La passione per gli ulivi
di Paolo Vincenti
Ulivi ricurvi, intrecciati in un abbraccio spasmodico di vita, avvinghiati alla terra con le loro radici eppure anelanti al cielo, fermi immobili nel perenne scorrere delle cose eppure in continua mutazione, sempre uguali a se stessi pure rinnovandosi e trasformandosi nell’alternarsi delle stagioni. Questo almeno erano gli ulivi, i patriarchi verdi della nostra Puglia, ideali sentinelle del tempo che passa, prima che un flagello dalle proporzioni bibliche intervenisse a falcidiarli, portandoli ad un lento ed inesorabile declino. Questo morbo è la xylella fastidiosa (nomen omen, purtroppo), che isterilisce i giganti della nostra terra, li priva della loro linfa vitale e li condanna senza appello. Assistere desolati alla moria degli ulivi, quando nemmeno le condizioni di maggiore siccità di questa “Apulia sitibonda”, come la definì Orazio, ci sono riuscite, è una esperienza straziante.
Il paesaggio salentino sta velocemente mutando, e capita, percorrendo strade e stradine lambite dalla campagna (tutte, o quasi, nel Salento), di vedere con raccapriccio enormi zone brulle là dove verdeggiava vigoroso e intricato il fitto fogliame, ed ora regna invece un bircio marroncino per lo più sgottato dall’indifferenza dei passanti, che a questo scenario da day after stanno drammaticamente facendo l’abitudine. La perdita dei connotati larici del paesaggio nostrano, così fortemente iconizzato dagli alberi d’ulivo, come un buco nella tela del pittore, una malvoluta tabula rasa in uno scenario da paese sud asiatico spaventosamente attraversato da uno tsunami, conferisce a questa terra un aspetto alieno, quasi fosse sceso su di essa un nero sudario di morte.
L’ulivo, cantato dai poeti, simbolo di pace e vittoria nell’araldica, “Hoc pinguem et placitam paci nutritor olivam“, “nutriti di questa oliva pingue e alla pace gradita”, scrive Virgilio (Georgiche, Libro II, vv. 420-425), è forse la pianta più famosa nella storia dell’umanità, da quel primo albero fatto spuntare dalla Dea Athena sul suolo greco, nella mitologica disputa con il dio Nettuno, al ramoscello di olivo portato in bocca dalla colomba partita dalla biblica Arca di Noè, dopo il diluvio universale, fino agli ulivi dell’orto del Getsemani, il luogo dell’agonia e dell’arresto di Gesù Cristo. L’ulivo, noto già ai babilonesi, agli egizi, agli ebrei, ai fenici, agli etruschi, era conosciuto a Cnosso, nell’isola di Creta, quindi caro a quella civiltà minoica che molti studiosi hanno ritenuto antesignana della più tarda civiltà greca, e già presente negli ideogrammi della scrittura micenea nel 1400 a.C..
Questa pianta sempreverde viene cantata nella poesia classica a partire da Omero che, nell’Iliade scrive: “Qual d’olivo gentil pianta, nutrita in lieto d’acque solitario loco, bella sorte e frondosa: il molle fiato l’accarezza dell’aure, e, mentre tutta del suo candido fiore si riveste, un improvviso turbine la schianta dall’ime barbe e la distende a terra;” (Omero, Iliade, Libro XVII). Ne parlano Catone il vecchio nella sua opera De agricultura e l’erudito Varrone nel suo trattato Rerum rusticarum libri tres: “Le tue rare virtù non furo ignote/ alle mense d’Orazio e di Varrone/ che non sdegnàr cantarti in loro note”, scrive D’Annunzio (Gabriele D’Annunzio, L’olio, vv.9-11).
