“La luce segreta del Salento” il romanzo degli amori possibili di Maurizio Mazzotta. Settima puntata (7/9)
Scoperte
La tavola è apparecchiata; Diego è seduto e digita il telecomando del televisore.
«Abbiamo tutto? Per non doverci più alzare», chiede Irene prima di sedersi, poggiando una zuppiera al centro.
«Credo di sì», assicura Federica osservando attentamente la tavola imbandita intanto che posa la coppa pesante della frutta su un tavolino di servizio. Si siede anche lei.
«Il telegiornale è al termine», avvisa Diego. «Ascolteremo il successivo. Se volete spengo. C’è la pubblicità.»
«No, lascia», prega Irene. «A volte ci sono spot intelligenti, sono fatti molto bene. Ti colpiscono e divertono e non ci ricordiamo cosa hanno pubblicizzato.»
«È vero», rafforza Federica. «Sembra che la pubblicità non raggiunga l’obiettivo. Così se lo spot è brutto, non compriamo il prodotto per dispetto; se ci piace ci divertiamo e non ricordiamo cosa hanno presentato.»
Diego scuote la testa: «Sembrerebbe.»
Federica assaggia il primo di cui è responsabile.
«Poteva venire meglio. La prossima volta…»
«Buonissima!» Irene è convinta e invita Diego a individuare gli ingredienti del piatto freddo.
Diego li individua e Federica resta delusa.
«No», dice «non doveva essere così facile.»
Qualche secondo dopo lei si ferma attratta dal monitor, mentre Diego e Irene invece sembrano proprio gustare il riso basmati agli ortaggi: patate zucchine melanzane carote cipolle tutto a pezzetti minuscoli e trifolati.
«Era proprio un agnellino come questo.»
Federica indica la storiella che si sta svolgendo alla TV.
«Mi ero affezionata alle immagini delle storie che leggevo da bambina. Era un bel libro, storie di animali, poi ovviamente seppi che l’agnello e tutti gli animali vengono allevati con uno scopo preciso. Così sono diventata vegetariana. I nonni si dannavano… È sano, è coerente, considerando i bambini, umanizzare gli animali e nello stesso tempo allevarli per i nostri bisogni alimentari? Quindi convincere i bambini a mangiarli?»
Così a pranzo si riuniscono tutti e tre, quasi regolarmente, ed è naturale, proprio come si era preannunciato la prima volta, al primo incontro, quando si sono conosciuti. Tanto naturale che è un piacere spiarli.
Approfittare che la calura li costringa a chiudere porte e finestre, perché la casa che ha muri spessi resti fresca, e vagare per le stanze, cercare di scoprire come in fondo mi sia stato così facile metterli insieme. Poi tornare nella stanza accanto, sostare, per ascoltare, solo ascoltare, senza vedere. Si capisce di più.
Io che racconto questa storia è così che sto facendo. Spio.
Così farà Federica quando loro due riposeranno sul divano. Scoprirà qualcosa e avrà delle conferme.
Intanto afferro frasi, discorsi a metà.
La voce di Federica. Più spesso è lei a parlare, buon segno, parla liberamente. Tutto ciò che le salta in mente. Chiede, interroga, sicura di avere risposte che la soddisfino. Adesso sta chiedendo, e chissà da cosa scaturiscono le frasi, forse dalla televisione accesa? No. Più probabile che sia l’intreccio interiore che si sta creando tra tutti e tre, e ciò che si espande dalla testa della ragazza è frutto di nuove-antiche interferenze. Come accadeva con sua madre.
Ha posto un quesito; ha chiesto: «Quale criterio si assume per valutare se un popolo è civile? Il progresso tecnologico esaspera ciò che abbiamo di brutto. La cultura: scoperte, invenzioni, espressioni della creatività artistica di un popolo, la sua storia insomma, lascia dei vuoti spaventosi. Se pensiamo quanto ovunque regni la violenza, il sopruso, l’incapacità di accettare l’altro…»
«Ti stai dando una risposta.»Questa è lavoce profonda di lui.
