IL PENSIERO MEDITERRANEO

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La puccia dell’Immacolata: quando la Vigilia è già festa!

puccia

di Alessandra de Matteis

Il gallipolino (e il salentino in generale) possiede un’innegabile qualità: ama le feste.
Le ama così tanto che tende ad anticiparle, santificando le vigilie, in modo tale che l’attesa diventi essa stessa una vera e propria festa.
E già da molti giorni prima si comincia a pensare, a fare liste della spesa, per far sì che non si dimentichi nulla di quanto prescritto dalla tradizione e che questa sia rispettata nel modo più preciso possibile.

Una delle grandi fortune possedute da coloro che vivono nel Salento consiste nel fatto che, in fin dei conti, non ci si deve arrovellare troppo per studiare il menu del giorno della ricorrenza da onorare: è la storia stessa che consegna alle generazioni l’elenco puntuale di ciò che va consumato, a pranzo e/o a cena.

Ciò è legato in maniera indissolubile alla religiosità, in quanto un tempo, quando era più raro che le donne lavorassero fuori casa e che non dedicassero l’intera giornata alla cura della famiglia e alla cucina, durante le solennità esse avevano l’incombente della partecipazione alle funzioni in chiesa.
Pertanto, si ingegnavano nell’escogitare pasti veloci o che potessero essere preparati in anticipo come, ad esempio, il giorno della Madonna Addolorata a Gallipoli, durante il quale la messa viene celebrata a mezzogiorno, la cosiddetta pignata de pasuli, ossia fagioli (cotti un tempo nella terracotta), da condirsi con olio e limone, un pasto sostanzioso ma semplicissimo e frugale. Ma di questo si parlerà a tempo debito, perché si sa, “preteche e maluni vane cu stagiuni” (prediche e meloni vanno con le stagioni).

Imminente, invece, è la vigilia dell’Immacolata Concezione, ricorrenza che in tutto il Salento prescrive il digiuno devozionale, da rompere a pranzo con l’attesissima puccia.

puccia gallipolina

Due punti vanno chiariti preliminarmente. In primo luogo, la puccia è un panino comunissimo nelle nostre zone, e viene consumato durante l’intero arco dell’anno.
Se ne conoscono diversi tipi: quella semplice, di semola e farina bianca, da farcire nei modi più disparati; quella con le olive rigorosamente non denocciolate, a cui si aggiungono, di solito, le celline, olive nerissime raccolte a novembre, fatte fermentare naturalmente per alcuni mesi, e poi conservate in acqua e sale; e infine le ‘mpille, che hanno nell’impasto base un misto di pomodoro, cipolla, olive e verdure (solitamente zucchine).

La puccia dell’Immacolata, impropriamente chiamata in questo modo perché, appunto, si consuma il giorno della vigilia, è invece una questione a sé, un unicum già a partire dai formati, che vanno da un minimo di 250 grammi ad un massimo di 1 Kg.
Negli ultimi anni spopola il fai da te, per cui è frequente che chi abbia tempo, voglia e le capacità necessarie per farlo, la realizzi in casa.
Tuttavia, è il profumo nel quale ci si imbatte passando nei pressi di un panificio durante le prime ore del mattino del 7 dicembre che annuncia già la festa: è sempre profumo di pane, ma oggi ha qualcosa in più.

Già, perché la farina non è impastata solo con acqua, lievito, olio e sale: è impastata con le voci, i volti, le luci, i suoni, le emozioni e i profumi di casa, di un “tempo che fu” di cui gli anziani hanno nostalgia e su cui i bambini di oggi costruiranno dolci ricordi per quando saranno adulti. Identità: è tutto su questo sottile gioco di imprinting di cultura, riti, sacralità e profanità che viene costruito ciò che siamo.

Vi è poi da precisare che, in realtà, non esiste “la” puccia dell’Immacolata. Esiste “una” puccia per ogni zona del Salento, e il tutto dipende dal condimento, che può prevedere i pomodori, sottaceti, ricotta forte, formaggio dolce o piccante, mentre a Gallipoli è rigorosamente con tonno, capperi, acciughe e olio.
È bene chiarirsi subito: non ne esiste uno giusto o uno sbagliato, sarebbe come dire che una tradizione sia migliore di un’altra e ciò è, oltre che impossibile, poco realistico.

puccia gallipolina con olio, tonno, capperi e acciughe
Puccia gallipolina con olio, tonno, capperi e acciughe.
Foto di Giorgio Albate.

Si sa che nessun posto è come casa e, sembrerà strano, ma non si sta discutendo di un semplice pezzo di pane: si tratta, piuttosto, di un rituale, di qualcosa di “religioso”, non nel senso di “cattolico” del termine, ma una questione “intima” che, seppur condivisa attorno a un tavolo, ha una valenza e un sapore estremamente soggettivi e individuali.

È però scontato che, per quanto sia vero il motto “paese che vai, usanza che trovi“, sia pur vero che ai più integralisti della tradizione risulti indigesta ogni variazione sul tema o contaminazione attraverso l’introduzione di abitudini limitrofe: questi irriducibili, ad esempio a Gallipoli, mal tollereranno un concittadino che, al ripieno di tonno, capperi, acciughe e olio d’oliva aggiungeranno formaggio, pomodoro, origano.
E mai perdoneranno gesti estremi quali un sottile velo di maionese e ancor peggio il salame, perché in quest’ultimo caso, oltre ad essere colpito l’orgoglio, viene violata anche la prescrizione devozionale del giorno di magro.

Al di là del campanilismo è forse possibile vedere, nella strenua difesa dei propri usi e costumi, un barlume di amore per ciò che ci è stato consegnato, stando all’etimologia della parola “tradizione”, e di gratitudine per tutti coloro che ci hanno preceduti su questa terra.
Non sappiamo datare con esattezza la nascita dell’usanza della puccia del 7 dicembre, ma sappiamo che ha una diffusione capillare su gran parte del territorio salentino, e che nonostante la modernità dei tempi, essa resiste.
Una tradizione tenace, perseverante, dura a morire.
Una tradizione che insegna, a noi uomini e donne del ventunesimo secolo, che forse, questa caparbietà dovremmo riacquistarla anche nella vita di tutti i giorni, e non solo in quelli di festa “comandata”.



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