La favola dei “porcellini” curvi e ingobbiti
di Maurizio Nocera
Da ragazzo il mio posto a dormire era quello sotto la scaletta di legno che dal “basso” portava a un piccolo piano rialzato della casa. Era quello il posto più caldo e riparato d’inverno e la mamma, conoscendo il mio stato di salute un po’ debole, me l’aveva assegnato. Mio fratello dormiva su un lettino di “mezza piazza” che la mamma, di giorno, nascondeva sotto il grande letto matrimoniale; a mia sorella, invece, le toccava dormire in una sorta di brandina (piccolo divano) accanto al lato di dove dormiva la mamma. Il “basso” nel quale vivevamo era la vecchia cantina del nonno, dove egli, per tanto tempo, ci aveva tenuto l’asinella, i “finimenti” per l’animale, il fieno e lo sciarabbà (piccolo calesse che al nonno non serviva per il passeggio ma per andare al campo a lavorare e poi trasportare la legna o un carico di olive).
Quando arrivava dicembre, ma proprio sin dall’inizio del mese, dall’unica porta del “basso” cominciava ad entrare una sorta di magica aria, un po’ di festa, un po’ di speranza in più, un po’ di gioia, che era poi la gioia di tutti gli abitanti del Paese. Si aveva la sensazione di un qualcosa di nuovo, di fresco, di rinascita. Avevamo superato il novembre tenebroso, sempre nuvolo, sempre arrabbiato, piovoso, mai felice. Tutti gli anni era sempre così: la primavera arrivava con il sospiro sulle labbra, l’estate ci riscaldava e ci faceva pulire il corpo dalle scorie accumulate, l’autunno veniva su con le labbra arricciate facendoci preoccupare per quello che sarebbe potuto accadere.
L’alba autunnale, quando il babbo si alzava (alle 4), era sempre buia. Ed era buio anche per noi ragazzi che dovevamo andare a scuola e che per raggiungere l’edificio dovevamo percorrere quasi un chilometro. Il buio pesava, soprattutto per me che dovevo attraversare la strada che porta al cimitero. Mi avevano raccontato che i morti sepolti non sono poi veramente morti e che le loro anime vigilano. Se i ragazzi fanno i capricciosi – io non avevo capito bene il significato di capriccioso – quando passano davanti al cimitero, le anime si fanno avanti e rimproverano il povero malcapitato. Ogni mattina era per me una pena infinita. Quando arrivavo all’incrocio con la strada che porta al cimitero, la paura faceva più che novanta. Allungavo il passo, però, ciononostante, tutto il corpo mi tremava come una foglia di salice esposta al vento. Nel Salento, la terra tra i due mari (Adriatico e Ionio), il vento è spesso impetuoso.
A novembre, il crepuscolo arriva presto e la notte buia scivola sugli abitanti del Paese come la lama di una ghigliottina. A noi ragazzi, giunta l’ora triste (16.30-17.00), dovevamo stare per forza (soprattutto quella della mamma) rintanati (“ritirati”) nella casa. Ciò significa fare i “compiti” (le lezioni da preparare o ripetere) o altro ancora relativo all’attività scolastica. Io non vedevo l’ora che il mese di novembre passasse velocemente. Tanto che, alla sera, quando dovevo mettermi sotto le coperte, il mio ultimo pensiero era “speriamo che passi presto”. E infatti, poi, alla fine, inevitabilmente passava.
Il 13 di dicembre del calendario gregoriano porta come nome quello di Lucia, la santa protettrice della vista. Per noi studenti è sempre stato un giorno con l’odore buono delle feste di fine anno. Finalmente la gioia di essere liberi. Fra qualche giorno sarebbero arrivate le vacanze, per cui saremmo stati liberi degli impicci legati ai doveri scolastici.