Ecco io, dal mio posto di ascolto nella stanza attigua noto soprattutto questi aspetti. Per esempio che la voce di Diego trasporta ciò che dice fin dentro l’anima e sprofonda nel cuore di chi ascolta. Sta dicendo: «Puoi concludere che non esiste un popolo civile. Non esiste la civiltà. Il guaio è che sappiamo però cosa può rendere un popolo civile. Esistono delle leggi che si ispirano a un concetto di civiltà, che hanno definito i criteri, poi altre leggi e soprattutto i nostri comportamenti le contraddicono. Tu parli di vuoti. Forse basterebbe colmarne uno: sentirsi veramente e totalmente senza alcun ma, senza alcuna riserva, veramente uguali, tutti uguali. Che significa riconoscere che l’altro ha gli stessi bisogni, esigenze, necessità. Oppure differenti bisogni col diritto di soddisfarli. Bisognerebbe chiedersi perché questo vuoto non si colma. Né dobbiamo rassegnarci e concludere che è proprio della natura umana. Piuttosto dovremmo analizzare i fattori che rendono la nostra natura incapace di accettare l’altro.»
Di colpo cade il silenzio sottolineato proprio da altri suoni: le stoviglie, i piatti, i bicchieri.
Qualcosa accade in questo silenzio. Nell’intimo di Federica si fa strada un’emozione ormai inequivocabile. Torna bambina con una voglia impressionante di capire. Ricorda che il desiderio di sapere era soddisfatto, lei adolescente, dalle risposte che le dava la madre. Tuttavia mancava qualcosa. Non c’era emozione in quel bisogno di conoscenza. Eppure era così legata alla mamma! Si convince che avrebbe provato l’emozione che prova ora se domande e risposte fossero accadute molto prima, quando viveva con entrambi i genitori ed era più piccola. E perché ora si sente come forse si sarebbe sentita a sette anni quando viveva serenamente in famiglia? Forse se cerca di capire cosa sta provando riesce a darsi una risposta.
Diego riprende a parlare e la sua voce torna a colmare i silenzi della casa. A penetrare i muri, a fondersi con tutto ciò che è fermo e rassicurante.
«L’uomo ha un bisogno prepotente, così forte che si manifesta in tanti modi: il bisogno di credere che la morte fisica non è la fine, che egli continuerà a vivere. Perché in tanti modi? C’è chi è convinto dell’esistenza di un mondo ultraterreno. C’è chi, come lo scienziato o l’artista, vuole lasciare un’orma del suo passaggio. Di questo bisogno approfittano le religioni. Tutti coloro che non si rendono conto che l’esistenza di un bisogno non ci dice nulla sull’esistenza di ciò che può soddisfarlo, cadono nella trappola. È una trappola, perché le religioni in realtà sono espressioni di un altro bisogno dell’uomo: quello di dominare i propri simili. Questa la radice dell’intolleranza.»
Non sono nuovi i concetti, per Federica è nuovo quello che prova. Per questo è attenta, emozionata. Ha la sensazione che siano nuove anche le cose che ascolta. La voce, la calma, la sicurezza di Diego e il volto di Irene, che io non vedo ma che certamente annuisce, sono le guide che le sono mancate. La madre aveva soddisfatto il bisogno di capire. Ciò che prova adesso è una voglia di guida. Punto. Di essere presa per mano. Per comprendere fino in fondo.
A Federica viene voglia di piangere e anche se non piange, io nella stanza accanto ascolto i suoi singhiozzi inespressi. So pure che lei sta interrogando Irene che intende tutto quello che accade a Federica ma preferisce che sia Diego a parlare e Federica, se ne ha voglia, di chiedere.
«In ogni religione il fondamentalismo è in agguato. Si scambia il relativo per assoluto. Il relativo stimola l’intelligenza e apre il cuore alla comprensione e genera autonomia, mentre tutto ciò che viene presentato come assoluto è imposto, non si discute e serra le menti e gli animi e crea dipendenza. Dominare le coscienze: ecco il bisogno di potere. L’uomo dominato, inibito, non esplora, non cerca. Anzi, ha paura. Teme ogni cambiamento, teme chi non conosce.»
