IL PENSIERO MEDITERRANEO

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LA MAMMA PREFICA MUTA

LA MAMMA PREFICA MUTA

di Maurizio Nocera

La mia mamma era una prefica. Una prefica muta. Muta non nel senso che non sapesse

parlare. Affatto. Per parlare parlava. Ma prefica muta, perché si differenziava dalle prefiche

della Grecìa Salentina, soprattutto da quelle di Sternatia, che vegliavano la salma del morto

cantando, facendo un finto pianto, tirandosi i capelli, sventolando sulla faccia del defunto un

fazzoletto bianco. Ecco. A differenza di quelle, lei si sedeva accanto al morto, nei pressi della

sua testa, e rimaneva lì senza quasi mai alzarsi e dicendo a chi entrava nella stanza quando

buongiorno quando buonasera. Non diceva buonanotte perché, di notte, lei vegliava il

morto, perfino quando i congiunti andavano a riposarsi un po’. Lei, sveglia come una gatta

notturna, rimaneva sola a vegliare il defunto con me bambino di quattro anni, che mi

addormentavo chinando il capo su una sua gamba.

Non so perché facesse questo rituale. Una volta la nonna mi aveva detto che in famiglia, nei

tempi andati, c’erano state altre donne della famiglia che avevano fatto così. Tuttavia credo

che la mamma fosse diventata prefica muta per via del fatto che in paese era una sorta di

autorità sanitaria. C’era don Cesare, poi don Pasquale, entrambi medici laureati, che

ovviamente praticavano l’arte, poi veniva lei, povera ex contadina, che era riuscita, col

coraggio della disperazione, a imparare come fare le iniezioni intramuscolo e, qualche volta

anche le endovene. Don Cesare, che era il suo medico di riferimento (anche elettorale. Egli

era stato sindaco per diverse consigliature) e che era stato lui ad insegnarle come fare le

intramuscolo, quando veniva a conoscenza dell’azzardo che lei aveva iniettato un’endovena,

assumeva un atteggiamento severo e compostamente le diceva: «Carmela, non lo fare mai se

prima non te lo dico io». Don Cesare glielo permetteva quando vedeva che il paziente era un

vecchio, mai quando si trattava di una persona giovane. Ma la mamma, a volte, dimenticava

questa raccomandazione.

In paese, tutti la conoscevano per questa sua capacità di fare le intramuscolo, tanto che chi

era ammalato, spesso diceva: «Quando l’iniezione me la fa donna Carmela, non accuso alcun

dolore». Anche qui, quel “donna”, quasi lei fosse una vera autorità sanitaria. Però, a riflettere

bene, effettivamente, lei era la terza persona in paese che sapesse come destreggiarsi con

siringhe, fialette, compresse e quant’altro avesse a che fare con le pratiche sanitarie.

In un certo senso, la mamma era anche un po’ acculturata: aveva fatto la terza elementare.

Sapeva leggere i fotoromanzi che, la domenica, quando con sua cugina Luigia, la figlia di mia

zia, donna Rosaria, sciamana “acconcia ossa” del paese, andava alla messa alla Matrice,

passando davanti all’unica edicola del paese, comprava i giornali. Mio padre invece era

analfabeta, nel senso che per fare la sua firma, la mamma, più sbrigativa di lui, le scriveva la

croce.

Quindi la mia mamma era una prefica muta. Quando nella piccola comunità, accadeva che

una persona morisse, si spandeva la voce: «Avvisate donna Carmela!». Ma già la mamma

sapeva che quel tale o quella tale erano andati in cielo. Lei li aveva assistiti fino a quando non

aveva previsto la fine. Ormai era un’esperta di transiti mortiferi. Il suo rituale iniziava subito.

In casa nostra non c’era né il bagno né la doccia. I bisogni si facevano nei cantari. In casa

c’erano i cantari delle donne e quelli degli uomini. Non c’era nemmeno l’acqua corrente.

L’acqua la prendevano o dalla cisterna o dalla fontanina del quartiere, dove spesso si formava

la coda. Allora la mamma usciva lei col secchio e con me, mi metteva in fila e aspettavo il

mio turno. Mi diceva: «Mi raccomando, quando vedi che la fila si è ridotta e che tu hai

davanti una sola persona, allora corri a chiamarmi». Facevamo così. Con l’acqua a

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disposizione, la mamma si lavava nella bacinella: prima il volto, poi le ascelle e le braccia, poi

le gambe e i piedi, infine cambiava l’acqua e rilavava il volto. Sotto le ascelle spargeva un po’

di boro talco; infine rassettava i capelli. La mamma aveva dei bei capelli, neri con qualche filo

bianco. Sul di dietro della nuca faceva la crocchia. Finito questo suo rituale casalingo, dava

un’aggiustata anche a me, mi aggiustava i pantaloncini, mi asciugava il naso, mi faceva una

carezza sulle guance e, a quel punto, eravamo pronti per andare dal morto. Non sempre la

mamma mi portava con sé, comunque spesso ero il suo aiutante preferito. Avevo solo

quattro anni. Ho ancora nel naso l’odore acre dolciastro del cadavere che cominciava a

decomporsi a cui si aggiungeva l’odore dei fiori di campo che qualcuno portava e depositava

ai piedi del morto.

Se la dimora dove dovevamo andare era lontano, lungo la strada, la mamma trotterellava. Io,

bambino, sempre di quattro anni, le arrancavo dietro. Di tanto in tanto, le dicevo: «Mamma

aspettami, mi sto stancando». E lei: «Piccolo mio, dobbiamo arrivare in tempo». In tempo

per che cosa? A quel tempo non c’erano pompe funebri. I congiunti del morto avevano già

lavato la salma, l’avevano pure vestita di tutto punto. Anche in questo c’è un particolare

rituale nella vestizione della salma. I familiari dovevano ricordarsi soprattutto delle scarpe.

