La poesia patriottica di Goffredo Mameli
di Giovanni Teresi
Berchet, Rossetti, Mercantini, Manzoni, Giusti, Dall’Ongaro ed altri poeti cantarono la Patria e fecero fremere d’entusiasmo. Ma nessuno di questi poeti patriottici trovò la morte fra un inno e una battaglia. Tale sorte, invidiabile e invidiata, toccò a Goffredo Mameli, il più gentile caduto della nostra Rivoluzione; vero poeta-soldato, che cantò la pugna dell’armi e la morte gloriosa, e della fiamma poetica consumò se stesso, morendo per Roma repubblicana.
Per ciò, a lui, combattente fra i compagni, al canto dell’Inno “Fratelli d’Italia – l’Italia s’è desta” è meglio che a qualche altro assegnato il titolo di Tirteo moderno.
La poesia patriottica non va giudicata con l’analisi fine e severa della critica; è poesia popolare, e, come tale, deve possedere le virtù e i difetti della spontaneità e della improvvisazione.
Dice bene il Carducci classico al romanticismo poetico quarantottesco: “nel 1847 il popolo italiano era nel risucchio della sua primavera, e il poeta sentendo in sé l’anima della Nazione fiutava la battaglia nell’aria come il cavallo di Giobbe…”.
Così, nel 1846, mentre gran parte d’Italia sbraitava di entusiasmo per l’amnistia di Pio IX, il diciottenne Mameli fissò l’occhio al futuro, cantò, per il centenario della cacciata degli Austriaci da Genova, la rivoluzione e la guerra di popolo.
Il 03 giugno 1849 fu il primo suo vero atto di vita pubblica, a Roma, sul Gianicolo, dopo l’epica battaglia, a sera chiese a Garibaldi di fare un altro tentativo. Rimase ferito alla gamba sinistra.
La ferita era leggera, ma a causa della cattiva circolazione, passò in cancrena e il 18 giugno fu indispensabile l’amputazione.
Mameli cantava a bassa voce e ricordava la sua vita intellettuale, ahimè, troppo breve.
Negli intervalli profetizzava per la sua Patria. Morì il 06 luglio 1849 a 21 anni.
Nel suo Inno la Musa patriottica ebbe il suo guiderdone sacro nel dovere che compirono i nostri padri, nell’indipendenza e nell’unità conquistate alla Patria.
Se la poesia è sentimento, la poesia patriottica è fede nell’ideale patrio. E per tale ideale Mameli morì. La poesia è ideale ed azione che non muore, e il poeta Mameli sposò l’ira e spada e trovò la morte, sotto la bandiera della Patria, attraversò il tempo, anche in una luce invidiata da poeti più grandi di lui. Ed oggi, più che mai, è bene cantare con sentimento: “Fratelli d’Italia – l’Italia s’è desta!”
INNO
Fratelli d’ Italia
L’ Italia s’ è desta.
Dell’ elmo di Scipio
S’ è cinta la testa,
Dov’ è la vittoria ?
Le porga la chioma
Che schiava di Roma
Iddio la creò. – .
Stringiamci a coorte,
Siam pronti alla iporte,
Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
Calpesti e derisi
Perchè non siam popolo,
Perchè siam divisi,
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme^
Di fonderci insieme
Già r ora suonò.
Stringiamci, ecc.
Uniamoci, amiamoci !
L’ unione e l’amore
Rivelano ai popoli
Le vie del Signore.
Giuriamo far libero
Il suolo natio,
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci, ecc.
DairAlpe a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’ uom di Ferruccio
Ha il cuore e la mano,
I bimbi d’ Italia
Si chiaman Ballilla,
II suon d’ ogni squilla
I vespri suonò.
Stringiamci, ecc.
Son giunchi che piegano
Le spade vendute;
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute,
II sangue d’ Italia
Beve, col Cosacco
Il sangue Polacco,
Ma il cor le bruciò.
ecc.
