La grande tela del Martirio di Sant’Agata (1645 ca.) nella cattedrale, a lei consacrata, di Gallipoli
di Pietro De Florio
Il pittore gallipolino Giovanni Andrea Coppola (1597 – 1659) è l’autore della grande tela del Martirio di Sant’Agata (1645 ca.) nella cattedrale, a lei consacrata, di Gallipoli. Agata era una santa martire catanese, visse forse sotto l’imperatore Decio (251), bella e di nobile famiglia, fu insidiata dal console Quiliano, tuttavia mai vacillò, preservando integrità religiosa e morale, per questo subì vari supplizi e le furono strappate le mammelle.
Qui rivolge lo sguardo al feroce magistrato (situato vicino a una statua), quasi ad ammonirlo sul fatto che non si può oltraggiare una donna in ciò che ha di più sacro e vitale, dopotutto anche anche costui da fanciullo si nutrì dalle mammelle di sua madre. L’orrendo episodio si è appena concluso, il carnefice solleva una mammella lasciando gocciolare il sangue sulla testa della santa. Nella scena si vedono un cavaliere, soldati, popolani, una donna in ginocchio che bacia la terra bagnata dal sangue della santa, un’altra che si rivolge compassionevolmente verso Sant’Agata e, ancora, uomini possenti di cui uno tiene a freno un cane aggressivo, un altro guarda, forse pentito, verso la Santa.
Si notano due brocche dal significato eucaristico legato al sangue e al vino. Infine dall’alto un gruppo di angeli offre la palma del martirio e la corona alla Santa. Per quanto riguarda l’impostazione monumentale architettonica e la disposizione sulla scalinata dei personaggi, appare evidente il richiamo al Raffaello della Scuola di Atene (Stanze Vaticane); per il disegno e la resa formale il riferimento stilistico andrebbe ad Annibale Carracci della Galleria Farnese. Nell’ espressione oratoria ed estatica del martirio si potrebbe pensare alla Sant’Agata attribuita a Massimo Stanzione (Napoli, Capodimonte). L’eleganza formale di pieghe e drappeggi, le anatomie nerborute dei personaggi colti in una luce che ne evidenzia i movimenti (ma non di un marcato e istantaneo luminismo indagatore, come nelle correnti coeve caravaggiste), farebbero pensare ancora in generale allo Stanzione, alla scuola napoletana ed emiliana.
Una teatralità barocca che esibisce il martirio, impressiona, persuade o commuove, non ha fini conoscitivi, ma soprattutto emotivi per sostenere l’immaginazione. La salvezza sta nell’immaginazione o, come in questo caso, nella fantasia teatrale del martirio, il possibile immaginato diventa fatto che accade qui ed ora nell’enfasi rappresentativa, trascende il mondo e diventa virtù, cioè salvezza .