IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“La ragazza cilena” tratto da “Racconti attorno al mediterraneo e anche oltre” di Vincenzo Fiaschitello

Racconti-di-Vincenzo-Fiaschitello

Ai bordi dell’acqua, Joaquin si chinava a raccogliere piccoli sassi bianchi e lisci, li lanciava lontano di piatto sul pelo dell’acqua. Scivolavano due tre volte prima di scomparire, inabissandosi, disperdendosi, sul fondo del fiume tra mille altri.

Josefina, la lavandaia, portava in seno un foglietto di carta su cui aveva copiato la poesia di un poeta sconosciuto, che aveva trovata scritta a matita sull’ultima pagina bianca di un libro di preghiere, lasciato o dimenticato su una sedia della chiesa:

Amore che crei un varco

nelle parole ostili,

sei la pioggia che cresce il fiore,

sei la pioggia che tramuti il mondo

e lo fecondi.

Amore che apri i cuori

e invincibile scendi a bagnare

di speranza

chi speranza non ha più.

Così lontano sorgi come luna piena

all’est di questa fine estate,

ma solo per la fiera gioventù.

Io aspetterò che t’alzi

su questo cielo terso e all’ovest,

consumata, dietro i monti

ti nasconda.

E sempre mi chiederò cosa c’è

oltre l’amore!

Lavava i panni  e, catturando l’acqua del fiume, si scusava perché turbava la sua bellezza. Sulla pietra arrotondata sbatteva i panni e chiedeva perdono per quel logoramento continuo. Anche là svaniva la bellezza, la bellezza così fragile, così temuta come la morte, dallo stesso passo rapido e travolgente.

Joaquin si fermava spesso in quel luogo, perché aveva notato che la lavandaia era sempre accompagnata da una ragazza dai capelli scuri, dall’aspetto già di donna con un seno prosperoso, ma dagli atteggiamenti ancora di fanciulla, che amava correre scalza, nascondersi tra le rocce e le macchie di arbusti.

Un giorno vide che la ragazza affondava i panni nell’acqua, li torceva e li sbatteva su un sasso come faceva la madre:

alzando il busto e chinandosi, mostrava la bellezza del suo seno, quasi seguendo il ritmo di una musica misteriosa.

Joaquin si era fermato a guardare incantato!

La madre se ne accorse e disse alla figlia: “Ecco, Monserrat, c’è un tuo ammiratore; mi sembra come il giovane poeta che proprio così mi guardò la prima volta e più non mi lasciò!”

La lavandaia gli fece cenno di avvicinarsi e quello prontamente con due agili salti le raggiunse. Un lieve rossore coprì le guance di Monserrat, che si tirò su vergognosa, aggiustandosi la veste.

Non c’era giorno che Joaquin mancasse all’incontro mattutino. E in breve tutto divenne così spontaneo e naturale che i due, lasciata la donna a lavare i panni, si dedicarono a lunghe passeggiate sull’argine del fiume, parlando, scherzando, ridendo allegramente e correndo. Ogni tanto si fermavano a cogliere i fiori e un mazzetto lo offrivano alla madre.

Josefina sorrideva e un mattino iniziò a raccontare:

-Un fiore dopo l’altro mi portava. Un figlio dopo l’altro mi nacque da quel poeta sconosciuto!

E lui sapeva, oh quante cose lui sapeva! Così un giorno gli dissi:” Tu che mi hai offerto il fragile fiore dell’amore, ora aiutami a crescere il fiore del sapere dentro di me, perché possa condividere con te quel che la tua mente rumina”.

Mi parlò di Ulisse e di Achille, di Elena di Troia e piansi sulla sua colpa pubblicamente confessata, perché in ogni donna c’è un’Elena, il suo sentire, la sua voglia di vita.

-Non piangere, disse lui, è una fortuna che sia esistita Elena, come ci narra Omero, altrimenti non ci sarebbe stato l’impareggiabile poema.

-Lavavo i panni tutti i giorni e lui, accanto a me, seduto su una roccia, mi leggeva le sue poesie di amore e di morte. L’ascoltavo e spesso non potevo trattenere le lacrime.