Anche nel “basso”, dove viviamo noi, si comincia a respirare aria di festa. Sia pure leggermente le lancette dell’ora dell’alba si ritirano un po’. Ciò significa che la luce comincia ad arrivare un po’ prima. La traiettoria del sole, sia pure impercettibilmente, comincia il suo cammino verso il centro del cielo; questo poi torna ad essere spesso limpido e radioso. L’aria si elettrizza, i pettirossi volano dappertutto e i merli se la cantano di buon mattino. Le gazze fanno il gioco di sempre, rubano un po’ di qua e un po’ di là.
Comincia pure il momento della preparazione dei dolci di Natale. In primis vengono i purceḍḍuzzi, una sorta di gnocchetti grattugiati dal dorso ricurvo e ingobbito, chiamati così per via della loro forma, tale da sembrare dei piccoli porcelli appena nati. A Capodanno si fanno le cartallate, alla Epifania, invece, gli zozzi (dolcetti avvolti dal cacao).
Il Natale, che viene sempre il giorno 25 (ma sarebbe potuto rimanere il 21, solstizio d’inverno), è la Rinascita della luce, per i cristiani corrispondente alla nascita di Gesù, il martirizzato dai Romani attraverso la decisione (lavaggio delle mani) del console Pilato. Il Capodanno, che viene sempre il primo di gennaio di ogni anno, anch’esso è la continuazione della Rinascita della luce, per gli umani di tutto il pianeta corrisponde all’inizio di un nuovo percorso di vita. L’Epifania, che viene sempre il 6 gennaio, è la festa di tutti i bimbi del mondo, corrisponde al dono e all’accoglienza di tutti gli esseri umani, nessuno escluso. Tutta l’umanità intera, cioè proprio tutta e tutti, uomini e donne, vecchi e bambini, abili e meno abili, pur sempre umani.
Nel “basso” della casa ora c’è aria (odore) di dolci. La mamma ha già comprato tutto l’occorrente per i famosi purceḍḍuzzi, che come li fa lei non li fa nessuno. Questo non è vero, perché tutte le mamme del Salento li sanno fare al suo stesso modo. Il nostro tavolo da pranzo non è molto grande, tuttavia è sufficiente per cinque posti a sedere. Poi, però, quando da noi viene la nonna, allora occorre stringerci un po’. E quella della preparazione dei purceḍḍuzzi è sempre l’occasione in cui la nonna c’è. La sera prima, la piccola sorella va a coricarsi sul grande letto matrimoniale sul lato esterno della mamma, dall’altro c’è il babbo, perché lui si deve alzare sempre il primo di tutti. La nonna dorme sulla brandina della piccola.
Le due donne hanno puntato le lancette alla stessa ora (4) del mattino in cui il babbo si alza per andare al campo. Quest’oggi, però, egli non si muove di casa su ordine della mamma. Il giorno avanti, dal suo campo, che egli ama molto (un giorno dirò perché lo ama tanto), ha già raccolto abbondante legna e le erbe officinali (menta, rosmarino, salvia, origano) che servono per i dolci. La mamma ha stipato tutto nella pancia vuota del tavolo.
Driiiiiinnnnn. La sveglia squilla come un fischietto di arbitro di calcio. Continua il suo trillio e sobbalza come un vecchia strega. Il papà però è già in piedi e corre sull’inferno di suoni per arrestarli. Ce la fa appena in tempo, giusto quel tanto per non svegliare noi ragazzi, salvo la piccola sorella, che invece è sollecitata dalla mamma ad alzarsi. Ella lo fa a malincuore. La prima operazione è quella di rifare e aggiustare il letto matrimoniale. È questa una vecchia usanza del mondo contadino. «Letto aggiustato e pulizia del pavimento fanno bella la casa», dice sempre la mamma.
Intanto anche la nonna è già in piedi e sta lavando il suo bel viso in una catinella. Il babbo invece inizia ad “armare” il camino, accende la legna con un'”animella” di sua invenzione. Su un tri piede di ferro sistema il quatarotto (grosso recipiente) d’acqua e su un altro più piccolo un nuovo tegame con dentro l’olio extra vergine d’oliva.
