Invito a leggere ELENA BONO ( 1921 – 2014 ) di Vincenzo Fiaschitello
Il mio primo “incontro” con la scrittura di Elena Bono risale al 1956 quando, sfogliando il terzo volume dell’Antologia della letteratura italiana della casa editrice Trevisini di Milano, mi imbattei nelle numerose pagine che Francesco Pedrina aveva dedicato alla giovane esordiente scrittrice. Naturalmente per me, allora adolescente, ma già buon lettore di classici accuratamente ricercati in prestito nella ben fornita biblioteca del paese, il nome di Elena Bono era del tutto sconosciuto.
Ricordo che mi piacquero molto le poesie che il Pedrina aveva sapientemente scelto, ma soprattutto restai colpito dal racconto “Morte di Adamo”.
Più tardi appresi che quel racconto era il primo di altri otto che dava il titolo a un volume che la Garzanti aveva pubblicato quello stesso anno.
Questo caso letterario, apprezzato unanimemente dalla critica con vari e prestigiosi premi, cominciò ad offuscarsi verso la fine degli anni sessanta del secolo scorso e per oltre quaranta anni è stato dimenticato.
Quale il motivo di questa ingiusta emarginazione dal panorama letterario italiano? Si era forse disseccata la vena artistica di Elena Bono?
Niente affatto. Elena Bono infatti aveva continuato ad arricchire ancora di più il suo prezioso contributo alla letteratura scrivendo poesie, romanzi e opere drammatiche per il teatro.
Non si può che restare stupiti pensando agli inspiegabili eventi occorsi alla scrittrice che la condussero dall’altare all’oblio o comunque ad essere relegata ai margini della letteratura.
Emilio Cecchi, che fu il primo a riconoscere la sua genialità, non esitò a scrivere che la Bono, pur giovanissima, aveva dimostrato una grande maturità artistica per la sorprendente capacità di vivacità espressiva, di caratterizzazione psicologica dei personaggi, di trasfigurazione fantastica e di profonda cultura classica.
Nel mezzo di tanti giudizi lusinghieri espressi dalla maggior parte della critica per oltre un decennio, cominciò a farsi strada un orientamento piuttosto ambiguo, come di chi andava convincendosi che Elena Bono, avendo toccato miracolosamente quell’altezza artistica espressa nell’insuperabile contatto-lotta tra Dio e Adamo già al suo esordio, cosa altro avrebbe potuto ancora scrivere?
Non era questo forse scambiare volutamente l’incipit con la fine? O comunque mettere in campo un pregiudizio destinato a gonfiarsi enormemente e a diventare l’essenza di una cultura che certo si infastidiva o ne aveva abbastanza di spunti evangelici, di voci interiori che inclinavano al misticismo?
Al di là del tono ironico verso certa critica presente in questa mia prima parte di ipotesi di oscuramento della scrittrice, trovo molto plausibile la seconda parte dell’ipotesi perché già al principio degli anni settanta del secolo scorso la parabola discendente della notorietà della Bono coincise con il predominio della cultura di sinistra.
Rotti i rapporti con la Garzanti, venuta meno l’amicizia con Pier Paolo Pasolini che, sin dal tempo dell’uscita di “Morte di Adamo” era rimasto come fulminato dalla bellezza straordinaria del racconto La testa del Profeta (racconto facente parte della “Morte di Adamo”, poi successivamente pubblicato come romanzo breve), al punto da chiederle il permesso per una trasposizione cinematografica regolarmente respinta; rifiutata anche l’offerta del regista Luchino Visconti, Elena Bono in breve si trovò fuori da quel circuito letterario che avrebbe potuto continuare ad aiutarla per una più che meritata affermazione.
Gli intellettuali del tempo erano oltremodo disponibili ad ignorare una scrittrice che parlava in tono quasi profetico, biblico. Diceva che sentiva lo scrivere come un “dovere” e che lei era una semplice amanuense, nel senso che si limitava a tradurre per iscritto la voce nascosta, interiore, che parlava al posto suo. E tutto questo le creava intorno un’aura di sacra attesa, di mistero e di enigma. Accadde così che i critici fecero scendere un sonno subdolo, un silenzio incomprensibile sul suo nome e sulla sua arte.
