La lingua italiana si tutela conoscendo i codici dei dialetti e delle etnie storiche
Di Pierfranco Bruni
La lingua italiana si tutela con la difesa dei dialetti. Anni di studi sulle etnie e sulle lingue mi impongono oggi di aprire una vasta discussione sui nuovi dialetti che, in molte occasioni, diventano linguaggi tra lingue bastarde ed etnie storiche contaminate da nuove forme di elementi semantici.
La storia delle lingue è dentro l’identità degli idiomi che caratterizzano un territorio sia dal punto di vista storico – geografico che linguistico vero e proprio. Credo che sia necessario ripensare alla cultura dei dialetti non solo attraverso una chiave di lettura antropologica ma anche grazie ad un percorso giuridico, che ponga le basi per una vera e propria legge di tutela sui dialetti, che non sia la stessa che tuteli le cosiddette lingue minoritarie.
L’Italia è una Nazione, che si caratterizza culturalmente proprio per la varietà delle forme dialettali da non confondersi con “altre lingue”. Il dialetto è parte integrante del costume e della tradizione di una Regione ma anche di territori all’interno di una stessa Regione.
Ci sono varianti nei dialetti della lingua italiana, che mostrano la vera storia di una comunità ben definita all’interno della comune identità ed eredità nazionale. Ecco perché occorre puntare ai dialetti come patrimonio culturale, partendo da un presupposto preciso che è quello che devono restare, i dialetti stessi, dei modelli in una visione tra recupero delle tradizioni e letture antropologiche.
Conoscere i dialetti non è la stessa cosa di tutelare etnie o lingue minoritarie. I dialetti sono, comunque, appartenenza della cultura italiana. Questo deve essere chiaro, soprattutto, alla luce di una nuova dialettica sulle lingue minoritarie e sulle particolarità etniche. Il dialetto nasce nel contesto del tessuto culturale nazionale e quindi tutelarlo significa anche rafforzare la stessa lingua italiana, la quale nasce, appunto, da modulazioni dialettali. Ogni Regione presenta le sue caratteristiche e, dal punto di vista linguistico, si pone con delle precise koinè espressive.
Lo studio che da anni porto avanti per il Mibact mi ha dato la possibilità di intrecciare beni immateriali con i territori, ovvero tra lingue e antropologie e realtà geografiche.
C’è da dire che il dialetto, tra lingua – storia, va tutelato come patrimonio della identità di un territorio all’interno di una politica di difesa delle tradizioni, dei costumi e delle geografie di un Mediterraneo ormai diffuso che è sempre più articolato anche dal punto di vista delle lingue e delle eredità.
Il dialetto è altro rispetto ai processi linguistici ed etnici delle presenze minoritarie anche perché ad essere interessato è tutto il tessuto nazionale. D’altronde c’è una straordinaria letteratura dialettale che si mostra con una sua freschezza e interessa il Nord come il Sud dell’Italia con degli incisivi aspetti per i dialetti “isolani”. Si riapre un capitolo anche sulla questione del sardo.
Il sardo è una lingua o un dialetto? Il Friulano pone la stessa questione. Perché non dovrebbero porlo il siciliano e il napoletano? Quindi scientificamente sgombriamo il campo da equivoci. C’è una legge di tutela sulle lingue minoritarie, che va necessariamente riconsiderata e rivista in molti aspetti e ci sono dei dialetti da considerare come veri manifesti del mosaico linguistico della Nazione, che vanno salvaguardati per la loro importanza storica, per il loro contributo letterario, per il loro arricchire l’eredità della stessa lingua nazionale.
Naturalmente alla base di una discussione su tali materie resta una norma fondante che è quella della lingua italiana senza cadere però nell’accettazione di una lingua che possa perdere la sua struttura originaria per favorire inserti, che provengono da altre forme di “meticciato” linguistico.
La lingua italiana è lingua nazionale di un popolo con le “dovute” varianti. Ma non si può parlare di bilinguismo “etnico” o storico ad oltranza. Ci sono casi da riconsiderare e fenomeni che andrebbero riletti come la presenza, non solo culturale, ma linguistica della lingua albanese in alcuni centri italo – albanesi, presenti addirittura in sette Regioni dell’Italia centro – meridionale. Qui si pone un problema molto serio. Un conto è definire il rapporto tra etnia albanese presente in Italia e tutela della lingua albanese. Un altro dato invece è tutelare l’albanese come lingua. Si dovrebbe ridefinire la contestualità attraverso una marcata distinzione tra l’arbereshe (italo – albanese) e lingua albanese. Il paradosso è che in alcune Università non si insegna l’arbereshe ma la lingua albanese come modello tutelante in Italia.
Non si possono naturalmente, con tutto il rispetto per i saperi avanzati, condividere sia culturalmente che giuridicamente queste scelte ma l’errore iniziale sta nella legge, che tutela le lingue minoritarie perché parla di lingua albanese e non di arbereshe. Una correzione va fatta urgentemente e tutta la normativa va rivista anche perché si entra in un groviglio di confusioni, che sono apparentemente culturali ma che si impongono come elementi meramente giuridici e non è poca cosa.
In virtù di ciò non dispiacerebbe aprire un serio dibattito sui dialetti italiani ma i due aspetti, anche sul piano giuridico, vanno trattati in modo chiaramente distinti. Puntiamo alla tutela della cultura dei dialetti perché solo così si rafforzerà la storia, la tradizione e le culture nazionali della civiltà italiana. Il dialetto è patrimonio condiviso di una Nazione ed è parte integrante nei processi integrativi tra lingua, storia e identità. Ben altra cosa sono le lingue minoritarie, che vanno, chiaramente, tutelate ma andrebbero giuridicamente regolamentate.
Non capisco perché anche dal punto di vista economico le lingue minoritarie possono attingere a contributi e la cultura dei dialetti resta ancora un campo sommerso, che non presenta alcuna forma di garanzia giuridica.
Campi, ovviamente, distinti ma da riconsiderare e ricontestualizzare. I dialetti sono dentro la storia della Nazione e hanno fatto la lingua italiana. Partiamo da questo presupposto senza confondere gli aspetti ma con delle idee precise e con una volontà, che possa puntare sia alla tutela che alla valorizzazione. Il vocabolario dei dialetti, soprattutto nelle aree meridionali, assomma un “laboratorio” di stili che vanno dal grecanico antico alle varienti magno – greche, al bizantino sino ai segni meticciati di una lingua post-unitaria e tardo risorgimentale che ha interessato l’intera Nazione con le varianti nordiche.
La stessa lingua italiana, d’altronde, nasce da forme di dialetto che hanno avuto però la loro ramificazione sul territorio italiano. Si impone, ora, una meditazione. soprattutto perché si è consapevoli che l’unità della lingua è una eredità che definisce il portato storico nella modernità della cultura e della civiltà di un popolo. Lingue ed etnie sono un legame molto stretto che si inserisce in un contesto che è quello della letteratura. Di questo mi occupo in un quadro di letture antropologiche e etno-linguistiche.
Pierfranco Bruni
Responsabile Progetto Studi Etnie – Letterature del Mibact