Avverto che Federica si è acquietata. Vorrebbe spalmarsi sulla tavola, sul pavimento, sulle pareti. Vorrebbe che in quel bicchiere d’acqua fresca che sta portando alle labbra ci fossero sciolti Diego e Irene.
Dalla stanza provengono a me, che compio deduzioni, i gesti consueti di chi è in famiglia, seduto a tavola – come qualcuno che solleva la bottiglia, un altro la cesta del pane, la padella che passa da una mano all’altra, qualcuno che poggia al centro la coppa con la frutta –, e mi convinco che questo stare insieme significa una cosa sola, significa che anche Diego e Irene hanno lo stesso desiderio di Federica, quello di bersela nel bicchiere d’acqua.
Federica nel bagno si lava i denti. Hanno sparecchiato, rimesso ogni cosa a posto. Tutti e tre. Poi Diego e Irene si sono sdraiati sul divano della sala col camino, gli avvolgibili quasi totalmente abbassati.
Federica si muove in gran silenzio per la casa. Altre volte se ne è andata nel giardino degli aranci o nella pineta per dondolarsi sull’amaca. Oggi fa troppo caldo. Le emozioni si sono stemperate e mentre in punta di piedi osserva gli oggetti che ormai le sono familiari un’altra inquietudine si risveglia. Che altro potrà ormai accadere in questa casa così magica?
Si accosta alla libreria alla ricerca di un libro che svegli il suo interesse e scopre sulla scrivania un album che non aveva mai visto. Album che si apre d’incanto tra le sue mani. La copertina rigida e la rilegatura danno questa sensazione. Le pagine si aprono da sole e appaiono e scompaiono poesie e foto di ragazze. Di una ragazza. La prima foto che guarda con attenzione è assai simile a quella nella stanza dove era entrata con Irene. Torna alla prima pagina e legge.
“Ascolta Daniela, devo raccontarti una storia essenziale. Tu sei stata concepita nel folto del vigneto. Era l’ora degli uomini delle vigne. Custodi dei silenzi dei grappoli, delle iperboli dei pampini, delle necessità delle radici. Il popolo delle vigne, che emerge silenzioso dall’umido fervido della terra, suggerisce sensazioni emozioni pensieri delicati, bisogni autentici di contatti. Per questo tu sei stata concepita nel folto del vigneto.”
Federica chiude l’album e si siede sulla poltrona dello studio, la poltrona di Diego. L’enorme vetro infrangibile della finestra, senza apertura, si spalanca su grappoli gialli che assorbono il suo sguardo: la palma coi suoi rami verdi carichi di grani di un giallo intenso.
Cosa faccio qui? Si chiede Federica. Distoglie la mente da questa domanda che tenta di imbrigliarla con grande sforzo e riprende a sfogliare l’album.
Più tardi, poco più di mezz’ora, Federica in cucina attende che esca il caffè. Prepara il vassoio con tre tazze e la zuccheriera. Nella sua testa c’è posto per una sola domanda che ha deciso di porre. E le azioni sono guidate da questa unica, fondamentale domanda, la cui risposta teme.
Sul divano Diego è seduto con gli occhi chiusi, Irene è distesa, i suoi piedi sono sulle cosce di Diego, che li tiene ben stretti.
Appena entra, Diego apre gli occhi e le sorride. Federica no, pur guardandolo. Accosta con la mano libera una poltrona e si siede. Il rumore delle tazzine e il profumo svegliano Irene, che cambia posizione e si siede per prendere la tazzina che la ragazza le porge.
«Ho fatto una cosa che forse non dovevo fare. Sulla scrivania del tuo studio c’era un album. L’ho aperto. Non dovevo farlo. L’averlo fatto mi dà la forza di chiedere.»
