“La luce segreta del Salento” il romanzo degli amori possibili di Maurizio Mazzotta. Quinta puntata (5/9)
Il lamento del popolo delle vigne
Una delle due vore di Barbarano a pochi chilometri da S. Maria di Leuca è la più grande del Salento. Ha un diametro di circa trenta metri, una profondità di quarantacinque. Bisogna conoscerne l’accesso perché dalle pareti coperte da una fitta vegetazione salgono in superficie alberi e cespugli che lo nascondono.
La notte tormentata di Federica termina il suo percorso lasciando alla tenue luce dell’alba il compito di rasserenare gli esseri umani dando spazio al sonno.
Questa stessa luce a oltre cinquanta chilometri di distanza ferma il respiro della natura: dai più vicini corbezzoli con i loro calici, compagni di mirti e ginepri, al lentisco, al caprifoglio, al finocchio selvatico fino ai lecci, fino agli ulivi nelle chiusure recintate da muretti a secco, fino ai vigneti custoditi da attenti ficodindia. Sono in attesa, sono all’erta il coniglio guardingo e il riccio; il biacco nero e il cervone smisurato e innocuo, le lucertole verdi e la luscengola, tutti ancora nascosti negli anfratti o arrotolati sotto i massi. I pettirossi e gli usignoli sugli arbusti e l’upupa tra i canneti non schiudono i loro sensi come sempre al giorno, non è questo un risveglio naturale al lucore che preannuncia i raggi del sole. Si tratta di ben altro. Svegliarsi per un accadimento. Come se quel momento dell’alba comunque e sempre magico stia per rivelare qualcosa, ma non qualcosa di ignoto, tutt’altro. Si avverte l’aggravarsi di qualcosa che invece è tremendamente noto. L’annuncio di qualcosa che bisogna ricordare. Perché terrificante. Perché quando il terrore è in agguato e non c’è possibilità di difesa abbiamo il dovere per noi stessi di non lasciarci cogliere impreparati. Non sbigottirci increduli e nemmeno, all’opposto, assuefarci, ma avere una consapevolezza costante per un semplice ma necessario rifiuto verso ciò che ci atterrisce.
La sospensione dura poco, forse secondi, sufficienti perché ciascun essere vivente possa intendere.
Un piccolo cane randagio che ha vagato tutta la notte in cerca d’una pozza d’acqua, si blocca, indugia poi si appiattisce aderendo col fianco al tronco rassicurante di un leccio.
Dalla vora emergono suoni, dapprima fruscii di rami smossi, scricchiolii, calpestii, infine sospiri e lamenti. Sempre più evidente che sono lamenti.
Il cane uggiola, poggia il muso sulle zampe anteriori protese, piega le orecchie. Sta rispondendo ai lamenti, si associa ad essi, ma a poco a poco il suo uggiolare si modifica, si trasforma in un suono inequivocabile di piacere come se tutto il suo essere non possa fare a meno di trattenere una gioia più forte, così la coda per conto suo spazza la terra per breve spazio. Ma rimane contratto al suo posto, non si mette a correre abbaiando festoso, perché si è fermato sotto il leccio all’annuncio di un evento triste. Rimane tra allegria e mestizia, tra voglia di ruzzolare e angoscia, benessere e tormento. Con la coda che si muove lentamente perché quelle presenze che affiorano dalla vora e che conosce assai bene sono uomini che sanno amare come lui. Anche l’espressione dei suoi occhi nocciola oscilla tra dolcezza e amarezza.
A decine salgono dalla vora, le braccia lisce come i rami di un giovane fico. Il colore della pelle richiama l’acqua di uno stagno, la mela acerba, la buccia dei fichi il cui interno rosa annuncia un delicato sapore.
Molti rimangono sugli alberi della vora, altri con le gambe incrociate in circolo, altri ancora appoggiano le spalle ai lecci. Uno di questi lentamente si volta a scoprire il cane come richiamato dalla sua presenza e dalle sue esigenze e lo invita con un leggero cenno ad accostarsi. Il cagnolino si avvicina, la coda più libera di spazzolare, rimanendo appiattito sul terreno. Quell’uomo straordinario, perché di uomo si tratta, allunga il braccio, offre le sue lunghe dita e il cane le succhia avidamente e si disseta.