Dal lieve sonno, che ora è diventato, sento il traffico soffuso che circola nel “basso”. Io ho ancora una buon’ora prima di alzarmi per andare a scuola. Mi sembra di avvertire che tutti parlino a bassa voce per non disturbare il “signorino” ancora a letto. La piccola sorella invece “piagnucola” un po’ perché voleva dormire ancora. Nulla da fare: la mamma ha deciso che lei deve partecipare alla preparazione dei purceḍḍuzzi. Come donna “deve” imparare sin da piccola a fare le cose che per millenni, almeno così è nel mondo occidentale, le donne sono state costrette a fare da un sistema sociale patriarcale.
La nonna e la mamma non hanno bisogno di ricette scritte per preparare i dolci salentini di Natale. Anche loro, sin da piccole, sono state “costrette” a imparare. Da un lato del tavolo, c’è la nonna che offre alla mamma gli ingredienti, dall’altro la mamma che li lavora. Intanto il babbo porta sul tavolo l’olio e l’acqua caldi. Al mezzo chilo di farina doppio zero la mamma aggiunge un altro mezzo chilo di farina di semola. Fa un bel cerchio rotondo così perfetto quasi l’avesse ritagliato con un compasso. Dentro il cerchio versa un po’ di olio e acqua caldi più un bicchiere, corrispondente più o meno a 150 grammi di vino bianco secco anch’esso leggermente riscaldato. La mamma però non usa il vino ma, al suo posto, aggiunge solo mezzo bicchiere di liquore di anice, che il babbo ha già comprato dal bar della piazza. Per impastare la farina e gli altri ingredienti, di tanto in tanto, la mamma versa il succo di spremuta d’arancia, o di mandarino che è più fresco. Comincia poi a impastare e, quando la pasta tende ad indurirsi, ci versa sopra ancora 200 grammi di olio caldo aromatizzato spruzzando l’impasto con unamanata di buccia di limone e di arancia grattugiata. Abbonda un po’ perché sa che a noi ragazzi il profumo degli agrumi piace. Aggiunge e mescola un panetto di lievito-madre, che lei tiene sempre “vivo” per tutte le occasioni. L’impasto comincia a prendere forma, diventando una palla, che la mamma avvolge in un panno bianco profumato di lavanda. Poi mette l’impasto a riposare per circa un paio d’ore. Quando, passato il tempo necessario, lo riprende, lo allarga nuovamente in cerchio e ci versa dentro una bella manata di buccia di mandarino anch’essa grattugiata più una stecca di cannella tritata. Ancora un po’ di olio tiepido, un cucchiaio raso di sale sciolto in acqua tiepida e nuovamente un tantino di lievito-madre. Aggiunge infine una spolveratina di menta tritata. Continua ad amalgamare e lavorare il tutto. Non per molto però. Dice: «Adesso l’impasto è pronto». Ha assunto un colore giallo-oro e la mamma lo copre nuovamente con il panno bianco profumato. Dice ancora: «Ora deve riposare un po’. Non per molto però».
Intanto è arrivata per me l’ora di alzarmi e fare la piccola colazione (frisella d’orzo inzuppata nel latte). Guardo le lavoranti: hanno tutte i volti della stanchezza. Il babbo ha finito il suo compito: la legna nel camino arde che è una meraviglia; e lui ora può partire tranquillo per il suo campo. Nonostante il freddo esterno al “basso”, dentro l’ambiente è caldo e confortevole.
