“Ipazia di Alessandria”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello (Parte prima)
Ernesto, un maestro elementare quasi ottantenne, era felice quando amici o semplici conoscenti venivano a trovarlo in casa per ascoltare la storia della sua strepitosa avventura giovanile nel deserto egiziano. Ogni volta era come se dai cieli scendesse su di lui una pioggia di ricordi e iniziava a parlare senza trascurare alcun particolare. Alla fine, immancabilmente, si commuoveva e mostrava due o tre ritagli di giornali, ingialliti dal tempo, in cui si parlava di lui e del suo straordinario ritrovamento.
In uno di quegli articoli, il giornalista scriveva: “Un giovane, nostro connazionale, Ernesto Salini, innamorato dell’Egitto, durante una escursione nel deserto è stato costretto a rifugiarsi con la sua guida araba dentro una grotta semisommersa dalla sabbia a causa di una improvvisa tempesta di ghibli. All’interno di quella grotta, fra due grosse pietre di basalto, un involucro ha attirato la sua attenzione. Con sua grande sorpresa si è accorto che conteneva una scatola di legno, nella quale avvolti in una pelle scura c’erano due rotoli di papiro. L’emozione era immensa e, senza la presenza della guida, il signor Ernesto, come ci ha riferito, avrebbe proceduto a srotolarli con estrema delicatezza. Il saggio consiglio della guida, però, lo dissuase.
Dopo un accurato lavoro, gli esperti dell’università del Cairo, a cui il prezioso materiale venne affidato, hanno interpretato il testo. Il primo rotolo è una sorta di autobiografia della famosa rappresentante della filosofia neoplatonica Ipazia di Alessandria, vissuta tra il 370 e il 415 d.c.; il secondo rotolo è di un suo allievo, Kaled, il quale descrive la drammatica vicenda dell’assassinio di Ipazia.
Il ritrovamento ha suscitato un vivissimo interesse tra gli studiosi. Poche e frammentarie finora erano le notizie sulle sue opere, nessuna delle quali è giunta a noi, e della sua vita, se non che fosse stata istruita dal padre, Teone, famoso geometra e astronomo, rettore del Museion di Alessandria.
Ipazia conquistò un prestigio tale che tutti i potenti di Alessandria e dell’Egitto si onoravano di ascoltare la sua parola e i suoi consigli. In assenza di suoi scritti, la ricostruzione del suo pensiero e della sua vita è stata fatta sulla base di pochi riferimenti del suo contemporaneo e allievo Socrate Scolastico, che scriveva circa trent’anni dopo la sua morte, e di Damascio, autore pagano del v secolo.
I° Papiro
“Fra tutti i miei giovani studenti che mi hanno dimostrato non solo grande stima, ma anche amore, Kaled è stato il più audace, il più costante e deciso. E per quanto, come agli altri, dicessi che per me ci fosse soltanto il richiamo dell’Indefinibile, cui si deve un impegno totale e sacro, Kaled, poco più che un ragazzo, continuava a parlarmi di amore. “Kaled, dicevo, ricordati che io ho quasi il doppio dei tuoi anni!”
Non che mi insidiasse con parole o atti inopportuni, ma sempre col sorriso e con la dolcezza mi stava accanto. Finalmente un giorno, sotto la pressante e continua richiesta di baciarmi gli occhi, gli promisi che glielo avrei permesso, al buio sotto le stelle.
Era d’estate: Kaled si presentò quella sera stessa. Lo condussi in giardino e lì sedemmo preso una fontana. Quella sera il mio discepolo Kaled imparò a conoscere il firmamento. Mi faceva delle domande assurde su quei mirabili corpi celesti. Non riusciva a credere alle enormi distanze che li separavano dalla nostra terra e che innumerevoli altre stelle che non vedevamo per l’infinita lontananza, esistevano e riempivano la profondità dello spazio immenso.
