La Magna Grecia siamo noi
Il pensiero mediterraneo, il tarantismo e la cultura greca, la magnificente culla della civiltà occidentale
di Pierpaolo De Giorgi
La Grecia classica o Ellade non corrisponde a una singola etnìa ma, va sempre rammemorato, è una grande civiltà edificata da diverse etnìe. In forza di questa pluralità, diventa la magnificente culla dell’intera civiltà occidentale, che ospita e plasma gran parte delle culture e delle tradizioni che formano il pensiero mediterraneo.
Una delle fasi più significative dell’incontro, e non di rado dello scontro militare, tra l’Ellade e i popoli del Mediterraneo è quella che porta nel VI sec. a.C. alla formazione della Magna Grecia, un gruppo di polis o città-stato che, com’è risaputo, assume un ruolo dominante in primo luogo dal punto di vista culturale. La denominazione Magna Grecia o Megale Ellas per molti commentatori non indica solo il territorio di alcune polis, ma tutti i Greci d’Occidente dell’Italia centromeridionale e insulare. Assieme alla madrepatria, la Magna Grecia esercita sul pensiero mediterraneo, in particolare su quello dei Romani, un’influenza cui è ben difficile sottrarsi. Orazio non esagera nello scrivere i celebri versi: Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio “la Grecia, sottomessa (dai Romani), a sua volta conquistò il selvaggio vincitore e introdusse le arti nel Lazio agreste” (Orazio, Epistole, II, 1, 156).
Anche da questo punto di vista, oltre che da quello più strettamente etnico, le radici del tarantismo e della sua musica terapeutica sono profondamente greche. Già Platone nel dialogo Eutidemo (290a) cita le epodái, sorta di melodie cantate e insieme di incantesimi in grado di guarire alcune malattie della psiche, e in particolare quelle cagionate come nel tarantismo, si osservi bene, dal morso di “vipere”, “tarantole” e “scorpioni”. Questi canti e queste musiche guariscono con l’arte della persuasione.
Secondo il filosofo ateniese, infatti, le epodái sono importanti “discorsi”, che incantano “vipere, tarantole, scorpioni” e altri animali, allo stesso modo di quanto fanno le parole dei filosofi e della retorica, che persuadono la psiche degli uditori, delle assemblee e delle folle.
Le radici greche del tarantismo si possono desumere da numerosi altri elementi, ad esempio dalle posture coreutiche delle tarantate, che danzano e ruotano il capo come le Menadi di Dioniso, e dall’utilizzo continuo del magnogreco e apulo tamburo a cornice detto týmpanon. Quest’ultimo, costantemente raffigurato nelle immagini dei vasi magnogreci e apuli in posizione centrale e in prossimità della testa, come in nessun’altra cultura occidentale, è molto simile per struttura e funzioni rituali allo strumento più importante del tarantismo, il tamburello terapeutico. È estremamente esemplificativa l’iconografia di un vaso apulo del IV sec. a.C., il cratere del Gruppo del pittore di Hoppin: un giovane nudo incanta con un týmpanon una Menade dionisiaca, in evidente stato di trance (Museo Castromediano di Lecce). Anche le mitiche Sirene, che in antico sono per metà donne e per metà uccelli, secondo una tradizione magnogreca tentano di incantare Ulisse suonando il tamburello assieme alla lyra, come riferisco già nel 2004 nel mio libro L’estetica della tarantella (Congedo, Galatina), dove pubblico l’iconografia di un emblematico cratere del III sec. a.C. del pittore Pyton di Poseidonia o Paestum (Staatliche Museen di Berlino).
In relazione con Orfeo e l’orfismo, alle origini del concetto stesso di Magna Grecia, troviamo Pitagora e i Pitagorici, anch’essi musicisti che fanno terapie mediante “trattamenti e adattamenti musicali”, come ricorda Giamblico. Tra Crotone, Metaponto e Taranto, Pitagora e i Pitagorici danno vita ad una scuola in cui si insegnano dottrine fondamentali sull’armonia degli opposti universale, la cui autorevolezza dura ancora oggi. L’armonia degli opposti, in primo luogo quella tra la morte e la vita, è costantemente utilizzata da tarantate e tarantati per evocare la rinascita, che è l’análogon della salute. Tarantate e tarantati inscenano simbolicamente e periodicamente la morte, più o meno come nei Misteri greci e come nella Sacra Rappresentazione di Cristo, e subito dopo la vita, con periodica cadenza ritmica, allo scopo di prefigurare e alla fine ottenere di nuovo la vita, ossia la guarigione.