Sono uomini, la parte migliore dell’umanità fatta di terra e di acqua, la cui sensibilità è acuita, perché i loro corpi sono aperti al mondo, attenti agli esseri viventi. Vivono nelle grotte e nelle vore del Salento e di ogni altra parte del mondo, vivono nel ventre della terra. Si nutrono di tutto ciò che la terra offre. Vestono di cenci. Per loro è importante essere, non apparire.
Sono come vorrebbero essere tutti gli uomini, capaci di accettare se stessi e i loro limiti, con esigenze di conoscere prive di angoscia. Col bisogno di comprendere non il perché né il chi, insondabili e misteriosi, ma semplicemente il come. Il bisogno di conoscere solo ciò che si può comprendere. Non la vita e la morte, ma il proprio simile, che è dentro e fuori di noi, simile o dissimile che sia in apparenza, che ci è a fianco, che incontriamo, che riconosciamo, che vediamo per la prima volta. Perché ogni essere vivente è un mondo che sveglia nell’essere umano bisogni più autentici, che lo caratterizzano: conoscere, comunicare. Scambiarsi sensazioni emozioni scoperte.
Come i loro movimenti divengono man mano più armoniosi così il lamento volve in una canzone che conserva il significato del pianto. Il canto di un popolo afflitto sconsolato smarrito. La canzone dell’umanità malata.
Dice di sangue sparso, di terra intrisa. Dicono che ne sentono l’odore e il sapore, lo riconoscono al tatto quando con le loro dita sfiorano la pietra. Perché sono rivoli che giungono fino a loro attraverso le rocce delle grotte.
Dice, il canto, che sulla terra si semina dolore e disperazione, che ciò che si costruisce contiene il germe della distruzione. Ai bambini viene negata la gioia di vivere, ai giovani si sottrae la giovinezza, uomini e donne derubati della capacità di pensare. Che l’uomo sulla terra è come sempre determinato ad annientare, pronto al massacro.
Gli uomini delle vigne cantano e si lamentano perché sulla terra c’è chi ha coscienza profonda, soffre e si dispera in solitudine. Uomini e donne che hanno bisogno di ritornare alla terra e di unirsi a loro.
L’alba si colora e il sole sfiora le cime dei lecci, una nebbia leggera si alza dal suolo. Il canto si smorza e quegli uomini lentamente si muovono, questa volta senza alcun rumore, miraggi sembianze visioni, scompaiono a poco a poco, tornano nella vora.
Il cane si alza sulle quattro zampe e abbaia per un saluto. Poi il dolore della separazione ha il sopravvento e ulula alla luce del giorno che gli ha portato via gli uomini veri.
Rivelazioni
«L’altro giorno mi sono persa nel vigneto», dice entrando coi sandali che non fanno rumore.
Diego solleva la testa. Quella ragazza è un’apparizione, anche perché non l’ha sentita arrivare. La sua figura snella che sembra comprimere tutta l’energia di una giovane pianta in espansionesta attraversando il suo campo visivo. Indossa come al solito i jeans e una camicetta estiva fucsia che le pennellano il corpo. Diego chiude il libro e la invita a sedersi. Sposta la sua sedia per averla di fronte.
«I vigneti da queste parti sono molto grandi, ma erano ancora più estesi.»
«Sembrava una foresta, le viti erano alte, ero sommersa.»
Diego allontana il libro e pensa che sia il momento. Deve dirle tutto ciò che deve sapere. Solo così saprà cosa cercare. «Sembrava una foresta, le viti erano alte, ero sommersa.»
Diego allontana il libro e pensa che sia il momento. Deve dirle tutto ciò che deve sapere. Solo così saprà cosa cercare.