“Kaled, rammenta che nelle mie lezioni vi ho sempre incoraggiato a servirvi della ragione, questo però non deve farvi pensare che le cose che non si sono mai sentite o viste e che comunque vanno al di là della nostra comprensione, non esistano o non siano vere. L’insegnamento scientifico è tanto più efficace quanto più sospinge il nostro occhio a osservare la realtà, senza però mai dimenticare che ciò che vediamo e tocchiamo, la materia, è generata dall’anima, ha anch’essa una parvenza di luce, per cui possiamo dire che è l’ombra dello spirito, sicché tutto il mondo reale è spiritualizzato. Da questo luogo che è il mondo fatto di corpi materiali ( estremo impallidire delle ultime irradiazioni della luce ), dobbiamo risalire alla fonte da cui proviene la luce e giungere, dopo lunga e tormentata purificazione, alla beatitudine dell’amplesso divino, non più nel dubbio continuo, proprio della ricerca, ma nella gioia del possesso eterno. La vastità del cielo stellato sopra di noi è un permanente richiamo al nostro compito. Questa verità ci attrae e ci spaventa. Ecco perché non possiamo essere soli a percorrere la via. Dobbiamo tenerci per mano, come a non volerci perdere nella immensità dell’infinito. E’ per questo che il ritorno all’Indefinibile non può avvenire con un cammino solitario, abbiamo bisogno degli altri. Un mazzo di fiori profuma molto di più che un solo fiore. Dobbiamo alzare il tetto del mondo, sotto cui accogliere tutti coloro che versano nella più profonda ignoranza, accettare tutti coloro che portano idee, luce, speranza, misteri, dalle più diverse religioni. La nostra città, Alessandria, deve continuare a gloriarsi, come in passato, della presenza numerosa di sette religiose, forse ancora più numerose delle botteghe.
Si era fatto tardi e io ancora non avevo ottemperato alla mia promessa. Vedevo Kaled turbato per quel che aveva ascoltato, ma anche ansioso. Così chiusi gli occhi e avvicinai il mio volto al suo e lui posò le sue labbra sulle mie palpebre, come il tocco lieve delle ali di una farfalla. Poi lo presi per mano e lo riportai dentro. In un angolo della stanza, su una sedia, avevo lasciato un piccolo telo sporco del mio sangue.
“Ecco, Kaled, guarda quel che tu ami!”
Non è questo genere di sangue che mi farà amare da te, ma quello che colerà, puro e vivo, dal mio cuore il giorno che lo strapperanno dal mio petto.
Libellula, mi chiamava mio padre Teone, quando ancora bambina correvo lungo i vialetti del giardino della nostra casa, spesso inseguita invano dai miei fratelli maggiori: Atanasio e Epifanio.
“Non riuscirete mai a prendermi”. E sfuggendo al loro inseguimento, gridavo: ”Io volerò fin sulla luna e sulla stella più lontana!”
Volava, volava sempre più in alto quella libellula, leggera e gaia. Il padre era felice nel vedermi così attenta alle sue spiegazioni intorno agli astri, al cielo, ai misteri, che legano gli uomini a quei corpi celesti così distanti da noi. E interrogava le stelle sul mio destino, lui, grande esperto di astrologia.
I miei progressi nella conoscenza dell’astronomia, del sistema di Tolomeo, in breve tempo furono così rapidi e straordinari che egli osò scrivere, quasi come felice presagio, sul commento all’Almagesto di Tolomeo, che io, Ipazia, avrei superato il maestro, specialmente nelle discipline matematiche.
Un avvenimento della prima giovinezza rischiò di interrompere quel cammino che egli con tanta cura e intelligenza aveva preparato per me.
Un’estate, non ancora quindicenne, Teone volle condurmi con sé per un viaggio di qualche settimana lungo le rive del Nilo. Scendevamo lentamente il fiume su una grossa barca; il padre rispondeva prontamente alla mia curiosità e io mi meravigliavo
della vastità delle sue conoscenze. Tra i canneti si nascondevano animali di ogni genere: aironi, upupe, tartarughe; in lontananza si vedevano correre gazzelle, antilopi, iene; tra la vegetazione dei campi attorno spuntavano: l’orzo, il lino, il tamarisco, il frumento sorgo e poi carrubi, fichi e palme. Più vicino all’acqua, il papiro cresceva solenne e silenzioso.
Quando tornammo a casa mi assalì una febbre violenta. Rimasi a letto per lunghi giorni. Teone fece venire al mio capezzale il suo medico personale, il quale mentre mi visitava scuoteva la testa, preoccupato. Allora io, raccogliendo tutte le mie forze, mi sollevavo un po’ e guardandolo negli occhi, gli dicevo: “Perché ti ostini a non darmi quella nuova medicina che hai portato dall’oriente? Sono sicura che mi farà guarire!”