Ulteriori, numerosi e sorprendenti chiarimenti sulla pregnanza e sull’importanza dell’arte, della religione e della cultura della Magna Grecia possono essere attinti dai reperti e dalla ridondante iconografia dei numerosissimi vasi magnogreci e apuli dei grandi musei archeologici italiani. Tra i musei italiani che hanno importanti collezioni magnogreche e apule, ricordiamo Taranto, Napoli, Paestum, Ruvo, Bari, Siracusa, Brindisi, Matera, Crotone, Reggio Calabria, Potenza, Bologna, Milano, Melfi e Lecce, solo per citarne alcuni. Attorno al 420-410 a.C., a cagione della guerra del Peloponneso che va dal 431 al 404 a.C., la produzione attica diminuisce sempre più. Prende così il via la ceramica magnogreca, vale a dire lucana, apula e pestana in primo luogo, con grandi esiti artistici. Si pensi, a titolo di esempio, all’iconografia di un cratere apulo del IV sec. a.C., dove “Arianna abbandonata da Teseo”, in attesa del dio Dioniso che la farà sua sposa, lo evoca guardando intensamente un týmpanon (Museo Castromediano di Lecce). Oppure alle immagini sorprendenti di un oinochoe dionisiaca a figure rosse del IV sec. a.C., proveniente da Taranto, nelle quali una Menade danza fissando un týmpanon vicinissimo alla testa (Museo Arch. Naz. di Taranto). La trance (che Platone nel Fedro chiama manía) e il rapimento mistico evocano, come in questo vaso tarantino, atteggiamenti tipici dei Misteri greci, che sono di grande impatto sul pensiero mediterraneo e che, non a caso, corrispondono agli stati modificati di coscienza del tarantismo. Il týmpanon è un potente simbolo del dio Dioniso, anzi si può considerare una sua epifania.
Nel IV sec. a.C. Taranto, capitale della Magna Grecia e snodo delle principali rotte del Mediterraneo, è una polis incredibilmente ricca, piena di grandi opere d’arte e di un artigianato raffinatissimo incentrato sulla lavorazione dei vasi, dell’oro, delle tinture, delle stoffe e via dicendo. L’interazione delle tradizioni di Taranto con quelle delle numerose popolazioni non greche, come i Messapi di origine illirica, viene a formare una vera e propria cultura apula, che per l’esattezza va chiamata cultura iapigia. Secondo il noto storico Emanuele Greco, infatti, la Puglia antica corrisponde alla Japigia, una regione che solo nel periodo romano verrà denominata Apulia.
Dai numerosissimi reperti, spesso bellissimi capolavori, dei musei locali e di tutto il mondo risulta che quasi tutte le popolazioni della Japigia acquistano le ceramiche artistiche di Taranto e ne producono esse stesse. Le popolazioni della Japigia, inoltre, condividono molte divinità greche e magnogreche, come Zeus, Dioniso, Demetra, e altrettante credenze, come quelle nella rinascita dell’anima. Simili usi, costumi e tradizioni, musiche e danze comprese, si ritrovano in grande abbondanza nella Puglia meridionale.
A partire dalla dominazione greca bizantina, per tredici secoli e fino a cento anni fa, la Puglia meridionale prende il nome di Terra d’Otranto, è caratterizzata da molti residui ellenici e ospita numerosi comuni di lingua grecanica che formano la cosiddetta Grecìa salentina. La bella Lecce è, per secoli, la capitale della Terra d’Otranto, che sin dal VII sec. d.C. fa parte dell’Impero Bizantino. La lingua e la letteratura della Grecia classica sono notevolmente diffuse nell’Impero Bizantino cristiano, e fanno parte dell’educazione scolastica. Per contro, la lingua latina nell’Impero Bizantino retrocede di fronte alla koinè (κοινὴ) o lingua greca comune del Mediterraneo centrale e orientale che diviene, nel terzo decennio del VII secolo, la lingua ufficiale dell’Impero Bizantino, fino al suo crollo del 1453. Tutto questo, cultura classica compresa, si riverbera anche nella Terra d’Otranto dal VII sec. d.C., che spesso, al di là delle alterne vicende politiche, è parte attiva dell’Impero Bizantino. La tradizione greca, va ribadito, è presente anche nella terapia chiamata tarantismo, che è strettamente, fortemente e direttamente connessa con i diffusi riti del dio Dioniso, fondati sulla musica e sulla danza e ugualmente considerati medicinali. Il tarantismo è una terapia rituale di rinascita e, non a caso, Dioniso, che ha tra i suoi attributi principali proprio il týmpanon o tamburello, è un dio che rinasce.