Chi moriva ed era anziano o vecchio, la prima cosa a cui egli stesso aveva pensato da vivo

erano le scarpe. Andava dal calzolaio e se le faceva fare su misura e del tipo le più belle che si

poteva permettere economicamente. In paese c’era l’abitudine di pensare che le scarpe del

morto servissero a fare bella presenza quando ci si presentava davanti alla maestosa figura di

san Pietro, che aveva le chiavi del paradiso. Si diceva che se le scarpe erano belle e di buona

fattura, il santo lasciava perdere tutti gli altri aspetti e immediatamente introduceva nel

paradiso l’anima del defunto. Cose che si dicevano e che ora sono seppellite nel forziere dei

ricordi.

Quindi la mia mamma era una prefica muta. Arrivati alla casa del morto, i familiari sapevano

che il suo posto era accanto alla testa del defunto. In un certo senso, a lei era riservata la

sedia che si era meglio conservata nella casa e lei, quasi fosse una persona importante, si

sedeva con un fare ritenuto straordinario. Sempre da casa si portava appresso uno sgabellino,

che metteva accanto alle sue gambe. Su di esso faceva sedere me, bambino di quattro anni.

Con un fare coscienzioso, salutava chi entrava e chi usciva dalla stanza del defunto.

Qualcuno si avvicina pure e le dava la mano. Lei la stringeva, poi subito si ritraeva. Spesso il

suo volto era rivolto alla testa del morto. Di tanto in tanto rivolgeva qualche parola ai

congiunti, ma non tardava a parlare anche col morto, dicendo frasi che mi sono rimaste

ancora nella mente: «Adesso hai finito si soffrire». «Adesso percorrerai un lungo sentiero che

ti porterà alla luce di Dio. Là starai bene». Io ascoltavo in silenzio senza capire il significato

di simili frasi. Quando mi veniva di fare la pipì, glielo dicevo, io bambino di quattro anni,

allora la mamma si alzava, mi prendeva per mano e mi portava in quello che potremmo

paragonare ad un patio, formato da un lastricato di cemento oppure di terra battuta con al

centro una fossa poco più profonda sormontata da un grande albero di fico. Lì mi slacciava

le bretelline, mi scendeva i pantaloncini, mi prendeva il pisellino e mi faceva fare pipì. Subito

dopo mi ricomponeva e andavamo a sederci al posto di prima.

Qualcuna delle donne venute a salutare la famiglia del defunto, con una voce un po’ più alta

delle altre, diceva: «Ma sapete se la Morte è venuta per prendersi l’anima?». A rispondere era

sempre la mamma: «È lì, appoggiata allo stipite della porta. È tutta vestita di nero. Ha la

veletta. Nello scheletro della mano ha una piccola falce di contadino. Aspetta per portasi via

l’anima di questo poveretto o questa poveretta. Sembra essere stanca e non vede l’ora che

tutto questo dar da farsi non finisca presto. Sospira e gonfiando il petto, le si vedono le

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costole». Qualcuno le diceva: «Donna Carmela ma tu la Morte la vedi?». Rispondeva: «Ma

perché tu non la vedi?».

La mia mamma era una prefica muta. Amava tutta la comunità di anime del paesello, ed era

amata da tutti. Oltre al referente don Cesare, per decenni sindaco del paesello, la mamma

aveva anche come punto di riferimento l’arciprete don Nicola. Questo prete conosceva tutti i

segreti di tutti e di tutte. Soprattutto di tutte, perché non cera donna nel paese che non fosse

in relazione con lui: mogli, figlie, sorelle, cognate, nuore, ecc., insomma tutte le donne. Da

loro carpiva segreti che non poteva strappare agli uomini. E soprattutto conosceva la data di

nascita e la data di morte di ognuno di loro.

Quando la mia mamma prefica muta morì nel campo degli avi, dovetti portarmela nel

bagagliaio della macchina nella sua casa del paese. Lì c’era la Morte ad aspettarla. Chiesi aiuto

alle sue amiche per procedere a quello che c’era da fare. Io non avevo esperienza in fatto di

morti. Tutte le sue amiche si rifiutarono di toccare il corpo di mia mamma prefica. Mi

dissero di avere paura. Fu una croce per me, con mio padre accanto annichilito dal dolore.

Dovetti spogliarla, lavare il suo corpo con acqua e aceto, come mi avevano detto di fare le

sue amiche. Poi dovetti rivestirla con l’abito che lei aveva scelto per l’occasione. Io mai avevo

visto il corpo di mia madre nuda e a vederlo allora da morta non rimasi impressionato. La

lavavo e pensavo ai giorni belli passati con lei quand’ero ancora bambino di quattro anni. Ed

è proprio quel ricordo che mi è rimasto in mente. Molte notti me lo passo e ripasso

sorridendo felice. Quando, in primavera o d’esatte, soggiornavamo nel campo degli avi, lei,

giovane donna abbastanza bella e formosa, mi prendeva per mano e mi portava là dove

l’erba non era molto alta. Ci sdraiavamo, lei dirimpetto al mio viso. Poi prendeva un

fiorellino di campo e con quello mi accarezzava il volto. Me lo passava sotto il naso. Oggi,

vecchio anch’io com’era lei quando morì, sento ancora quel profumo di quel fiorellino.

Sorrido e mi addormento.

(Tuglie, Contrada “Li Monaci”, ma anche Contrada “Grotta delle Veneri”. Scritto una notte che la civetta di mio fratello Silvio

venne a posarsi sull’ulivo vicino alla casa. Non faceva il verso del male augurio, ma quello del bene augurio).


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