E lui: “Ma tu, come fai a sapere di questa medicina? Io non ne ho parlato con nessuno, neanche con tuo padre!”
Il medico ebbe un colloquio con mio padre e, dopo aver giustificato il suo comportamento improntato alla prudenza perché ancora non era in grado di valutare l’efficacia della nuova medicina, così si espresse: “Poiché Ipazia ha dimostrato di avere il dono della preveggenza, metto da parte ogni incertezza e le somministro questa medicina”. E così dicendo, mi invitò a bere una pozione di quella specie di sciroppo aspro e amaro.
Dormii per un giorno intero, poi il mattino seguente, come vollero gli dei, mi sentii perfettamente guarita, pronta a riprendere i miei amati studi.
Intorno ai trent’anni ebbi il grande onore di continuare il lavoro di mio padre Teone al Museion di Via del Sole. La scuola era tutta la mia vita. Amavo diffondere il sapere e lo facevo anche nelle strade, nelle piazze, dove spiegavo con parole comprensibili il pensiero di Platone, di Aristotele, di Plotino.
Non facevo distinzione tra i miei discepoli, cristiani, ebrei, pagani. Tutti venivano ad ascoltare il mio insegnamento, illuminato dalla ragione e privo di faziosità. Per una cerchia ristretta di discepoli amavo presentarmi come una demiurgo, una sacerdotessa, che interpretava i misteri di dottrine esoteriche, dottrine iniziatiche del platonismo che si ricongiungevano a quella cristiana. Tutto questo aveva creato attorno a me una fama eccessiva che mi procurò odi e inimicizie.
Avevo maturato l’idea che si fosse in un tempo di conflitto epocale, quasi una consapevolezza di fine civiltà. Io credevo fermamente nella bontà della paideia , nella essenza della educazione degli elleni, che sempre si era distinta per la tolleranza, per la molteplicità, per la possibilità di ammettere più di un culto. Nel corso di settanta anni due imperatori, prima Costantino e poi Teodosio, avevano fatto pendere il piatto della bilancia in favore del cristianesimo. Uscita dalle catacombe e dalla persecuzione, la setta del cristianesimo ora trionfava anche con personaggi terribili e faziosi. Già al tempo di mio padre, il vescovo cristiano Teofilo aveva seminato violenza e odio, aveva bruciato la biblioteca del Serapeo, distruggendo opere preziose. Alla corte di Costantinopoli aveva presentato all’imperatore e ai più illustri funzionari, il suo pupillo, il nipote Cirillo che dopo la scomparsa dello zio, fu nominato, ancora giovane, vescovo di Alessandria.
Di Cirillo si diceva che fosse un uomo terribile, vendicativo, le cui mani grondavano di sangue e di oro. Per secoli Alessandria aveva visto prosperare in pace la comunità ebraica e quella pagana. Con il suo arrivo e con la sua intransigenza fondata sul dogma, Cirillo ha rotto l’equilibrio e la pace per sete di potere e di ricchezze. Chiuse le sinagoghe, ha costretto migliaia di ebrei a lasciare Alessandria, impadronendosi del loro oro.
In questo clima non può soffrire quel che egli chiama i miei comportamenti aristocratici, intellettualmente affascinanti, la compostezza e l’eleganza ieratica della mia persona. Salito al soglio episcopale di Alessandria, si è premurato di circondarsi di personaggi, fino a ieri pagani, convertiti al cristianesimo per convenienza e fa a gara con il potere imperiale per lusso e simbologia. Ha costituito persino un piccolo esercito, oltre cinquecento monaci parabolani, fanatici cristiani guidati da un gigante malvagio, Pietro il lettore, pronti ad accorrere in sua difesa. Inutilmente il prefetto Oreste ha rappresentato alla corte imperiale di Costantinopoli questi gravi abusi. Là Cirillo gode di molti appoggi ed è particolarmente stimato anche dal vescovo di Roma, al punto che va avanti nelle sue azioni violente e nella imposizione della verità della sua dottrina.
Non soddisfatto di avermi ascoltato parlare al popolo per le vie di Alessandria, mi ha fatto pervenire un invito per un incontro diretto con lui. Molti amici mi hanno sconsigliato di andare, ma io ho accettato perché non ho motivo di temerlo, né per l’autorità, né per sapienza.
Andrò dunque.
La seconda parte sarà online l’8 novembre.