Le due donne e la piccola sorella tornano a lavorare l’impasto per i purceḍḍuzzi. La mamma e la nonna si posizionano sulla parte del lato lungo del tavolo, la piccola invece su quello stretto. Ora il lavoro consiste nel comporre dei cordoncini di pasta del diametro di 1centimetro, dai quali, compito questo solo della nonna e della mamma, ritaglianodei pezzetti lunghi non più di 2 centimetri. Infine, per ottenere la zigrinatura decorativa necessaria, li strisciano così: la nonna sull’unica grattugia esistente in casa, la mamma su una sportella (piccolo recipiente di vimini intrecciati), la piccola sorella su una sportella più piccola. Si fermano quando ne hanno tagliati e strisciati un bel po’. È così che escono fuori i purceḍḍuzzi ricurvi e ingobbiti non ancora fritti.
Le due donne stanno attente a che siano tutti delle stesse dimensioni e soprattutto ad avere la forma dei porcellini appena nati dalla scrofa. Belli, rotondetti, rosati, croccanti e profumati di quell’olio d’oliva fritto al punto giusto. La mamma esorta la piccola sorella a fare anche lei questo lavoro. Forse non ricorda che, da piccola, tale lavoretto non le era stato affatto facile. Per cui, la piccola sorella, sempre mezz’addormentata, comincia a strisciare il tocchettino d’impasto sulla sua sportella.
La nonna però controlla e si accorge che i purceḍḍuzzi della piccola non sono perfetti o quanto meno hanno una brutta forma. Sembrano degli scarafaggi. Allora la richiama: «Stai attenta perché, se i porcellini non vengono bene, si mettono a piangere». La piccola sorella si guarda attorno smarrita. Poi si mette a piangere pure lei. Dice: «Ma nonna, come faccio a farli bene. Io così so farli». Continua a piangere. Allora la nonna ha pietà di lei, le prende la manina e se la mette nell’incavo della sua grande mano, e insieme strisciano il tocchetto d’impasto sulla sportella. Ed ecco che ora il porcellino viene fuori bello, con una bella curvatura ed una bella gobba al punto giusto. La nonna sorride teneramente e la piccola sorella smette di piangere. Così la mamma e la nonna la mandano a letto felice per essere riuscita anche lei a confezionare un bel purceḍḍuzzo.
Intanto che le due donne continuano a confezionare i dolcetti natalizi, mentre sul fuoco bolle in padella l’olio d’oliva. Così, mentre la mamma striscia ancora i tocchetti d’impasto, la nonna invece li versa a friggere nell’olio bollente speziato. I purceḍḍuzzi, una volta fritti e tirati fuori dalla padella, li compone, in parti quasi uguali, in dei piatti di terracotta. Ora devono “riposare” (raffreddare) per un tempo un po’ più lungo. Finita quest’ultima operazione, le due donne si siedono davanti al camino.
Era arrivato il loro giusto riposo. Si guardano, la mamma della mamma mia sorride e dice: «Aspettiamo che si raffreddino per bene. Dopo li mieleremo». Dopo quel tempo necessario, così fanno: calano i purceḍḍuzzi in una nuova padella con del miele bollente e, dopo averli tirati fuori, li ri-sistemano negli stessi piatti da cui li avevano prelevati. La mamma li spruzza velocemente con delle zollette di zucchero tritate. Aggiunge infine un po’ di pinoli, un po’di mandorle tritate ed spolverata di cannella. Ora i purceḍḍuzzi sono belli che finiti. Aspettano solo di essere gustati e, non pochi, regalati a parenti e amici.
Sedute davanti al camino del “basso” del Paese, le due donne forse si addormentano, forse sognano ad occhi aperti. Forse il loro diviene un sogno lucido. Così, come fu come non fu, sognano una processione di donne danzanti con dei fazzoletti svolazzanti. Tra tutte quelle donne hanno la percezione di vedersi anche loro. Sono due bimbe con dei fiocchi rossi tra i capelli: stanno attraversando la piazza del Paese, in quel momento presieduta da uomini in adunata militare; sono solo uomini, nessuna donna. Hanno in mano dei gagliardetti neri, neri sono pure i loro stivali, nero è il loro fez sulla testa, nera era l’orbace.