Un incubo per Elena Bono? Direi proprio di no.
Per nulla impressionata da questa sorta di ostracismo, la scrittrice infatti continua il suo lavoro, pur non più circondata dalla attenzione della critica, dalla simpatia del pubblico e non più richiesta dagli editori.
Nata a Sonnino, in provincia di Latina, nel 1921, visse l’infanzia a Recanati, dove il padre Francesco Bono, docente di latino e greco, era stato trasferito. E poiché questi, per la cortesia dei conti Leopardi, aveva ottenuto il libero accesso alla biblioteca del poeta, la piccola Elena, grazie alle sue ripetute visite al palazzo e ai luoghi in cui Giacomo visse e compose i suoi versi, con la sua intelligenza, sensibilità e fantasia ebbe la possibilità di entrare in “amicizia” con un personaggio, il suo “Giacomino” (così lo chiamava), che resterà per sempre un esempio luminoso per la sua arte.
La poesia di Leopardi e lo studio particolarmente accurato dei classici antichi costituiscono le due principali fonti di ispirazione per tutta la sua produzione letteraria. C’è tuttavia una terza fonte, la mistica orientale, che sebbene più tardi rinnegata dalla scrittrice, certamente ebbe un importante influsso sulla sua spiritualità. Di quest’ultima fonte troviamo una consistente traccia nella raccolta di poesie Invito a palazzo, edita nel 1982, e nelle Nuove poesie orientali tra gli inediti, ora comprese in Poesie. Opera omnia (Recco-Genova, 2007).
Fanno parte della spiritualità orientale i temi del silenzio, della solitudine e della sofferenza: le tre “s”, attorno a cui ruota tutto il pensiero poetico e drammatico della Bono. Indubbiamente certi versi che riflettono l’atmosfera cinese e giapponese toccano in modo particolarmente sensibile la nostra interiorità: “e il destino di tutti/ è la solitudine/ il tuo silenzio”.
E ancora: “Muti ascoltiamo il vento d’inverno là fuori./ Tutto il dolore meglio affidarlo al vento…Ho il cuore diviso/ fra il tempo e le eterne certezze”.
Sul veloce scorrere del tempo: “La prima ombra è sulla soglia della tua stanza/ cosa vana guardare nello specchio d’argento/ un viso diverso da quello di ieri.”
Nella lettera ad amico morto: “non sai più nulla di me…ho perduto il tuo volto…Un giorno…un giorno, di me, di te che cosa?/ I fiori del sambuco…”.
Un monaco zen prima di dipingere prega la divinità gaudiosa e perfetta: “rendimi notte e nulla/ per chiudere il Tutto/ in un unico segno/ di questo pennello/ su questa carta di riso”.
Da questa sapienza orientale dalla quale dapprima subisce il fascino di una etica che ha al primo posto la rinuncia al proprio egoistico benessere per una accettazione del dolore e della morte, la Bono se ne distacca perché “la vita non va verso il nulla e non è frutto del caso, ma va verso l’incontro definitivo con Dio”.
Quell’etica del sacrificio, della sofferenza, prende per Elena Bono l’impronta inconfondibile della Passione di Cristo. E’ così che troviamo accenti mistici che richiamano Santa Caterina: “Quando tu mi hai ferita?/ Forse ero ancora nel seno di mia madre/… che io soffra l’amor tuo, che me lo porti come piaga profonda/ e non la curi”.
E ancora: “Voglio innestarmi a te,/ fiorire nei tuoi fiori./ Prendimi, mio Signore, e dammi te stesso./ Io voglio darti ad altri che hanno fame di Cristo e non lo sanno”.
Elena Bono sembra dunque come investita da una corrente impetuosa di affettività, oltre ogni razionalità, che è tipicamente del rapimento mistico, del sentirsi in intima unione con il divino, raggiunta attraverso lo sguardo interiore e la meditazione. E’ significativo che più volte troviamo in Elena Bono l’invito a “chiudere gli occhi e guardare”.
