La “Letteratura latina inesistente” di Stefano Tonietto
di Mario Pintacuda
Sei anni fa, nel 2017, Stefano Tonietto pubblicò un divertentissimo e irriverente libro intitolato “Letteratura latina inesistente” (edito da Quodlibet Compagnia Extra, Macerata).
Come si legge nelle “alette” di copertina, si tratta di «una letteratura latina che nessuno può avere studiato a scuola, una parodia del manuale scolastico, dove compaiono autori assolutamente impensabili, divisi in correnti ed epoche: la Lesbia cantata da Catullo che risponde irritata a Catullo; il “seccatore” di Orazio che aveva già seccato anche Cicerone, un poemetto lucreziano sulla jella; e poi anticipatori, in anticipo di duemila anni su Ungaretti e Montale, e così via. È la filologia creativa, nuova disciplina accademica, dove un testo letterario mai scritto viene restituito al godimento dell’umanità e agli studi futuri, colmando una parte dell’infinita lacuna che è l’ipotetico e l’impossibile».
L’autore, “nato e vivente a Padova”, aveva in precedenza pubblicato un poema comico-cavalleresco intitolato “Olimpio da Vetrego” (ed. Inchiostro, 2010), in 4633 ottave di endecasillabi rimati.
Come scrive Claudio Morandini in una sua recensione, «il manuale di Letteratura latina inesistente di Tonietto è essenzialmente una parodia: dei manuali di letteratura latina dei licei, innanzitutto, soprattutto di quelli di una volta, di impianto storico-filologico e di buona scrittura; poi, di certe manie e vezzi del mondo accademico, e di tanta trattatistica puntigliosamente vocata a spaccare il capello in quattro, a praticare il contropelo in polemiche interpretative che possono durare intere vite, e che qui dilagano nelle note a piè di pagina; infine, delle mode dei nostri tempi, diciamo tra fine Ottocento (ammiccamenti alla psicoanalisi, al decadentismo), primo Novecento (allusioni ai movimenti d’avanguardia), su su fino alle scuole cantautorali di qualche decennio fa e ai decenni mestamente televisivi in cui ci troviamo, ahimè, impantanati. […]. Il libro di Tonietto ripercorre con ingannevole ossequio la storia di una letteratura assente, dimenticata, rimossa più che perduta – e popolata di scrittori che brillano per fallimenti, passi falsi, intempestività, abissale mancanza di talento, sguardo corto. Scrittorucoli, quindi, antieroi della penna: viene da seguirli con simpatia, e allo stesso tempo con sollievo, perché non si sente davvero la loro mancanza e si può ridere serenamente delle loro ambizioni frustrate, della “damnatio memoriae” che il tempo ha riservato loro» (rivista “Diacritica”, fasc. 19, 25 febbraio 2018).
Nella Premessa (datata 29 giugno 2017) l’autore afferma solennemente che «il fatto, meramente contingente, di essere esistito non dovrebbe più costituire, per un autore latino, l’unico criterio di scelta»; dunque vengono lasciati ad altri «Terenzio, Cicerone, Virgilio e compagnia», mentre il volume parla di una letteratura latina «forse inesistente, ma certamente non meno plausibile di quella nota» (p. 11).
Il libro dunque, nelle sue 194 pagine, tratteggia le fasi di questa fantomatica letteratura suddividendola in periodi cronologici ben precisi; la parte finale presenta invece «alcune schede biografiche dedicate ai più illustri ma meno conosciuti studiosi che hanno operato nel campo della Filologia Creativa».
Il volume, dedicato da Tonietto “ai nostri studenti passati e presenti, ai prossimi dj e alle prossime fashion blogger”, appare in realtà destinato soprattutto a chi ha fatto studi classici e a chi insegna e/o studia Latino; per questo “target” il risultato è davvero divertente e a tratti esilarante, anche se, vista la crescente latitanza del senso dell’ironia in questo Paese, non tutti hanno apprezzato questa estrosa e un po’ folle rassegna di “corbellerie filologiche”.
Mi limiterò qui a citare alcuni esempi, che mirano a indurre chi fosse interessato alla lettura integrale del libro.
1) I CARMI DELLA PSEUDO-LESBIA (pp. 33-37 passim).
In un codice minore di Catullo (il fantomatico Billgatesianus 853) il non meno fantomatico filologo elvetico Fröhler scoprì nel 1912 una mezza dozzina di carmi adespoti, in metro vario; classificò poi i carmi come “Carmina Lesbiae”, attribuendoli alla donna amata da Catullo.
Questi componimenti appaiono una vera “risposta per le rime” a quelli indirizzati a lei dal suo amante; ad esempio, la donna lo rimprovera di avere provocato lui la morte del suo adorato passero: «Non invocare Veneri né Amori, se morto è il passero della tua fanciulla; non ti avevo chiesto di badare a lui durante la mia assenza?» (vv. 1 -4).