Mentre si assiste impotenti ad una simile agonia, vien fatto di pensare con scoramento a tutto questo e alle tante raffigurazioni pittoriche e scultoree dell’ulivo nella storia dell’arte. Quell’ulivo di cui Sofocle diceva: “una pianta che su terra d’Asia non so, né che di Pelope germini sulla vasta isola dorica”, alludendo al fatto che l’ulivo non fosse nato in Asia minore, men che meno nel Peloponneso, ma che esso, secondo la leggenda, fosse stato fatto spuntare dal suolo dalla dea Athena riconoscente alla nazione attica; e ancora: “indomita, spontanea, venerato terrore delle lance desolatrici, fiorente rigoglio di queste zolle: il glauco paterno ulivo. E mai né antica né giovane mano di nemico invasore lo stroncherà facendone sterminio, poiché lo veglia eterna la pupilla mai chiusa di Giove Morio, e, glauco, l’occhio di Atena”. (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 690-704). Non fu verace profeta Sofocle, perché né Giove, invocato come protettore degli ulivi, dal greco morìai, né la Pallade Athena “occhiazzurrina”, hanno saputo purtroppo difendere i giganti verdi, e il terrore alle lance nemiche che essi dovevano incutere (in quanto intesi come alberi della pace) è quello dei Caterpillar che li abbattono. Ma poi che la terribile pestilenza delle piante, l’invisa xylella, tragica precorritrice di quella, ancor più temuta, degli umani, ovvero il covid 19, si è abbattuta sugli ulivi, condannandoli ad una fine senza gloria, ad accelerare il processo di disfacimento è intervenuto lo stato di bisogno dei contadini, misto alla miserabile ma pur sempre umana brama di lucro, dacché è stato predisposto prima, dal cosiddetto “Piano Silletti”, con i fondi della Comunità Europea, un contributo di circa 140 euro per ogni albero abbattuto, e poi, più recentemente, stanziata la concessione di contributi per un totale di svariati milioni, per il loro reimpianto nelle zone infette. I finanziamenti per l’abbattimento delle piante hanno suscitato appetiti e dato adito a stratagemmi per aumentare il premio ristorativo, solo in parte giustificati dalla situazione di emergenza che vivono gli operatori agricoli.
Cosicché gli ulivi, da archetipi di longevità, simboli di ininterrotta armonia fra uomo e natura, oggi diventano pretesto per strappare un po’ di denari illeciti. La Puglia e specificamente il nostro Salento furono da sempre mèta di viaggiatori e turisti stranieri, ammirati dalle incomparabili bellezze paesaggistiche offerte dal territorio. Il fenomeno del Grand Tour, fra Settecento e Ottocento, ossia il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendevano attraverso l’Europa, vedeva protagonisti non solo i giovani rampolli delle famiglie aristocratiche, ma anche diplomatici, filosofi, collezionisti, romanzieri, poeti, artisti, per i quali il “viaggio in Italia” rappresentava un’esperienza irrinunciabile. Ciò diede origine ad una sterminata produzione di epistolari, reportages, diari di viaggio, racconti, romanzi. Così i nostri ulivi sono stati ammirati, descritti e cantati da inglesi, tedeschi, francesi, olandesi, svedesi, svizzeri, polacchi. E se ancora ai nostri giorni gli “assolati uliveti”, per dirla con Pablo Neruda (Ode all’olio) hanno portato moltissimi oriundi da ogni parte d’Italia a trasferirsi qui nel Salento, eletto a buen ritiro, ciò è stato determinato da quell’affatturante nòstos, quasi una struggente nostalgia del non vissuto, con cui essi li hanno saputi avvincere.
L’ulivo racconta la memoria di un popolo, è simbolo identitario, oggi più che mai, perché, in quanto pianta duale, celeste e terragna, connubio di umano e divino, allegorizza il presente destino di morte e di rinascita, diviene vessillo di speranza e di riscatto: la speranza che, con le nuove cure che riuscirà a portare la scienza, attraverso un lungo processo di metamorfosi, giunga la rinascita per purificazione che riscatti anche l’umanità. E quale immagine di intensa speranza, più che mai belli e vibranti sentiamo allora quei versi di Nazim Hikmet (Alla vita) che, parafrasati da Roberto Vecchioni (Sogna, ragazzo sogna) dicono di quel contadino che a settant’anni pianterà degli ulivi convinto ancora di vederli fiorire.