Jón Kalman Stefánsson, Il mio sottomarino giallo, Iperborea 2024, pag. 416, traduzione di Silvia Cosimini
Di Marisa Cecchetti
Prima di scrivere dell’ultimo romanzo di Jón Kalman Stefánsson, Il mio sottomarino giallo, ho recuperato tutti i suoi libri pubblicati da Iperborea -undici in tredici anni – ed ho rivisto ciò che nel tempo ho detto di ognuno di essi: ho avuto la conferma di avere conosciuto un grande scrittore/poeta, che scruta negli abissi dell’esistenza, uno scrittore complesso e carico di magnetismo, che stupisce, trascina, affascina. L’ho accolto di nuovo come un amico. Ecco che ritrovo i fiordi del nord, le estati brevi con la luce che sembra “mangiare il tempo”, le lunghe notti e il ghiaccio dell’inverno, il silenzio e la solitudine. Ecco la vecchia base americana tra le distese di lava, i luoghi di salatura del merluzzo, chi vi lavora dopo aver interrotto gli studi, un condominio di Reykjavik dove un padre e un figlio non riescono a parlare e una matrigna ha gli occhi duri e freddi. Poi un cane, tanta musica, e i morti che parlano con i vivi. Gli elementi noti – molti di carattere autobiografico – sono una riscoperta gradita nel loro amalgamarsi alla nuova storia, a conferma che ogni scrittore porta nei libri qualcosa di sè, disperso qua e là.
Tutto inizia in un parco di Londra nel 2022, con un adulto – il bambino di cinquant’anni prima – che vede uno dei Beatles seduto sull’erba, Paul McCartney ormai anziano, a cui vorrebbe mostrare il poema più antico del mondo, l’Epopea di Gilgamesh, e dei frammenti “composti da un meteorite” che il suo amico Orn gli ha portato dalla Mesopotamia – entriamo subito nella dimensione della fantasia o del sogno. Le canzoni e la vita dei Beatles attraversano il romanzo, The yellow submarine è il sottomarino giallo dove isolarsi e trovare rifugio.
La storia in realtà ha un’altra data fondamentale, il 1969, quando il bambino di sette anni, che si ostina a leggere e capire il Vecchio Testamento, rosso di capelli e lentigginoso, seduto in macchina a fianco del padre, apprende che sua madre è morta, che “questo è un dato di fatto”: nessuna parola di conforto, solo il silenzio che scende tra loro e durerà nel tempo, con un affetto che si scoprirà tardi: “Può essere che tradisca la mamma e la lasci sola nel buio, se voglio bene a papà?” Non c’è una lacrima né una carezza, del resto “solo le lacrime e le carezze possono aiutare chi non riesce a parlarsi”. Quelle lacrime arriveranno, ma tanti anni dopo.
Ancora ignaro della morte, non sapendo dove sia andata la madre – “come ha potuto morire e io continuare a vivere?” – vuole raggiungerla, e spera che il padre collabori, che lo aiuti nel suo scopo. Ma invano. Nasce un’avversione profonda verso il genitore e il bambino si chiude in un mondo di immaginazione, fugge via dal catechista che lo terrorizza con le sue narrazioni, trova rifugio presso due anziani vicini, agisce in modo irrazionale, manca di sicurezze, balbetta. Rimane sconvolto quando entra in casa una donna silenziosa e dal volto immobile, la matrigna, ma non ci sono gesti d’affetto né spiegazioni, neppure quando deve partire con lei per trascorrere un’estate nei fiordi dell’Est, nella fattoria da cui la matrigna proviene. Lontano dieci ore di viaggio dalla città, in un fiordo “che penetra nella costa come un profondo silenzio e il mare glaciale che gli respira di fronte”, in mezzo a gente estranea, scopre il lavoro della terra, la fatica, il puzzo delle stalle, le pecore e gli agnelli. Solo, trova rifugio nella fantasia vivendo in una dimensione surreale: trascorre le giornate nel cimitero lì vicino insieme a un vecchio cane, ascolta e conversa con i defunti, legge il giornale per loro che sono usciti nel sole: “Lì sono ben protetto […] Questo è il mio posto, questo è il mio rifugio”.
La narrazione alterna il parco di Londra, il viaggio nei fiordi nell’anno in cui i Beatles hanno sciolto il gruppo – ma la fantasia del bambino li vede in fondo al pullman che compongono canzoni nuove e cantano ancora insieme – la tragica morte di Lennon nel 1980, la figura del padre che passa le serate a bere e a cantare canzonacce insieme a un Dio, quello crudele e violento del Vecchio Testamento, che “raramente è dolce, mai affettuoso, spesso assetato di sangue, collerico, sempre a pretendere cibo, vino e oro […] Ho paura che sarebbe andata a finire male se non fosse nato Gesù”. La figura della madre scomparsa è affiancata alla madre di Gesù, quella vera – in una divertente interpretazione infantile della maternità di Maria – che senz’altro esiste, ma “si è stufata di Dio e se n’è andata”
Tutto il passato ritorna nel parco di Londra: il bambino, poi il ragazzo che sceglie la sua strada, i tentativi di proseguire gli studi, la salatura del pesce, i giorni trascorsi nello scantinato di una biblioteca a leggere, a scrivere, a conoscersi, a cercare verità. Non è facile raccontare la trama, perché Stefánsson passa da un’epoca all’altra, anima gli oggetti, li fa tornare dal passato insieme alle persone più strane, rende sempre più sottile la linea che separa il reale dall’irreale, con un intreccio e un affabulare che coinvolgono; così ci lasciamo trasportare dal flusso di immagini e di pensiero, attraverso il punto di vista di un bambino capace, per la creatività tipica di tutti i bambini, di esprimersi con le figure retoriche più straordinarie.
Tutto questo non è sufficiente a rendere il valore dell’opera, che è un romanzo sulla vita e sulla morte, sul valore della vita, sul dolore e sull’amore, sull’amicizia, sulla necessità di ricostruire rapporti, sulla bellezza, la scrittura, la poesia: “le parole sono tutto quello che ho, e loro desiderano soltanto liberarsi di me”. Anche la presenza della morte, una costante nelle pagine di Stefánsson, finisce per non essere di turbamento, nella consapevolezza che i nostri morti continuano a stare vicini a noi finché pronunciamo il loro nome: “Di’ il mio nome e io sono vivo”.