Così come l’Infinito leopardiano è chiuso dalla siepe, anche il suo sguardo è estremamente chiaro quando i suoi occhi sono chiusi.
E ancora: “senza destare il silenzio… che nuovo incanto giacere al buio”.
Il silenzio, il buio, la solitudine, favoriscono il contatto con Dio: “Che silenzio strano/ come il principio del tempo…E’ buio…/ presto verrà la notte…/ Ora che il buio viene…/ ai nostri occhi risplende/ la luce di ogni viso/ il brillar di ogni foglia,/ e, nel silenzio che attende il primo tuono,/ come è nuovo/ il suono di una voce/ lo stormir delle piante,/ quel loro grande sospirare/ senza dolore.”
Il misticismo come un immenso mantello copre tutta la vita di Elena, fin dal momento della sua generazione nel seno materno. Ma non si creda che questo atteggiamento spirituale la porti a staccarsi dal mondo, dalla natura, dalla carnalità del reale. Lei ama i fiori, la terra verde e fresca, il vento notturno e la pioggia, le ardenti foreste d’autunno, le vette fiammeggianti dei monti, il profumo dei giardini, il silenzio lunare. La stessa morte è raffigurata come un vecchio giardiniere: “Quando mi coglierai di qui/ per trapiantarmi altrove/ noi parleremo insieme,/ a lungo tranquillamente,/ vecchio giardiniere…/ o giardiniere bianco, sapienza divina”.
In una sorta di Via Crucis familiare, Elena Bono rievoca le figure importanti della sua famiglia, dai genitori alla nonna, una umanità sempre magnificamente illuminata dalla fede cristiana. Semplicità e umiltà sono aspetti essenziali della sua persona: “Né Tutto, né Nulla, ma poco. Signore dammi la possibilità del poco”.
E ancora:” Non mi pesare su quelle tue giuste bilance/ per quello che valgo, che è meno di niente”.
Per il suo congedo dalla vita così scrive: “Al termine della dura giornata/ ho scoperto che si può piangere tanto/ e non versare una lacrima sola.”
Le note mistiche e il sentimento religioso fin qui evidenziati si affiancano mirabilmente alla drammatica esperienza della Resistenza, durante la quale tra l’altro provò l’immenso dolore per la morte di partigiani, suoi compagni di scuola, caduti per la libertà. Scelse l’impegno civile di partecipare alla lotta contro il nazifascismo (fu staffetta partigiana nella sesta zona operativa che comprendeva l’entroterra ligure fino al pavese e al piacentino).
Nelle poesie della Resistenza la Bono affronta il tema della scelta tra il Bene e il Male, un dilemma sempre presente nella storia dell’umanità. Lei, ragazza coraggiosa poco più che ventenne, fa la sua scelta che è quella di testimoniare per l’amore della libertà, per la sacralità della vita. In tutto questo c’è la consapevolezza di un dolore contenuto, di una sofferenza illuminata dalla attesa, un’attesa che si estende a tutti gli uomini, anche a coloro che hanno messo il loro potere e la loro forza al servizio del male. L’attesa è l’apertura alla trascendenza, il recupero del senso di ricerca di Dio. L’invito è quello di guardarsi dentro perché il vero problema è quello della scelta. Il bene è la scelta più difficile.
Le poesie della Resistenza sono commoventi.
Nelle “Stanze per Rinaldo Simonetti”, detto Cucciolo dai suoi compagni per la giovanissima età, la Bono ricorda questo ragazzo di campagna che volle seguire i partigiani, infervorato dall’idea di libertà sebbene non riuscisse a spiegare che cosa essa fosse, e che volle morire con loro: “Voglio morire con loro/ voglio morire coi grandi/… e fosti accontentato…/ Nessuno te l’ha detto/ che un animo da re ci vuole/ per entrare negli alti/ palazzi della morte/… Nessuno te l’ha detto, /ragazzo di campagna./ Ma così tu sei entrato”.
