La Nave Punica al Museo Archeologico Regionale di Marsala. Di Giovanni Teresi
I Cartaginesi erano navigatori imbattibili sul mare, disponevano delle navi più veloci, progredite e manovrabili. I Romani, invece, erano imbattibili sul terreno, infatti, avevano messo a punto tecniche di guerra sofisticatissime e la potenza delle loro armate sbaragliava ogni nemico.
Di fronte alla minaccia di Cartagine, osarono affrontare anche il mare e copiarono le navi del nemico. Inventarono un ponte mobile munito di rostri, angolato di cinquantacinque gradi rispetto alla prua, da calare sule navi nemiche, che restavano così agganciate a quelle assalitrici. La battaglia navale si trasformava in tal modo in battaglia campale.
Tutto questo avveniva nel 241 a.C., quando a conclusione della prima guerra punica, nella battaglia delle Egadi la flotta cartaginese veniva sconfitta e Roma si impossessava della Sicilia. Secondo Polibio, in quella battaglia 56 navi cartaginesi furono affondate.
Più di duemila anni dopo, nel 1969, il capitano di mare Diego Bonini era intento a lavorare con la sua draga ad estrarre sabbia per un’industria vetraria marsalese nella zona compresa tra Favignana e l’Isola Lunga, a pochi chilometri dalla costa. A un certo punto le sue macchine si fermarono, si era imbattuto in una grossa asse di legno. Iniziò, così, lo studio archeologico di quel ritrovamento con l’aiuto di Honor Frost, archeologo, che in quel periodo si trovava a Marsala.
In quella zona di mare c’era un vero e proprio tesoro: anfore e relitti di imbarcazioni.
Nel1971 ebbero inizio le operazioni di recupero. Il recupero dei relitti di legno non fu una facile impresa. Il mare restituì dieci metri di chiglia, il dritto di poppa, madieri, ordinate, travi dell’ossatura di poppa, parte del trincarino e del tavolato di babordo.
Dopo una lunga attività di restauro, la nave punica è stata posta in un ambiente appositamente ricavato all’interno del Museo Archeologico Regionale di Marsala.
Al momento della loro estrazione dal fondo del mare, le parti in legno che componevano la nave sono apparse ai ricercatori con i loro colori naturali originali: di colore giallo quelle di pino (i tavolati e la parte centrale della chiglia); di colore marrone quelle in quercia (le ordinate) e di colore
Rossastro quelle in acero (la chiglia e il dritto di poppa). I legni mostravano incisi segni particolari e lettere, riconosciuti in seguito come segni convenzionali usati dai carpentieri durante il montaggio dello scafo. C’è da pensare, dunque, che la tecnica di costruzione seguisse il procedimento della prefabbricazione. Le lettere e i segni servivano ad indicare i punti precisi in cui dovevano essere fissati i chiodi che avevano il compito di legare tra loro le varie parti. Infatti, in quel tratto di mare, sono stati recuperati numerosi chiodi, alcuni ricoperti di incrostazioni calcaree.
Dalle tracce trovate sui legni si è potuto dedurre che la nave era interamente impermeabilizzata con una particolare tecnica di calafatura che consisteva nella stesura di un intonaco biancastro sulle giunture del fasciame, sulle teste dei chiodi, persino sulle lamine di piombo di cui era rivestita la parte sommersa dello scafo. Aiutandosi con le lettere e i segni convenzionali, lo studioso Austin Farrar ha potuto tracciare uno schema di massima dell’antica imbarcazione.
La nave prendeva così man mano forma in alcune sue parti: la fiancata sinistra e la parte terminale della poppa. Essa sembra essere una “liburna”, nave da guerra cartaginese. La nave appare longilinea: è stata calcolata una lunghezza di 35 metri per 4,80 di larghezza, con un rapporto pari a 7,29, decisamente superiore ad altre navi dell’epoca il cui rapporto oscillava tra 3 e 4. Alta due metri e mezzo, stazzava 120 tonnellate a vuoto e 155 completamente zavorrata con u pescaggio di 1,20 – 1,35 metri. Su di essa trovavano posto 68 rematori, 34 per ogni lato, che azionavano i 17 remi di ogni fiancata. Con 34 rematori, uno per ogni remo, poteva raggiungere la velocità di 4 -5 nodi, con 68 si spingeva sino a 8 – 9 nodi. Non si può inoltre escludere che la propulsione fosse mista, che fosse cioè dotata anche di una vela. Considerate le dimensioni della nave e tenendo conto di alcune testimonianze bibliografiche relative ad altre navi, come quelle di Tucidide e di Diodoro, si può supporre che, oltre ai 68 rematori, la “liburna” di Marsala imbarcasse anche 25 soldati circa e 6 -7 tra nocchieri, cuochi ed altro personale di bordo.
Proprio quel tratto di mare che ha custodito per oltre duemila anni la nave punica, conserva altri reperti archeologici di estremo interesse. È stata localizzata un’altra nave, i cui resti mostrano analogia con l’imbarcazione recuperata.
Ma è stato recuperato altro materiale che sicuramente fa parte della dotazione di bordo della nave. Si tratta di pietre di zavorra, di anfore, di funi e di spaghi di sparto – pianta erbacea delle graminacee, dalle lunghe foglie giunchiformi, dalle quali si ricava una fibra usata per cordami -, di ramoscelli e foglie di Phylleria, di steli di una pianta simile alla cannabis sativa, di uno scopino e di un manico di scopa, di noccioli di oliva, di tappi di sughero per anfore, di un bottone di legno, di un ago realizzato con un osso di uccello, di calchi di punta di lancia, di un pugnale in ferro e numerosi chiodi.