Il carme 6, poi, nella sua “epigrammatica limpidezza” si rivela “un capolavoro di cinismo tutto femminile”, contrapponendosi al celeberrimo “Odi et amo” catulliano (c. 85): «Odiens et amans, de te fortasse requiris. / Nescio, Catulle, sed minime excrucior» (“Odiando e amando insieme, forse ti interroghi sul tuo stato. / Non so, Catullo, e me ne frega un fico”)».
2) AUTORI INESISTENTI DI ETÀ AUGUSTEA
Vengono ricordati:
a) i poeti della scuola ligure, fra i quali spicca Faber, «autore di odi che egli stesso intonava nei vicoli del porto della sua Genua», almeno finché non fu relegato in Sardegna (p. 58);
b) la scuola insubre con sede a Mediolanum (Milano), che ebbe per rappresentante un tale Gaber («se non è un errore dei codici per il ligure Faber», p. 59);
c) il poeta Clarinus, “immortale autore” di un’elegia intitolata “De anno venturo”, “ovidianamente redatta in forma di epistola”: «Ludendi causa tibi, amice, scribere volo, / et quia longe vacas, fortius tibi scribam» (“Per gioco voglio scriverti, amico, / e poiché sei molto lontano, più forte ti scriverò” (pp. 60-61).
d) il poeta Lucio Petilio Brassica, seguace, imitatore e clone di Virgilio, sul quale modellò la sua vita, la sua opera e addirittura la sua morte; infatti, ormai in agonia, volle farsi trasportare a Brindisi, dov’era morto Virgilio: «I medici e gli amici non glielo concessero, con la scusa del tempo cattivo. Chiese allora, come Virgilio, che dopo la sua morte i suoi poemi venissero bruciati. Questo desiderio, che non comportava particolari difficoltà, fu invece subito esaudito» (p. 69).
e) il poeta Floscio Gallo, autore di una “Institutio amatoria”, «vero e proprio corso di seduzione destinato ai giovani della Roma-più-o-meno-bene non forniti dalla Fortuna di adeguate ricchezze e/o decorosi quarti di nobiltà»; l’opera, pur ispirandosi evidentemente all’ “Ars amatoria” di Ovidio, se ne differenzia perché è scritta in prosa, «nell’arido linguaggio dei testi scolastici». Particolarmente significativo è il capitolo I 1, in cui si delinea l’articolazione della relazione amorosa nelle seguenti parti: «inventio”, ovvero il “trovare” la donna adatta nei luoghi da essa frequentati; “electio”, la “scelta” tra le possibili candidate; “seductio”, il “far venire con sé” la donna per mezzo di promesse o allettamenti vari; “locatio”, ovvero la “sistemazione” in un luogo opportuno e discreto; “dispositio”, la “posizione” dei due amanti, in relazione sia allo spazio disponibile che al partner; “actio”, o “azione” decisiva e conclusiva» (pp. 74-75).
3) I “FUTURISTAE” E MARINENZIO
Si tratta di un “movimento di contestazione” da parte di alcuni giovani patrizi, emarginati dai principali circoli letterari dell’età giulio-claudia: loro principale esponente fu “il gallo insubre Marinentius, che la lanciò con un proclama ufficiale nella città celtica di Lutetia Parisiorum”. I “futuristae” «predicavano uno spregiudicato rifiuto della tradizione, rigettavano tutto ciò che in tema letterario sapesse di passato: dunque non solo l’indicativo imperfetto, perfetto e to e piuccheperfetto, ma anche l’aoristo greco e il presente storico della narrazione: “Noi vogliamo ripudiare il “mos maiorum”; basta con l’annalistica! […] Virgilio ha fatto il suo tempo, Orazio è vecchiume! Uccidiamo il giusto mezzo! “In medio non stat virtus!” “Non est modus in rebus!» (p. 79).
4) POETI INESISTENTI DELLA PRIMA ETÀ IMPERIALE
Il “manuale” ricorda un autore satirico di età giulio-claudia, Caio Stertinio Venale, “onorato e protetto da Caligola” (p. 84); morì ricco, «per la sua curiosa abitudine di farsi pagare dalle persone attaccate nelle sue satire (ogni verso, pare, erano dieci aurei; tanto bramava il bel mondo dell’epoca di farsi immortalare, seppure tra maldicenze e insulti)»; a Venale viene riconosciuto il merito, fra tanti poeti satirici che avevano esaltato la virtù, di aver difeso sempre il vizio (!).
Il genere della favola, dopo Fedro, fu rinnovato da Lucio Bebio Nasone Aquilino, “originario dell’antico villaggio gallico di Ypocondriacum presso Bologna”; egli operò una geniale inversione: «invece di celare vizi e difetti umani sotto travestimenti umani, si servì di personaggi umani per alludere a vizi e difetti del mondo animale». Non meno geniale fu Gaio Micio Cazio, che arrivò a “imbestialire” i suoi personaggi: «rappresentò cioè esseri umani che si comportavano come animali (pascolando, sbranando, ruggendo, ululando, eccetera); in questo modo volle chiarire, a scanso di ogni provvedimento censorio, che il suo discorso moralistico era destinato esclusivamente agli animali» (p. 90); un esempio è la favola 15 (n. 15 nell’edizione Dinderdorf): «Due Galli dentro Alesia una mattina / s’incontrarono, e l’uno (non importa / ora chi fosse) massacrò quell’altro. / La morale? Ascoltate il vostro Gaio: / mai far trovar due galli in un pollaio».