Diego dopo il primo sorso: «L’album non era lì per caso. Se fosse stato lì sempre l’avresti già notato. Abbiamo deciso che tu dovessi sfogliarlo. Non c’era altro modo. Non volevamo essere noi a raccontarti la nostra storia, abbiamo scelto che fossi tu a chiedere, a domandare.»
Irene sospira: «Quello è uno dei tanti… mai troppi ricordi di nostra figlia Daniela. Un cancro ce l’ha tolta quando aveva diciotto anni. Ed è accaduto tutto così in fretta… Per questo, e ciò nonostante, abbiamo imparato che la vita è troppo importante per non essere vissuta.» Diego, come se volesse spiegare. «Qualunque cosa possa accadere. Si tratta di sciogliere il dolore, quello che subiamo, anche quello che procuriamo, lasciarlo che circoli nelle vene. Che non svanisca, che rimanga, che faccia sempre parte di noi, per renderci migliori, per farci vivere più intensamente.»
Federica beve il caffè che si è raffreddato. Questa volta li guarda, prima uno, poi l’altro, non sa su chi soffermarsi, infine decide e porge ad entrambi le mani.
«Si era parlato di album di campagna, di foto per la piana dei vigneti, mi rendo conto che sto entrando nella vostra storia. E nella tristezza, nel dolore che ci unisce, tutto è più semplice.»
– Amore senza confini
Mentre Federica aspetta e resta immobile, in piedi, soffocata dai battiti violenti del suo cuore, Valentina si veste senza lasciare spazio alle emozioni per guidare con la maggiore lucidità possibile la fretta delle sue azioni. Finché non sale in macchina. Finché non arriva sotto il portone di Federica. In tutto meno di un quarto d’ora. Quando è sotto il portone il suo cuore si scatena, dopo aver citofonato e prima ancora di sentire lei all’apparecchio. Tanto che si sente mancare. Deve salire lentamente quei cinque gradini per giungere fino all’ascensore. Lento! Federica apre la porta dell’ascensore, la trascina fuori e l’abbraccia così stretta che lei dice in un soffio: «Devo respirare.» Allora l’amica la prende per mano, la tira dentro casa e chiude la porta. Valentina riprende fiato proprio come se avesse fatto le scale di corsa e mette le mani avanti: «Per favore, io ho tanta paura.»
Sono tutte e due in piedi all’ingresso, Federica indossa un baby-doll nocciola-chiaro che ammorbidisce il corpo, se ce ne fosse bisogno! E si confonde coi colori della pelle lievemente abbronzata. Ha chiuso gli occhi, controlla i suoi slanci ma vi riesce appena, perciò spuntano alcune lacrime e scivolano lentamente, ogni tanto fermandosi come se seguissero gli impulsi del suo corpo. Valentina si sta sedendo invece su quell’unica sedia dell’ingresso perché le gambe non la reggono e non solo per la fatica di quella salita, pure se in ascensore, ma perché ce l’ha tutta lì davanti quasi nuda, anche se il suo cuore adesso si sta calmando, la sta accettando, e l’ansia, il timore, la paura arretrano. Riprende forza. Federica immobile la segue stupita con lo sguardo. Perché si rende conto che sta andando in camera da letto e non nel salotto. La segue e si ferma sulla porta. Valentina si sta togliendo la camicetta. «Hai un’altra camicia da notte come quella che indossi?» Federica la guarda inebetita. I suoi riflessi sono lenti. Le succede di rado. «Sono venuta perché dobbiamo parlare, però dopo dobbiamo pure dormire o vuoi che me ne vada.» Federica si affretta ad aprire il cassetto del comò. Valentina guarda il cassetto ma non riesce a vedere nulla. Per questi ultimi pochi minuti il cervello ha ripreso la guida, però è troppo quello che chiede a se stessa. «Questa?» chiede Federica e prende coraggio mostrandole un baby-dollnero. «Questo colore ti sta bene.» Valentina si toglie il reggiseno e la indossa, si siede sul letto, via le scarpe e pure i jeans. Adesso hanno indosso le stesse cose. Il letto è disfatto dai precedenti tormenti di Federica. «Anche tu hai provato a dormire.» «No, mi sono messa a letto per rivivere tutto ciò che è accaduto. E il desiderio di sentirti e di vederti mi ha sopraffatto.» Valentina si infila nel letto e si copre col lenzuolo fino al collo. «Porta qualcosa di forte da bere, se vuoi sentirmi parlare.» Federica questa volta sorride. «Parlare parlare, ho detto parlare, cosa credi!» insiste Valentina.