Ma dove erano i nostri figli? Viveva solo quello che portavo in grembo: questa ragazza che ora tu vedi. Gli altri, uno dopo l’altro, così come l’amore li aveva generati, la morte li rapiva.

Un mattino mi soffiò all’orecchio: “Oggi sono stato come la scopa di saggina che ha ripulito la corte di ogni specie di escrementi. Ma sento che ora non me la perdoneranno. Li ho incalzati e inchiodati con dati oggettivi e inoppugnabili, ho messo in mostra la loro malafede, la loro ingordigia, il mostruoso egoismo delle loro azioni. Ciò che chiamano “politica”, altro non è che attività non già volta al bene comune, ma all’interesse personale, al proprio particulare. Ecco sento che già vengono a prendermi, stanno affilando le loro spade per la vendetta. Ma prima che ciò avvenga, mia sposa, ho da dirti che da sempre ti ho amato, perché sempre sono stato innamorato dell’amore. Il flutto dei ricordi, come onde del mare che ribolle per il fortunale che spezza silenzi, odori e colori, mi fa naufragare nella memoria delle nostre vite così unite, così disunite. Il lungo percorso che insieme abbiamo fatto è stato dolce e amaro, la gioia ci ha colto, ma anche la noia. Ma sono felice di aver compreso qual è la vera condizione dell’uomo: la tristezza. Il profumo del gelsomino era nel nostro giardino, ma giungeva fino all’inferno!

-Non sapevo che rispondergli, ma capivo che le sue poesie, infine, avevano fatto breccia, avevano aperto un varco per il quale era transitata la verità e quelli, gli oppressori, i giustizieri, i salvatori della patria, non potevano come sempre che opporsi con la violenza. Lo costrinsero a salire su un camion carico di giovani e non fece più ritorno. Qualcuno disse che il mare, quel mare che tanto amammo e insieme coltivammo come giardino, dove crescevano i nostri sogni, lo inghiottì avidamente.

Joaquin aveva ascoltato quella storia insospettabile e i suoi occhi si erano colmati di lacrime. Poi, scusandosi e guardando ora la lavandaia, ora la ragazza, disse: “Anch’io scrivo poesie e amo la libertà!”

Quel giorno Monserrat e Joaquin camminarono scalzi a lungo; di tanto in tanto si bagnavano i piedi, ma non raccolsero fiori. Come per una silenziosa intesa, si limitarono a guardarli, perché non volevano spezzare il loro stelo e farli soffrire.

Via via che passavano le settimane, i loro pensieri sembravano sempre più all’unisono; si accorgevano che appena uno dei due accennava a qualcosa, subito l’altro o l’altra riconosceva che anche lui o lei stava pensando la stessa cosa, come se nei loro pensieri suonasse la stessa musica, lo stesso canto, il canto dell’amore. Per i due giovani era come se ora il mondo parlasse una nuova lingua, tutto sembrava diverso rispetto solo a qualche giorno prima. Il cielo, le limpide acque del fiume, i fiori, i piccoli animali che passavano davanti ai loro occhi, il verde dei prati e degli alberi, la linea dell’orizzonte lungo i monti lontani, tutto era espressione di una bellezza unica, manifestazione di gioia e di libertà, di gentilezza, di simpatia e di pietà. Sì, di pietà, perché in tutte quelle immagini conviveva la caducità, un germe di tristezza per la fine, presagita o annunciata. E, allungando il braccio, il giovane toccava con la mano una foglia accartocciata, pronta a staccarsi dal ramo, raccoglieva da terra una mela bella e colorata e. rigirandola, vedeva un piccolo foro dal quale fuoriuscivano piccole formiche.

Monserrat osservò che la caducità non è solo parte della natura, ma è provocata o accelerata dall’uomo, quando questi si vota al male, quando uccide senza ragione gli animali, quando distrugge con il fuoco i boschi, quando taglia le foreste indiscriminatamente, quando inquina l’aria e la terra, quando fa inutilmente soffrire i suoi simili, uccidendoli, torturandoli, togliendo loro la libertà.