5) GAIO GIUNIO CACULA FONDATORE DELL’ARCHEOLOGIA
Di origine servile (come confermato dal “cognomen”) Caius Iunius Cacŭla lavorò come “geometra alle dipendenze degli edili, specializzatosi nel rifacimento e nella manutenzione delle vie consolari”; nell’adempimento delle sue mansioni, ebbe un’intuizione geniale: «tutto quanto si trova sulla terra prima o poi finirà sotto terra»; da questa “formidabile intuizione” nacque “l’archeologia come oggi la conosciamo, le cui basi Cacula gettò nell’opera di una vita, il trattato De rebus quae sub solo inveniuntur, sive institutionum veterum libri X (Delle cose che si trovano nel sottosuolo, ovvero corso di cose antiche in dieci libri)». Certo, Cacula non fu esente da eccessi: infatti «fu severamente punito per aver tentato di iniziare degli scavi nel Colosseo, provocando il crollo di gran parte delle gradinate, del piano di calpestio dell’arena e di circa metà del muro esterno di sostegno» (pp. 96-97).
Gli esempi potrebbero continuare: basti però citare soltanto il misteriosissimo Incerto Autore, autore di un “De rerum iactura”, che presenta tratti “lucreziani” nelle uniche notizie biografiche rimaste, provenienti da «una glossa umanistica a margine di un volgarizzamento duecentesco di un’epitome redatta attorno al Mille del sunto d’età ottoniana d’una traduzione longobarda degli indici del Chronicon breviarium di Tecnezio (circa 550 d.C.)»; questo testo, trascritto dall’umanista olandese Wilhelmus Cotidius nel 1502, presenta queste scarne notizie: «Incertus Auctor poeta nascitur, qui postea re familiari amissa, relictus ab uxore, invisus principi, propria se manu interficere non potuit» (“Nasce il poeta Incerto Autore, il quale in seguito, avendo perso il patrimonio familiare, essendo stato lasciato dalla moglie, risultando odioso all’imperatore, non riuscì ad uccidersi di propria mano”, pp. 113-114).
Risulta ormai evidente l’abile costruzione mistificatoria dell’autore, che – oltre ad escogitare le comicissime situazioni di “letteratura inesistente” – accompagna sempre la trattazione con note filologicamente ineccepibili (se non fossero inventate di sana pianta), con riferimenti più o meno subliminali alla contemporaneità, con divagazioni ironiche più o meno esplicite.
Particolarmente divertente è la creatività nei nomi degli (immaginari) autori; come ha dichiarato Tonietto in un’intervista, «La cura dei nomi è stata un divertimento particolare. Il gioco consiste nel trovare parole moderne che suonino come nomi plausibili per ciascuna epoca: Manubrio Glucosio Defenestrato, uno dei meglio riusciti, evoca l’autentica onomastica della tarda età imperiale: Olibrio, Teodosio o Pretestato. Mi piace molto anche Gaio Adulterio Sfrenato, plausibilissimo secondo le regole dell’onomastica classica, ma il capolavoro (se posso dirlo) credo che sia Incerto Autore» (da “Pangea”, 24.11.2017)
L’Appendice sui “filologi illustri” completa il quadro surreale, descrivendo le figure (non meno inesistenti di quelle degli autori finora trattati) di studiosi come Giorgio Alvise Borghese (collaboratore del Mommsen e autore di una “riscrittura” dell’Eneide virgiliana basata solo sulla tradizione indiretta), Ciro Esposito (studioso dei papiri di Ercolano), Pietro Randello (fautore di una “teoria della congiura” che vorrebbe spiegare le enormi mutilazioni subite nei secoli dai testi latini) e Walkyria De Nigro y Castro (esponente di una “filologia femminista”, amica di Erica Jong e in polemica con “Il ramo d’oro” dell’antropologo James Frazer).
In definitiva, un testo che strappa molti sorrisi e che non va giudicato per la sua “utilità” o meno alla causa della filologia classica. Del resto, come sostiene lo stesso autore nella Premessa, «come risulterà ovvio a ogni docente di scuola secondaria, concentrare lo studio su pochi punti inessenziali non potrà che giovare da un lato al completamento celere del programma, dall’altro alla formazione dei futuri quadri che la società globalizzata si attende dal nuovo liceo» (p. 11).
P.S.: Sono sempre grato al carissimo e bravissimo collega Roberto Pomelli, che ebbe il merito di farmi conoscere e leggere questo simpatico libro.
Di Mario Pintacuda
Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.Visualizza tutti gli articoli di Mario Pintacuda.