«La vigna è viva. Incredibile quello che riesce a fare la pianta della vite. Non è solo forte e tenace, è…Veramente loro…loro potrebbero dire che l’intenzione della pianta…»
Federica è immobile, segue parole gesti ed espressioni. Lui lo sa. Stringendo le palpebre per nascondere lo sguardo studia la reazione di Federica, e parla lentamente, perché a lei venga il sospetto che stia per dire cose che non dovrebbe dire.»
«L’intenzione della pianta sia quella di…», riprende e sospende.
Federica esprime una lieve perplessità corrugando le sopracciglia.
«Loro…Loro chi.»
Lui, abile mentitore: «Ho detto “Loro”?»
Federica che comincia a comprendere le sfumature della voce e il significato dei gesti, conferma e ai suoi occhi sfugge un sorriso indagatore.
«Sì, hai detto “Loro potrebbero dire”.»
«Gli uomini delle vigne.» Come a dire: ma è ovvio!
Lei capisce, torna seria, non vuole sorridere, vuole che sia vero quello che lui sta per raccontarle e convinta chiede:
«Quelli della leggenda? La leggenda della piana?»
«Scoprirai la magia di questa pianae conoscerai gli uomini delle vigne.»
Alza gli indici e le sopracciglia per avvisare: attenzione è importante!
«Dovrai andare nel vigneto all’alba o all’imbrunire o alle due del pomeriggio, quando il termometro segna quaranta gradi all’ombra. Devi entrare nel vigneto nelle ore del sogno e della fantasia, e perderti, perdere la nozione del tempo e dello spazio. Solo a queste condizioni estreme capirai le storie del popolo delle vigne.»
«Quali storie?»
«Ti si presenteranno con una tale evidenza che…»
In questo arriva Irene con succhi di frutta e bibite ghiacciate e Diego è contento di quella interruzione. Federica deve sapere, ma a piccole dosi. Crearle l’aspettativa.
Irene poggia il vassoio sul tavolo e si siede. Sono quasi le undici, comincia a fare caldo e c’è già voglia di bere. Federica sceglie un succo di ananas.
«Anni fa», riprende Diego dopo un piccolo sorso di orzata quasi che si fosse distratto e si accingesse a riferire d’altro, «Irene ed io decidemmo di eliminare il vigneto. Anche noi volevamo distruggere le viti! Come se non fossero bastati tutti gli eventi della piana che l’avevano mutilata. I vigneti creano più problemi, c’è molto lavoro, e l’anziano contadino bravo e instancabile che ce li aveva curati non c’era più. Decidemmo a favore della pineta, della pista da ballo, delle aiuole per il giardino, quello fuori di qui che conosci. Così un inverno ci facemmo fare legna da ardere.»
Beve un altro sorso. «Ma l’anno dopo», fa una pausa, «le viti spuntarono. I contadini spiegavano che non erano state estirpate a dovere, che bisognava scavare buche profonde per ogni vite e sradicarle completamente. Così facemmo. E puntualmente rispuntarono. Ah! ma dottore così è la vigna; se ci mette l’acido però…Lei taglia la pianta che nasce proprio alla base», mi dicevano «scavando un poco, e poi sul taglio fresco versa l’acido muriatico.»
Questa volta si ferma senza bere, cambia tono di voce e quasi la interroga. «Ti fa male? Anche a me, al ricordo. Io personalmente, una per una ogni pianta, non era faticoso, ma ci voleva l’ostinazione, la voglia di stroncare la vita. Intanto crescevano alberi e fiori che Irene piantava, tutto quello che vedi, insomma le viti non c’entravano niente. Eravamo convinti e d’accordo a eliminarle. Feci quella operazione e trascorsero due anni.»
Riprende a bere. «Rispuntarono ancora e ancora e crescono e continuano a crescere. Hanno vinto, ci siamo rassegnati. Ogni tanto le tagliamo semplicemente. Però da allora scattò dentro di me un processo di riconversione dei miei atteggiamenti verso la vite. Volli studiarla e scoprii cose che non avrei mai immaginato.»
Conosce la risposta ma le chiede ugualmente: «Ti sto annoiando?»