-Ecco, diceva Joaquin, è per impedire tutto questo che io scriverò e mi batterò. La mia vita sarà in difesa degli umili, della democrazia e della libertà.

La sua gente, la terra dove era nato, sfortunatamente stava attraversando un momento difficile. Scioperi, proteste per le strade delle città, violenze, assalti e ogni forma di soprusi si susseguivano ogni giorno. Le repressioni diventavano sempre più sanguinose, perché chi deteneva il potere temeva di perderlo, temeva di non difendere abbastanza la ristretta cerchia di privilegiati che lo appoggiavano, contro le masse ridotte in miseria.

Tra coloro che lottavano per le strade e scrivevano sui giornali clandestini in  opposizione al regime dittatoriale, c’era anche Joaquin. La polizia lo aveva “schedato”: ogni sua mossa, ogni suo articolo, approvato con entusiasmo dalla gente, veniva puntualmente segnalato al dittatore. Usava un linguaggio immaginifico che piaceva alla gente semplice: le sue parole erano come sentenze che restavano scolpite nella memoria del popolo: “Il dittatore è come il fuoco, tutto distrugge, brucia ciò che tocca e lascia cenere e polvere…il dittatore è un presente-assente che vive la morte degli altri… i suoi seguaci sono svegli e crudeli, ma vivono come se dormissero”.

I carcerieri che lo vedevano piegato e dolorante sul tavolaccio della cella, dopo un interminabile interrogatorio-tortura, ironizzavano sulla sua attuale condizione: “Ma tu non sei quello che ha scritto che la libertà come l’amore annienta la mortalità, fa scordare all’uomo il duro passo verso la morte?  Puoi ancora dire: Io sono libero e amo e la morte non conosco?”

Con un filo di voce, tra urla e sgangherate risate di quelli, il volto sconvolto dai grumi, la bocca sanguinante, gli occhi deturpati dai colpi, Joaquin rispondeva:

“Poveri servi di un dittatore, complici di un ladro di libertà e di vite e di denaro, ancora per poco godete di una sorta di aldilà per i vostri altissimi meriti. Il dittatore, di cui vi proclamate fedeli, non potrà salvarvi, né potrà salvare se stesso. Non si è accorto che i guardiani della libertà si stanno moltiplicando in questa terra, contro di loro nulla potrà, perché essi, come me, sono guardiani della libertà della via Lattea, sono i campanari, pronti a suonare tutte le campane oltre le stelle, affinché nessuno dimentichi l’amore e la libertà. Per quanto ci percuoterà le membra e farà ancora scorrere il sangue, il vostro feroce dittatore non potrà mai trovare i confini della nostra anima, così profonda essa naviga nel mobile mare”.

Ma quelli non capivano. Uno di loro gli si avvicinò e gli sferrò un calcio allo stomaco, facendogli perdere i sensi.

Più di dieci giorni durò il calvario degli interrogatori e delle torture, poi Joaquin e molti altri giovani furono caricati sui camion e portati in un luogo segreto.

Accadde che la rivolta del popolo si fece sempre più audace e aspra, ma quando scesero per le strade i blindati, i carri armati e i soldati che spararono sulla folla senza pietà, il dittatore finì con il prevalere e non ci fu spazio per la democrazia e la libertà.

Monserrat non smise mai di cercarlo, ma inutilmente. Lui e  centinaia di altri furono inghiottiti nel nulla.

Molti anni dopo, quando il tempo della dittatura era ormai un pallido ricordo, madre e figlia andarono insieme a visitare i luoghi dell’antica bellezza. Il fiume scorreva ancora, lungo gli argini i fiori erano in attesa degli innamorati, il sasso su cui sbattevano i panni era sempre al suo posto, più bianco di allora.

La donna disse: “Forse è proprio vero che sarebbe meglio non ritornare dove si è stati felici!”

-A meno che non sia necessario!- aggiunse la figlia e scoppiò in lacrime.

Da Vincenzo Fiaschitello: Racconti attorno al mediterraneo e anche oltre, Avola, Libreria Editrice Urso, 2017

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