La ferita: un racconto di Marisa Cecchetti
Era piovuto e l’erba era fradicia e gli scarponi affondavano nell’acqua ma i mercatini di Natale poggiavano sull’asciutto con le tende aperte a proteggerli. Quando le ho chiesto hai un minuto? Puoi venire? Lei ha detto subito sì, ha lasciato il pacchetto che stava chiudendo coi nastrini rossi e mi è venuta incontro curiosa.
Ti faccio conoscere mio figlio. E lei allora ha disteso un sorriso pieno, negli occhi, nella bocca e su tutto il viso, ma è stata solo questione di un attimo e il volto è tornato subito composto e lo sguardo già acceso si è piegato un po’ verso terra.
L’ho presa sotto braccio ridendo e insieme siamo uscite dal campo.
Quello è lo spazio attaccato a una chiesa di campagna, richiamo – la chiesa e il campo – di case sparpagliate nel verde e di quelle allineate lungo l’unica strada, spazio con una grande area pavimentata al centro e un manto erboso sui lati, su cui veglia il campanile con il campanone che rintocca le ore e le mezze.
Capita allora che si vedano crescervi intorno le bancarelle dei mercatini a Natale, ed allora è tutto uno sberluccichio di lustrini e lucette, di nastrini rossi e di babbi natale di pezza.
Capita anche, per le feste di paese, per le ferie d’agosto e nel pieno dei colori d’autunno, di vederlo trasformato in osteria, con i tavolini affollati e un profumo di carne alla brace che si leva da bracieri che scoppiettano, rossi. O si leva un odore d’inverno quando sui bracieri saltano le caldarroste.
Invitanti profumi, a dir poco.
Al richiamo dei fumi grassi di salsicce e bistecche, mi fermo? Vado? mi chiedo mentre passo sui pedali, e mi viene da tirare il freno e spingere gli occhi dentro, fino alla cassa dove si allunga la coda.
Il fatto è che il campo lo divide solo un muretto dal cimitero – di qua l’arrosto e il vino rosso che scorre e la birra, di là loro che dormono eterno.
Allora allento il freno e riparto. Sì lo so che la vita e la morte sono legate e che ogni giorno un poco si muore, ma saperla, la morte concreta, lì accanto, oltre un muro di cinta, saperla concreta nelle ossa che la terra ricopre, ecco, mentre mordo la rosticciana, no, non è cosa.
Che fate voi lì con i piatti ricolmi? mi sembra che possano dire quelli di là, non pensate a noi che manchiamo di tutto? Non vi dispiace fare bisboccia qui accanto?
Un senso di rispetto o forse un filo di pudore spinge di nuovo i pedali ogni volta che mi sfiora l’idea di mettermi in coda.
E di nostalgia. E d’amore.
Invece rallento e faccio una sosta nei giorni che non piove, quando l’aia diventa una pista e svolazzano avanti e indietro, sui pattini, ragazzine di tutte le età, di tutti i colori e di tutti i vestiti.
La musica che le accompagna scavalca il muro del cimitero – basta un salto, oplà! – sale verso il campanile che batte sempre le ore e le mezze, e loro che dormono le sentono, la musica e le voci di quella gioventù, che portano una botta di vita oltre il muro, e li cullano nel sonno.
Mi sembra più adatta la musica a tenere compagnia a chi dorme, e soprattutto quella giovinezza pulita.
Vieni con me solo un momento. E l’ho presa a braccetto, ma sentivo gli occhi bagnati, solo un poco, forse perché avevo riso?
Era piovuto e l’erba era fradicia e gli scarponi affondavano nell’acqua, ma noi a braccetto siamo uscite dal campo mentre lei mi guardava di sottecchi e il mio era diventato appena un cenno di sorriso.
Ho infilato il cancello del cimitero e lui era là. Splendente in una foto, con una t-shirt bianca che sembrava scappare dai bordi e gli illuminava il viso, e la luce scandiva il contorno dei capelli neri e gli occhiali poggiati sul naso. Stava sotto un olivo, alle spalle una strisciata di piante di gelsomini a coprire il muro di cinta.
Bellissimo, ha bisbigliato lei. Fa luce tutto intorno.
L’emozione mi inumidiva gli occhi, è rimasto così, ho detto. Bello, sì.
Intanto sento che lui mi sussurra – mamma, non mi hai ancora lasciato andare? Lo sai che ormai sono adulto e potrei essere padre di adulti.
Sbagli. Ti ho lasciato andare, io, ma sento che sei intorno dovunque. Sei tu che non hai lasciato andare tua madre: c’è quel filo che ci unisce, quella ferita sottile che porto sul pube, da cui sei venuto alla luce. Il cordone che ci lega.
Ma questa conversazione – vera – lei non la poteva sentire, mentre la tenevo a braccetto e mi chiedeva in che anno lui è nato e glielo dicevo e scopriva di avere la stessa età.