquisire.
Il mio punto di riferimento resta la figura di Benedetto XVI. Un Papa che ha saputo legare la teologia vivente con la filosofia. È un problema molto serio. Bergoglio dovrebbe assumersi una responsabilità di verità e togliere il disturbo. Perchè “Dio è sparito, chi agisce è ormai solo l’uomo. Il rispetto delle «tradizioni» religiose è solo apparente”, così ancora Benedetto XVI.
Benedetto è la via maestra soprattutto in una temperie terribile come quella che stiamo attraversando.
La sua lezione è fondamentale soprattutto quando chiosa nel suo “Gesù di Nazaret”: “…il mondo antico – come ha mostrato soprattutto Henri de Lubac – ha vissuto l’irruzione della fede cristiana come liberazione dalla paura dei demoni, una paura che nonostante lo scetticismo e l’illuminismo [del mondo greco] dominava tutto; e lo stesso accade anche oggi ovunque il cristianesimo prende il posto delle antiche religioni tribali e, trasformando i loro elementi positivi, li assume in sé…”.
Ancora: “Il mondo è ora presentato nella sua razionalità: proviene dalla Ragione eterna e solo questa Ragione creatrice è il vero potere sul mondo e nel mondo. Solo la fede nell’unico Dio libera e “razionalizza” veramente il mondo. Dove essa scompare, il mondo diventa solo apparentemente più razionale. In realtà devono allora essere riconosciuti i poteri del caso, che non si possono definire; la “teoria del caos” affianca la conoscenza della struttura razionale del mondo e mette l’uomo di fronte a oscurità che egli non può risolvere e che pongono un limite all’aspetto razionale del mondo. “Esorcizzare”, collocare il mondo nella luce della “ratio” che proviene dall’eterna Ragione creatrice come pure dalla sua bontà risanatrice e a essa rimanda – questo è un durevole e centrale compito dei messaggeri …”. Da qui un viaggio per una cristianità in Cristo. In cristianità di salvezza dell’uomo c’è l’Uomo della Salvezza. Il messaggio nel tradizionalismo della Chiesa.