Nel 1927, in epoca fascista, la Terra d’Otranto dopo circa tredici secoli viene smembrata e aggregata alla Puglia, con capoluogo Bari. Lecce perde il ruolo di capoluogo e smarrisce la prossimità con Taranto e anche la relazione, ormai fievole, con la Magna Grecia. Va sgombrato il campo da molti equivoci e pregiudizi contemporanei sulle popolazioni del territorio antico che, prima della conquista romana, corrisponde alla Terra d’Otranto.
Come affermano spesso i grandi archeologi Francesco D’Andria e Mario Lombardo, i Greci, sia antichi che Bizantini grecanici, la cui lingua non è troppo lontana da quella greca attuale, nei periodi più significativi della storia occidentale, sono stati sempre presenti in Terra d’Otranto, a Taranto oppure nella Grecia Salentina. E ci sono arrivati in precedenza anche come Micenei e come Cretesi. Torrepaduli e Ruffano sono di origine bizantina e hanno avuto il rito greco nelle celebrazioni religiose cristiane. La cultura, a partire dai secoli che precedono la conquista romana, è sostanzialmente greca. Le divinità sono per lo più greche. I miti di fondazione di città come Lecce, Taranto e Brindisi sono greci e cretesi. Ciò non toglie che si trovino stanziate nel territorio altre popolazioni, come i Sallentini, i Calabri e i Messapi. Questi ultimi assumono ruoli predominanti e sconfiggono più volte militarmente i tarantini. Infliggono loro una terribile sconfitta nel 473 a.C.
Taranto, comunque, si riorganizza con principi democratici e pitagorici. All’incirca dalla metà del V sec. a.C. in poi, assume un ruolo dominante in tutta la Magna Grecia, guidando anche la Lega Italiota, che nel 374 a.C. prende sede ad Heraclea, colonia tarantina. Alla fine, la cultura del territorio corrispondente alla Terra d’Otranto pervenuta fino a noi è in gran parte ellenica o ellenizzata. Taranto esercita una vastissima influenza culturale sulla Magna Grecia (la Megále Hellás di Pitagora) e su tutti i popoli centromeridionali, in particolare sugli Iapigi, ossia su Messapi, Peucezi, Dauni. Questi ultimi, a volte difficilmente distinguibili con chiarezza l’uno dall’altro, raccolti intorno al nome Iapigi, secondo Emanuele Greco, sono popoli autonomi ma in continua relazione con tutto il mondo greco. Essi, secondo Francesco D’Andria e Mario Lombardo, si rendono protagonisti di tutta una serie di processi interattivi, non solo commerciali, anche con i Greci dei mari Ionio ed Egeo.
Per Iapigi, o abitanti della Iapigia, nomi che derivano dal mitico figlio di Dedalo, il cretese Iapix, gli studiosi intendono di solito i Greci, i Messapi, i Peucezi e i Dauni tutti assieme. Dedalo è un inventore ateniese che si trasferisce a Creta, dove si racconta che svolga un grande ruolo nel celeberrimo mito del labirinto cretese, oggi considerato non un edificio ma un percorso di danza che coniuga questo mondo e l’altrove. Orbene, ci sono buone ragioni per considerare la pizzica pizzica terapeutica del tarantismo, con i suoi giri e rigiri, una musica labirintica che congiunge il mondo della morte con il mondo della vita, allo scopo di ottenere, come accennato, la rinascita e la guarigione. Dedalo è padre sia del leggendario Icaro che di Iapix. La cultura cretese rimane a lungo in Terra d’Otranto: persino la tipica frisella (dakos), antico cibo dei marinai, è una tradizione di Creta, che forse trova proprio nell’isola le sue origini.