E Federica pronta: «No, tutt’altro. Cosa hai scoperto?» Diego si alza e con un gesto la invita a seguirlo. A Irene piace vedere Diego che parla e Federica emozionata che lo ascolta. Sa quello che vuole mostrarle ma si mette in coda ugualmente e tutti e tre escono dall’aranceto.
Attraversano il giardino al limite della pineta verso l’alta siepe di pittosporo che nasconde la recinzione, dove le piante e i fiori lasciano spazio a giovani salici. «Queste sono piante di viti che spuntano, e guarda qui, questa è cresciuta proprio dentro la siepe di pittosporo, vedi come si è intrecciata? Tu vedi i germogli che sono riccioli, teneri e delicati, e se li osservi bene, noterai che sono protesi, tendono verso le altre piante vicine, qualunque pianta, come se volessero toccarle o afferrarle, per impadronirsene.» Federica osserva interessata e insieme vanno alla ricerca delle piante di vite selvatica, le barbatelle, mimetizzate tra i pittospori, oppure ancora più in alto sui salici.
«Ho scoperto la determinazione. Altro che edera! L’edera si arrampica sul muro presso il quale è stata piantata, la vite come vedi cresce verso un albero, come se l’avesse scelto. Qui, per esempio poteva arruffarsi nel pittosporo e invece si è lanciata verso il salice, è questo salice che vuole. Tu dirai: per togliergli la linfa. Sì, qualche volta accade, è accaduto. Mi accorsi troppo tardi di un giovane pioppo che non ebbe la forza di resistere e si disseccò. Certo succede. Ma se l’altra pianta è forte, allora non si può più parlare di sopraffazione ma piuttosto di voglia di intrecciarsi, unirsi, allacciare una relazione, comunicare. Questo evento viene sfruttato da agricoltori sapienti. In alcune regioni, in Campania sicuramente, si fa in modo che interi vigneti crescano sugli olmi. Vigne maritate ad olmo. Dicono che i grappoli in alto siano pieni di sole.»
Più tardi, dopo aver ispezionato l’uliveto, è ancora presto per il pranzo e sta piacendo a tutti e tre riposare qualche minuto prima di rientrare a casa e Federica, senza averlo deciso, lascia tracimare il suo fiume a lungo trattenuto nell’alveo angusto in cui lei stessa lo ha costretto. Come se il fiume si fosse gonfiato all’improvviso, perché questo è il momento di spandersi e Federica non può rafforzare gli argini, non sa nemmeno lei il motivo dell’urgenza, non sa di non saperlo, è come se Federica non esistesse più: esiste soltanto il suo fiume.
«Quindici anni fa ho perso mia madre. Eravamo noi due sole a Lecce. Eravamo molto unite. Quel giorno eravamo in banca, mia madre ed io e… ci fu una rapina. Mia madre fu presa da uno dei rapinatori», chiude gli occhi, fa uno sforzo: il fiume è nel momento critico di superamento degli argini. Le puntava una pistola alla tempia. Altri due si facevano dare i soldi. Non si sa cosa accadde, forse un impiegato li ha innervositi, ha innervosito quello che aveva mia madre. Ha sparato.»
Fa grande fatica a raccontare, non perché il fiume abbia perso d’impeto, ma perché la sta sommergendo.
«Poi hanno sparato tutti. Alla fine c’erano tanti morti, i tre rapinatori, due impiegati e mia madre. C’era pure un poliziotto ferito, perché era sopraggiunta la polizia, una sparatoria senza fine, io raggomitolata sotto un tavolo, ma questi particolari, questo del tavolo dove mi avevano spinto o forse c’ero andata, mi viene in mente ora per la prima volta.» Federica ha gli occhi colmi di lacrime. Cominciano a scivolare lungo le guance; Irene e Diego le fissano impotenti e atterriti, bloccati dal buio e dal silenzio calati d’improvviso nei loro animi. Un minuto un secolo imprigionato nel tempo, poi finalmente la mano di Diego scivola verso quella di Irene che le va incontro e si stringono fino a farsi male.