Altra vivissima emozione suscita la storia di Severino, un ragazzo siciliano che “taceva sempre/ per non far ridere della parlata…/E pazienza, disse quando lo misero al muro. Nella lirica a lui dedicata:
“La vita in cambio d’un nome./ Avanti, che cosa è poi un nome?/ -No, che cosa è la vita,/ risponde il tuo cuore…/ Su quella piazza quel giorno/ davanti alla chiesa/ a cavalcioni sopra una sedia/ le mani legate/ la faccia rigonfia/… la gente d’intorno a vedere/ il terrone che muore”.
Come non restare emotivamente coinvolti leggendo la lirica “Per Luigina Comotto Savonese”, che fu fucilata a settanta anni per non aver voluto rivelare i nomi di giovani partigiani a seguito di un attentato. Si aspetta una morte diversa alla sua età, non certo un poligono di tiro e le bestemmie dei soldati. E in quei frangenti la Bono dice: “ tu non sai come metterti/ che cosa fare/ se puoi aggiustarti le vesti/… sfiori la manica del graduato, che per favore scusi/ che cosa bisogna fare/- Tu niente. Soltanto morire, -ride il casco d’acciaio. E ride il plotone allineato.”
E’ significativo che Elenav Bono rivolga la sua attenzione oltre che ai partigiani colti che esattamente conoscono le motivazioni politiche per le quali combattono e sacrificano la vita, anche a quelle persone umili che avvertono la lotta per la libertà come un bisogno interiore, incapace di esprimerlo razionalmente con parole chiare, sofferto come un patema, nel senso aristotelico del termine, cioè non come conoscenza lucida, attiva, verbalizzabile, ma come patimento saldato a un silenzio, a un mutismo eroico, interrotto solo dalla pausa di una breve parola dinanzi al plotone di esecuzione: “Pazienza”.
La traccia mistica religiosa che scorre lungo tutte le pagine di Elena Bono non può farci porre in secondo piano che la sua è una scrittura ricca, affascinante, realistica e spesso cruda e dura.
Nei suoi racconti, romanzi e drammi per il teatro, dove appaiono personaggi storici e fantastici, la Bono adopera la lingua del loro tempo e del loro ambiente. I centurioni, i decurioni, i soldati romani, si esprimono con termini come: bordelloni, bestie, teste di mulo, porci, ratti di fogna, leccamorti, imminchioniti, ecc.
Ad altri personaggi mette in bocca la dolce lingua volgare che ricorda S. Francesco e Dante: “In esta vita brieve che alla morte declina me dolgo Amuri e ve movo lagnanza che mai non me feciste comparire se non in sogno et in delirio”.
Il talento letterario straordinario di Elena Bono, la sua testimonianza della fede cristiana e dei valori e dignità della vita, oltre che nell’opera poetica e narrativa, si rivela anche nella sua produzione di drammi che, fino all’ultimo periodo della sua vita, furono rappresentati con successo sia in Italia che in Francia.
Varie sue opere sono state tradotte in spagnolo, francese e inglese.
Bibliografia
-Poesia
Elena Bono: Poesie. Opera omnia, Recco, Le Mani, 2007
-Racconti e romanzi
Elena Bono: Morte di Adamo e altri racconti, Genova, Marietti, 2016
Elena Bono: Una valigia di cuoio nero, Recco, Le Mani, 1995
Elena Bono: Come un fiume come un sogno, Recco, Le Mani, 1999
Elena Bono: Fanuel Nuti. Giorni davanti a Dio (Tomi 2), Recco, Le Mani, 2003-2004
–Teatro
Elena Bono: Ippolito, Milano, Garzanti, 1954
Elena Bono: La testa del profeta. La grande e la piccola morte, Milano, Garzanti,1965
Elena Bono: I templari, Recco, EmmeE, 1986
Elena Bono: Le spade e le ferite, Recco, Le Mani, 1995
Elena Bono: L’ombra di Lepanto, Recco, Le Mani, 1996
Vincenzo Fiaschitello
Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I. Autore di vari saggi sulla scuola, di opere di narrativa e di poesia.
Onorificenza su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri: Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997)