Intervista a cura di Enrico Conte (Redazione di Trieste) al Prof Luca Toschi, a margine della 14° Fiera Olio Capitale a Trieste: riflessioni sulle olivete abbandonate e sulla trasformazione del paesaggio.
D. Prof Toschi – Direttore del Lab Center for Generative Communication e del Centro Ricerche “Scientia atque Usus”, per la comunicazione generativa (Università degli Studi di Firenze) – come vede il problema delle Olivete abbandonate e in che senso sono un “mistero buffo”?
R. In base alle ricerche che abbiamo fatto e documentato, non abbiamo i numeri delle olivete abbandonate, ma nemmeno abbiamo una chiara idea della loro fisionomia (cultivar, distribuzione geografica, tipologia di impianto, etc…)
Le ricognizioni, quando ci sono, sono per lo più locali e frammentate, cosa che non consente di disporre di informazioni sistemiche a livello nazionale. Noi abbiamo attivato qualche mese fa, una ricerca, coordinata dal professor Marco Sbardella, esperto di comunicazione e sostenibilità, sulle dimensioni del fenomeno dell’abbandono che ha coinvolto tra gli altri MIPAAF, ISTAT, ISMEA, CREA, AGEA, ICQRF.
Abbiamo riscontrato ovunque grande disponibilità e interesse, ma nessuno di questi soggetti ha potuto darci dati a livello nazionale sulle dimensioni e i trend del fenomeno. E senza una fotografia puntale e attendibile del fenomeno è difficile per i decisori politici, a tutti i livelli, mettere in campo soluzioni utili per arginarlo.
Noi stiamo cercando di capire se sia possibile farla, e chi potrebbero essere i soggetti interessati a fare il censimento relativo.
Ma c’è di più, Il problema dell’abbandono delle olivete non riguarda soltanto l’olivicoltura, ma i territori nella loro stupenda complessità.
L’abbandono ha ricadute ambientali, sociali, economiche, relative alla salute, agli stili di vita, alla cultura, all’identità, alle tradizioni, ecc. Non è sufficiente lavorare sulle olivete in abbandono senza considerare quello che accade tutto intorno. Una prospettiva questa per la quale riteniamo strategico quanto urgente ripensare l’agricoltura sociale, perché diventi una chiave di sviluppo (sostenibile) per tutta la comunità.
D. Il PNRR è una grande occasione per la ripresa del Paese: ritiene che la struttura del Piano, e quella della sua governance, rispondano all’esigenza di valutare tempestivamente i risultati?
R. Il PNRR dedica, inevitabilmente, molte risorse organizzative al controllo contabile della spesa, al monitoraggio della correttezza delle procedure. In questo come in tanti altri ambiti di finanziamento – noi abbiamo lavorato tanti anni nel PSR – mi piacerebbe che a questa correttezza formale si aggiungesse un monitoraggio sulla qualità non solo dei processi amministrativo-gestionali, ma soprattutto sul valore, sull’innovatività, dei risultati concretamente ottenuti nelle nostre vite quotidiane e nello sviluppo dei nostri territori. Spesso si ha l’impressione di un’attenzione più alla forma che alla sostanza dei progetti. E la sostanza sono i risultati che riescono a portare a casa.
D. Riprendendo le parole di Salvatore Settis….”il paesaggio è specchio fedele della società che lo produce”: come agire per conciliare valori economici con valori squisitamente immateriali e culturali, in un contesto in velocissima trasformazione, come sta accadendo nel basso Salento dove il batterio della Xylella fastidiosa ha distrutto 7mila km quadrati e 21 milioni di alberi di ulivo?
R. Il salto di sistema che stiamo vivendo, di dimensioni epocali, piaccia o non, ci porta a ripensare a quando, già in pieno sviluppo economico, Erich Fromm, con il suo “Avere o essere?” del 1976, metteva in guardia dalla reificazione, e dal rischio di occuparsi, prevalentemente, di valori materiali del nostro vivere quotidiano falsato da una cultura del consumo disumanizzante.
Oggi si può affermare che il rapporto tra valore materiale e valore immateriale di ciò che realizziamo, produciamo, facciamo è oggettivamente ribaltato: da un bicchiere di buon vino (chi lo compra, spesso spendendo anche cifre di un certo peso, mira a condividere uno stile di vita che sa caratterizzare i territori dove è prodotto) alla ricerca scientifica più avanzata (la quale deve scaturire dai bisogni percepiti nella nostra vita quotidiana e a quelli deve tornare con le risposte giuste, magari spiegandoci che non sempre un bisogno percepito è un bisogno reale).
Tornando al tema dell’abbandono delle ulivete, dobbiamo stare attenti a evitare il rischio dei processi di musealizzazione-mummificazione o di trasformarle in riserve indiane. Sono, viceversa, uno strumento potente, anzi potentissimo, per cambiare l’idea stessa, il concetto di valore dell’intera agricoltura e zootecnia, perché ci obbligano ad andare oltre la miseria, la miopia con cui definiamo un’attività produttiva o non.
Il valore economico, sociale, culturale, finanziario, persino monetario delle olivete necessita di una radicale revisione, che deve tenere in considerazione le ricadute che esse hanno a livello di sistema.
Del resto, gli aiuti all’agricoltura non sono elemosine fatte alle imprese!
Un bel paesaggio non è soltanto e banalmente un bel panorama. E’ molto di più! Anzi è tutta un’altra cosa. Un paesaggio è la storia che continua a farsi, giorno dopo giorno, e così facendo garantisce un presente e un futuro meraviglioso a chi ne fa parte, sia in maniera continuativa sia da visitare, da ospite. Una uliveta o è un progetto al futuro che coinvolge l’intero sistema oppure è destinata a scomparire
PS ndr. Un recente DM del 26 gennaio 2002 ha inteso promuovere la cultura dell’oleoturismo con Linee guida e indirizzi che stabiliscono requisiti e standard di qualità per l’esercizio dell’attività oleoturustica, come insieme delle attività di conoscenza dell’olio di oliva espletate nel luogo di produzione e di esposizione degli strumenti utili alla coltivazione. Forse questa nuova e recentissima regolazione, che mette insieme industria dell’olio e turismo culturale, potrà aiutare a non far scomparire le olivete e a valorizzare quelle ancora rigogliose.