Provenienti dall’Illiria, i Messapi sono il popolo più presente nella parte del territorio non governata da Taranto, e da quest’ultima non vengono mai sottomessi. Ma di Taranto imitano o utilizzano la cultura e l’arte, con eccelsi risultati, si pensi al celebre e misterioso Zeus di Ugento, realizzato nel 530 a.C. con tecniche tarantine sul modello iconografico dello Zis Batàs, vale a dire lo Zeus Saettante della cultura messapica (Museo Arch. Naz. di Taranto).
I Messapi convivono con i Cretesi, con i Sallentini (da Sallentum) stanziati verso lo Ionio, e con i Calabri, stanziati sul versante adriatico della penisola salentina a cui danno il nome di Calabria. In tutta l’Italia meridionale e insulare si registra una forte devozione verso Dioniso, uno dei più importanti dèi greci, inestricabilmente connesso col tarantismo e con la pizzica pizzica, che in quanto terapia arcaica è la più antica forma di tarantella conosciuta. Un’espressione dionisiaca esemplare è lo stile apulo della ceramica di Gnathia, decorata quasi sempre con tralci di vite, l’albero della vita del dio dell’ebbrezza e del teatro Dioniso, come possiamo vedere in un cratere del IV sec. a.C. che raffigura un piccolo Eros (Museo Arch. Ribezzo di Brindisi).
La rilevante presenza dei Cretesi nel territorio è attestata dal “padre della storia” Erodoto, nato nel 484 a.C., grande viaggiatore e testimone degli avvenimenti del V secolo a.C., per molti anni residente a Thurii, nel Brutium, l’attuale Calabria. Erodoto chiarisce molte cose e fornisce un racconto circostanziato della formazione di quelli che chiama “Iapigi Messapi” nelle sue Storie (VII, 170). Vale la pena di leggere attentamente il suo scritto: “Si dice che Minosse, giunto in cerca di Dedalo in Sicania – ora chiamata Sicilia -, vi sia morto di morte violenta. Dopo alquanto tempo per incitamento di un dio tutti i Cretesi, tranne i Policniti e i Presi, sarebbero giunti con una grande flotta in Sicilia, dove avrebbero, per cinque anni assediato la città di Camico – occupata all’epoca mia dagli Acragantini -. Alla fine non potendo conquistarla né fermarsi perché tormentati da una carestia, vi avrebbero rinunziato e se ne sarebbero partiti. Ma come giunsero, veleggiando, nella Iapigia, sarebbero stati sorpresi da una gran tempesta e gettati contro la costa. Le navi s’erano infrante; e non vedendo più la possibilità di recarsi a Creta, sarebbero rimasti in quella regione, dove fondarono la città di Iria; e mutato il loro nome sarebbero divenuti da Cretesi, Iapigi Messapi, e da isolani abitanti di terraferma. E movendo dalla città di Iria avrebbero fondato le altre colonie”.
In coda, sia concessa una riflessione. Non tragga in inganno l’uso quotidiano italiano della parola Grecia. Con essa si intendono l’Hellas, la Megale Hellas o Magna Grecia, Creta, tutte le isole, l’Asia minore egea, l’Anatolia, i Micenei, i Minoici, i Macedoni, i Pelasgi, i Bizantini, i grecanici e la Grecia attuale. In quest’uso linguistico non ci sono contraddizioni di fondo con le etnìe o con i periodi storici corrispondenti. Nel Rinascimento, con Firenze in prima linea, assistiamo ad un grande ritorno della lingua, della cultura e della religione greche. Il concilio di Trento della Controriforma cattolica, purtroppo, dopo le glorie greche del Rinascimento, sceglie il latino per la lettura della Bibbia e per la liturgia, e vieta il tamburello dionisiaco nei riti. La lingua e la cultura greca rimangono appannaggio dei protestanti, tanto da caratterizzare successivamente la filologia e la filosofia dell’Europa del Nord.
Ancora oggi, purtroppo, è ben poca la coscienza della grandezza e della magnificenza della civiltà e del pensiero della Grecia e della Magna Grecia. Un risveglio collettivo in parte c’è stato, comunque, a partire dai primi anni Novanta. Per più di trenta anni un gruppo di appassionati, me compreso, si è dedicato, anima e corpo, in un calderone ribollente di musica, poesia, filologia, archeologia e filosofia, alla salvezza della lingua grica, a manifestazioni artistiche di rara bellezza e a intensi rapporti culturali tra la Grecìa salentina e la Grecia.
Pierpaolo De Giorgi