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La presenza di Benedetto XVI è un inciso nella storia della chiesa certamente, ma è soprattutto un viaggiatore che traghetta il mistero nella ontologia del Cristo Croce nel Cristo Resurrezione.
Ho sempre guardato alla figura e all’opera di Benedetto XVI con molta attenzione. Cristo è sceso dalla Croce e ha indicato la via della storia e della ragione contrapponendola a quella del mistero in Cristo.
Non c’è una chiesa potere e una chiesa del dolore. La chiesa è unica. Potrebbe esserci una chiesa dell’utopia. Condivisibile ma andiamo oltre. Ho ribadito in molti modi scritti che la teologia, e questo è un dato pregnante di significati, spiega ed ha bisogno di ubbidienza e quindi come tale necessita di una ragione storica. Se manca l’ubbidienza si è fuori. Anche il marxismo ha una sua teologia.
Benedetto XVI nei suoi scritti va oltre la ragione storica. D’altronde i suoi libri su Gesù sono una testimonianza in cui l’antropologia dell’umanesimo supera l’antropologia della ragione. Non può esserci condivisione tra elementi nascenti dalla ragione ed elementi vitali nel sacro.
La ragione è la contestualizzazione dell’uomo storico che dilania ogni metafisica e sa di poter contare sull’ideologia. Il sacro non ha bisogno della storia perché ha la fede. La fede è l’incontro, e se vogliamo lo “scontro/conflitto” tra la certezza e il dubbio in nome di una ontologia dell’anima che è la salvezza.
Cristo è la salvezza nella fede ma è anche il dubbio stesso della salvezza nel momento della domanda fatale del Dio “perché mi hai abbandonato”. Ma Cristo è fede. Occorre riabituarsi alla fede. Questo non significa teorizzare la fede attraverso l’assoluto della teologia. La teologia, in fondo, è una versione di una prassi.
Benedetto XVI rompe, nei suoi scritti, la prassi teologale e si affida completamente alla solitudine di Cristo che è l’esempio della salvezza che si incarna nella ricerca degli uomini in una testimonianza di mistero. Certo, nella ragione può albeggiare la carità. Ma la carità laica è completamente diversa da quella cristiana.
Benedetto Croce è distante dalla fede perché ha la consapevolezza di averci educato al richiamarsi al Cristo cattolico, ovvero  “perché possiamo non dirci cristiani”? Ma possiamo essere, come direbbe Francesco Grisi, cristiani volenti o nolenti? Necessariamente cristiani?
La chiesa carità passa dentro la chiesa potere. È pur vero che non c’è soltanto una chiesa. Ma la chiesa in senso prioritario è fedeltà alla teologia. Cristo non è teologia.
Il Concilio Vaticano II è stato il segno di una rottura epocale ma anche epicale tra due mondi cattolici. Doveva rispondere alle chiavi di lettura di un mondo completamente socializzato dalle ideologie. Doveva rispondere ad una domanda posta dalla ragione nella storia. Il Vaticano II è stato il trauma nell’uomo cristiano in Cristo nell’età degli smarrimenti contemporanei.
La vera malattia mortale che risponde alla agonia kierkegegaardiana trova la sua caduta proprio nel vortice del Vaticano II. Ed è in questi anni che il marxismo non viene rinnegato, che il comunismo domina il mondo, che la ragione marcusiana prende il sopravvento che il muro sartriano demolisce la grazia dettata da una Cristina Campo.
Il rapporto tra letteratura e teologia esiste. Gli equivoci di Ravasi sono dimostranti. C’è una chiesa potere sul sublime della cristianità. Chi è riuscita a leggere la caduta camusiana dell’uomo in rivolta dell’età contemporanea non è la teologia muta e cieca, ma è la letteratura perché dentro la letteratura il mistero, la disperazione, il dolore della morte come fine, come suicidio, come perdita e non come consolazione ha preso il sopravvento.
La teologia ci “spiega” la resurrezione? La morte, la Passione, la Resurrezione sono nel mistero divino. La teologia ha bisogno della storia e della ragione per esistere. Cristo ha bisogno della rivoluzione per vivere e farsi sentire.
Il dibattito è molto duro. Ma viviamo in un tempo di sradicamenti e la memoria non ci aiuta e neppure ci salva. Abbiamo bisogno di esempi costanti in cui l’ambiguità, l’ipocrisia, il doppiogiochismo possono essere vinti solo dalla ribellione, dalla metafisica dell’anima, dalla rivoluzione antropologica dell’umanesimo.
La chiesa deve farsi carico delle sue gravi responsabilità tra la carità, il confronto con le eresie e le intolleranze. Non bastano più i codici. Occorrono gli esempi. Il miracolo è un esempio e non lo compie la teologia. La grazia è un esempio metafisico ed cristiano, la fede è un segno del divino. Aspetti sui quali nessun può offrire spiegazioni.
La storia vive fino a quando il mistero di Cristo resta nel silenzio. Nel momento in cui Cristo decide di scendere dalla Croce la teologia viene sconfitta e prende corpo la grazia oltre la ragione. Benedetto XVI: la metafisica del Cristo dentro il mistero miracoloso. Partendo dagli scritti sacri riesce a dialogare con Ivan Karamazov. Ed è qui che Benedetto XVI resta dentro la tradizione della cristianità attraversando le teologie superandole. Un mistico con accanto la profondità metafisica.

Benedetto XVI è l’esempio di una cristianità. Chiudendo il suo dramma Ignazio Silone ci fa vivere questo terribile dialogo. Parla Gioachino (a fra Tommaso). “Dimmi, che ne faranno? Cosa pensi?”. Risponde Fra Tommaso (con voce lenta e incerta quasi un balbettio per l’intimo sgomento): “E’ probabile che torneranno di nuovo a offrirgli un compromesso. Non c’è dubbio che lui lo rifiuterà. E allora temo che l’uccideranno… E poi, poi lo faranno santo. Non cerchiamo di capire. Il destino di certi santi, da vivi, è tra i misteri più oscuri della Chiesa”.

Pierfranco Bruni

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