Tu, lettore, sai che preferisco ascoltare il ritmo del cuore e il fluire dei pensieri. Me ne sto all’ingresso sulla stessa sedia che ha accolto Valentina esausta appena arrivata. L’udito rivela più cose, la vista accoglie troppo e distrae. Però bisogna saper ascoltare. Questa storia è la storia dell’ascolto. E io soltanto ascoltando so quello che accade.
Valentina guarda la stanza i mobili le suppellettili. Per prendere coscienza di dove si trova. Di colpo sente che quella stanza le è familiare. La luce del comodino dall’altra parte è accesa. Mi sposto e mi raggomitolo dietro la panca dell’ingresso perché Federica sta tornando con un vassoio, una bottiglia e due minuscoli bicchieri. «Primo Amore», annuncia Federica senza malizia, per pentirsi subito dopo, infatti l’amica laguarda con una strana, dura, espressione. Cosa le sta dicendo: la rimprovera? È una presa in giro, una battuta di pessimo gusto? Le toglie di mano la bottiglia e legge l’etichetta. «Non hai niente di più forte?» Federica scuote la testa: «Primo Amore è un vino liquoroso, un passito di queste parti, credo di Manduria. No, non ho altro.» Poggia il vassoio sul comodino dalla parte di Valentina. Versa il passito e si ferma a metà del bicchiere, ancora offesa. «Riempilo. Anzi riempili.» Impone Valentina. Federica conclude l’operazione, prende il suo bicchiere e gira attorno al letto. Naturalmente col bicchiere in mano e per poter bere alza il cuscino e sta per sedersi e invece Valentina: «Per favore entra nel letto tutta intera come sto io.» «E come faccio a bere?», «Così» Valentina si solleva, prende il bicchiere ingoia tutto d’un fiato.
Tutta la casa trattiene il respiro. Sembra che gli oggetti in ogni stanza, quelli sui mobili e quelli dentro i cassetti, senza distinzione di uso o di fattura, quelli che hanno senso e quelli che in apparenza non ne hanno, quelli strettamente personali di Federica come i suoi graziosi cappelli e quelli che potrebbero appartenere a chiunque ma che ormai sono di casa, sembra che tutti questi oggetti si siano svegliati dal loro letargo per un evento eccezionale, inatteso, e abbiano intenzione di seguire l’evolversi che si preannuncia denso di sensazioni e straordinari turbamenti. In questa capacità di svegliare persino gli oggetti, io riconosco l’uomo e me ne sto appagato all’ingresso con l’intelletto che accoglie i loro delicati messaggi.
Federica spegne la luce, entra nel letto e attratte da una forza irresistibile, incontrollabile, vanno incontro l’una verso l’altra e si abbracciano, una breve esitazione, un freno all’impeto, infine si baciano titubanti. Perché il bacio è la chiave che apre il corpo alle carezze, ai sospiri. Le bocche si schiudono e ciascuna vuole rubare all’altra il respiro. Non sanno quello che stanno facendo. Una volta che i loro corpi sono così stretti il tempo si annulla e si muovono e si toccano con una dolcezza estrema che stordisce. Non c’è nulla al di fuori delle loro stesse emozioni, insolite, conosciute-sconosciute perché ciascuna sa cosa fa piacere all’altra e però profumi e sapori, umori e carezze sono di un altro mondo, il mondo della delicatezza, della docilità, della resa.