(1847 )
Commento all’inno
L’unitarismo del Mameli è di stampo prettamente mazziniano, quindi contrario al federalismo del Cattaneo e al neoguelfismo del Gioberti. L’idea di nazione è sempre presente in quest’inno: nella terza strofa il poeta vuole che sia eliminata la divisione, auspica l’unità e l’amore sotto un’unica bandiera, convinto — come dice il proverbio — che l’unione fa la forza, specialmente se si è uniti per Dio, che nell’espressione francese par Dieu significa “da Dio”.
Già la prima parola dell’inno richiama ad un concetto di fratellanza proprio nel nome dell’Italia, concetto che è anche riconoscimento delle peculiarità nazionali. Ma tutta la prima strofa ha una di quelle aperture che rendono maestosa e solenne la poesia.
Il nome dell’Italia vi risuona due volte nei primi due versi, a brevissima distanza, non per semplice allitterazione e quindi per artificio poetico, ma per mettere in evidenza il concetto principale; e in tutto l’inno questo nome è scritto nove volte, che è un numero sacro, quasi a consacrare il nome stesso. Quella dell’Italia che si desta dal suo torpore, dalla sua condizione di sudditanza, e indossa l’elmo di uno dei più grandi guerrieri romani e quella della Vittoria trascinata per i capelli come una schiava da Roma dominatrice del mondo. Il nostro Inno bisognerebbe studiarlo tutto, impararlo a memoria, recitarlo, cantarlo; e non solo la prima strofa e il ritornello, in coincidenza con l’esecuzione musicale. Quest’inno è una miniera di preziosi ideali, specialmente in una contingenza storica in cui, con leggerezza e dissacrazione iconoclastica, da parte di alcuni si rinnega il passato, si calpestano gl’ideali che hanno nutrito generazioni, s’infanga il sacrificio di coloro che morirono per fare l’Italia libera e indipendente, una e indivisibile.
Solo se ci si mette nello spirito di più di un secolo e mezzo fa si possono capire e apprezzare questi versi del ritornello, che quanto meno meritano rispetto per la sincerità che li produsse.
Infatti, davvero il Mameli si strinse a coorte, fu pronto alla morte, ascoltò le invocazioni dell’Italia, lasciando la vita per essa, per noi, a soli 22 anni. Un ragazzo, insomma, come tanti ragazzi d’oggi per età, ma con una grande formazione mazziniana, un grande sentimento in petto e un grande progetto in mente; degno di essere conosciuto, amato e perché no? — imitato dalla nostra distratta gioventù.
Alcuni hanno trovato quest’inno retorico e falso; eppure non è così: o almeno non lo è per chi conosce bene la vita e la morte del suo autore. Infatti egli, che aveva studiato poeti storico-romantici e passionali come Aleardo Aleardi, Giovanni Berchet, Giuseppe Giusti e George Byron, fornì con quest’inno una specie di testo politico ricco di riferimenti letterari, storici e culturali in genere.
Il Mameli non fu come il Leopardi, nella cui canzone All’Italia si possono notare chiari segni di retorica per una improbabilità d’azione patriottica dello stesso: egli i suoi versi li scrisse non solo con la penna, ma anche col sangue versato per la libertà e l’indipendenza, offrendo la sua giovanissima vita di ragazzo eccitato dai suoi entusiasmi patriottici. Perciò, quando si giudica quest’inno, si dimentichino il disinteresse, l’abulia, la mollezza, la mancanza di valori che caratterizzano la nostra epoca: retorici o no, questi sono versi che hanno commosso l’Italia e continuano a commuovere quanti hanno creduto e credono in quegl’ ideali, che si sono nutriti d’essi, che sperano nella loro rivalutazione.
L’Italia può dunque vantarsi d’avere un inno nazionale scaturito da così nobile tensione e forte passione, simbolo di sofferenza e testimonianza eccezionali, di spasmodico anelito per un sogno che alla fine si è realizzato e che mai bisognerà infrangere: tutte cose che, al di là dell’appariscenza della musica più o meno marziale, sono insite nelle solenni parole di Goffredo Mameli e che come un patrimonio vanno tramandate alla nazione perché sappia essere fedele alla propria storia e degna di essa.
Giovanni Teresi