«Mi rendo conto che è la prima volta che racconto a qualcuno questa mia storia», riprende Federica con una voce che da un momento all’altro può frantumarsi. La sua vicenda sta passando a Irene e a Diego attraverso i tremiti del corpo, i rivoli che sgorgano copiosi, le mani serrate alle ginocchia. La voglia di parlare proprio a loro è forte, per questo serve a tutti una pausa: cogliere un refolo di vento che si è sollevato, e ora è mano fresca sulle emozioni. «Mi succede da un po’ di avere delle immagini, no un’immagine. Qualunque cosa stia facendo mi attraversa la mente… è il volto di mia madre e del suo assassino che le punta la pistola alla tempia. Non so perché adesso dopo tanti anni, forse perché sono diventata troppo sensibile a tutto ciò che accade, voglio dire a tutte le forme di violenza. Mi chiedo se è così… è così che dobbiamo vivere?» È proprio un interrogativo disperato che rivolge ai due che rispondono con l’intensità dello sguardo, gli occhi fissi nei suoi, i corpi immobili che dicono intanto la cosa più importante: noi siamo qua.
La giovane riprende: «L’altra notte non riuscivo a dormire. Ero aggredita dalle immagini di tutto ciò che l’uomo distrugge. Mi sono messa a piangere. Non credo di aver pianto così allora. Ho pianto come avrei forse dovuto o voluto piangere tanto tempo fa. Comunque non è sufficiente. Continuo a chiedermi: perché tanta brutalità? Una domanda che non viene dal cervello, il cervello conosce la risposta, forse sono proprio io tutta quanta, lo stomaco i muscoli la pelle le unghie i capelli non capiscono e continuano a chiedere. Non perché sia stata uccisa mia madre, ma perché l’uomo distrugge ogni cosa con voglia, voglia di distruggere.» Gli occhi riversano così tante lacrime che lei non riesce ad asciugarli con le dita. Irene è ipnotizzata da quelle lacrime e Diego che lo sa senza averla guardata guida la mano di lei verso quella di Federica. Federica risponde. A questo punto Irene cerca il pacchetto di fazzoletti nella tasca della gonna.
E Diego? Diego, che avrebbe voluto abbracciare e stringere a sé quella bambina e cullarla e proteggerla, si assume invece con sofferta consapevolezza il compito meno adatto: parlare. Perché è il contatto, il corpo, la risposta attesa e lui cerca di dire il meno possibile.
«Il cervello conosce la risposta, ma non l’accettiamo. Tu vuoi dare un senso alla vita, ecco il senso è proprio ciò che sta accadendo qui in questi momenti.tra noi»
Irene finalmente le dà ciò che cerca, si accosta e l’abbraccia forte e lascia che torni a piangere. Le lacrime di ciascuna scivolano sul collo dell’altra. Federica solleva il volto devastato verso Diego e un fiocco di serenità affiora nel suo sguardo. Le braccia di Irene, la voce di lui, che non è passata per la testa, è andata dritta al cuore, ed è come se avesse parlato chissà quanto, le stanno dando quella certezza di cui aveva bisogno: di essere arrivata sulla spiaggia dopo un naufragio.
È un quadro, una foto. Per chi osserva dall’esterno. Un uomo una donna una ragazza seduti su un muretto, sotto una robinia generosa d’ombra e un glicine che gli dà colore. Immobili. Un gazebo che ha per sfondo una pineta. L’impressione è di un momento sigillato, tutto ciò che è accaduto è serrato, contratto. Soltanto una impressione. Chi è qui, come me, per spiare ciò che succede e lo comprende totalmente, discerne al di là dell’apparenza di staticità una fusione di vertigini. Diego ha detto qualcosa di importante. Il meglio dell’uomo sta in questa capacità di incontro. Il meglio affiora quando ci sono incontri reali, dove ti mostri come sei ed è tutto il corpo un fascio di bisogni che si apre e si distende. La vita acquista senso in questi momenti. Il meglio dell’umanità sta proprio nella capacità degli esseri umani di incontrarsi e di passarsi la loro vita interiore. Il che indubbiamente crea una vertigine, ma l’uomo ha bisogno di questa vertigine. Non d’altro.
La sesta puntata sarà online il prossimo 9 novembre.