Immanenza e trascendenza nell’opera poetica di Don Franco Lupo
Di Lidia Caputo
Una volta venne chiesto al drammaturgo inglese George Bernard Shaw se pensasse che veramente la Bibbia fosse Opera dello Spirito Santo. Egli rispose: «Credo che lo Spirito Santo abbia scritto non solo la Bibbia, ma tutti i libri»[1]
Tale affermazione viene ad assumere un valore ermeneutico fondamentale nell’ambito della storia del pensiero occidentale e del dibattito culturale contemporaneo. Alla ricerca di senso dell’ uomo contemporaneo non sono in grado di rispondere né la ricerca filosofica dominata da nichilismo o scetticismo, né il pensiero scientifico che registra i fenomeni, ma è incapace di interpretarli e di evidenziare le connessioni profonde tra i molteplici ambiti della realtà. Nel saggio del 1936 su L’origine dell’opera d’arte [2] Martin Heidegger sostiene che l’opera d’arte «è messa in opera della verità» e fa sì che il mondo si costituisca in quanto tale in rapporto all’Essere.
La scrittura poetica di Don Franco Lupo, secondo la chiosa di Donato Valli nella Storia della Poesia dialettale nel Salento, è caratterizzata da un’intesa dimensione corale e trascendente sostenuta da «l’appassionata partecipazione alle vicende dei fedeli, dalla pienezza di una pietà illuminata dall’invisibile presenza di Dio»[3]. Anche secondo il mio punto di vista, l’opera del Nostro non è una nostalgica laudatio temporis acti, bensì essa è Poesia della complessità e del divenire in cui l’angoscia trascende nella speranza, il dolore nella consolazione, la fine di un amore terreno nella ricerca di un amore infinito.[4] Anche la sofferenza e la morte terrena si trasfigurano nella partecipazione al mistero della morte e Resurrezione del Cristo. Difatti è in questo snodo esistenziale e mistico che accade l’“Evento”: la realtà immanente si congiunge indissolubilmente alla trascendenza nel superamento dei limiti e delle aporie dell’esistenza mondana.
Tuttavia, già nell’heideggeriano Dasein, la poesia si manifesta come rivelazione della verità, cioè del significato ultimo di ogni evento storico, socio-economico, etico-religioso, non solo di carattere positivo, ma anche negativo.
Questa duplice dimensione immanente e trascendente costituisce una sintesi armonica in ogni silloge di Don Franco Lupo, in poesia, come in prosa: i vari componimenti, coesi tra di loro, sono orchestrati sinfonicamente come momenti diversi di un’unica partitura. I toni sono sapientemente modulati: si va dal pianissimo de Le rose de la nonna [5] all’allegro di Lu tata[6], all’andante di Lu piccinnu[7], al vivace con brio di Li cunfietti de Carnuale [8]. All’armonia formale fa da contrappunto una polifonica varietà di contenuti e personaggi. Nell’opera poetica di Lupo, da Lecce mia del 1976[9] a Cose de Ddiu [10], inclusa la silloge di racconti Gènte bòna, [11]pervasa di intenso lirismo, i ricordi non sono cristallizzati come simulacri di pietra, ma sono palpitanti come carne viva, ferita da piaghe secolari o fresca e profumata come quella delle giovani leccesi, dolci e pensose come le icone delle Madonne, che dagli angoli dei vicoli, esortavano alla preghiera i viandanti. Una filo conduttore lega sia i vicoli miseri popolati da un’umanità che vive di espedienti, sia botteghe e osterie frequentate da personaggi tipici come Lu scarparu[12], Lu barbieri[13], Lu posapianu[14], Lu mbriacu[15], L’avvucatu.[16]
Vizi e virtù del popolo leccese sono osservati con bonaria ironia, non scevra dalla comicità tipica della commedia in vernacolo, come ad esempio quella dell’illustre salentino Raffaele Protopapa. Un’umanità oramai in estinzione, fagocitata dalla società dei consumi di massa che ha stravolto non solo il nostro modus vivendi, ma anche quello scrigno di ricordi e testimonianze preziose racchiuse nel centro storico leccese. Il cuore della Firenze delle Puglie è invaso, soprattutto di sera, da giovani alticci o da turisti alla ricerca del pub meno costoso, tra quelli che si affacciano a decine su strade e vicoli dell’antico borgo. Turbati da questi segni di degrado spirituale, ci chiediamo : è ancora vivo l’amore e il rispetto per le testimonianze della civiltà salentina? Abitano ancora qui l’arte e la poesia? Forse se ci addentriamo nel dedalo di viuzze, in quei vicoli solitari che dall’antico convitto “Palmieri” conducono fino al “Vescovado” o al Monastero delle Benedettine o alla Chiesa greca, possiamo ancora riscoprire qualche traccia di una civiltà in via di estinzione. Svoltando in una delle cosiddette “curti” ci imbattiamo in un’edicola dedicata alla Vergine Maria, con l’icona e la cornice annerite, sulla mensola di pietra consunta un portafiori da cui occhieggiano alcune violette dal profumo penetrante. Inebriati, con gli occhi chiusi per custodire l’intensa emozione, è come se in quell’attimo varcassimo spazio e tempo e tornassimo a sentire sapori, profumi, canti della nostra infanzia. Sono sensazioni vive e palpitanti, come quelle che avvertiamo leggendo i versi di Don Franco Lupo, i quali, come in un caleidoscopio rifrangono i molteplici aspetti della “Capitale del Barocco”: la miseria, la disoccupazione, il rimpianto per una civiltà decaduta, ma pronta a risorgere nel segno dell’amore per le proprie radici e della fede millenaria. Nella poesia di Lupo l’immanenza si coniuga con la trascendenza, anche quando non vi è un esplicito riferimento ad una dimensione oltremondana. Ogni essere, ogni accadimento, ogni stato d’animo, sono permeati da una tensione verso il senso primigenio e ultimo della realtà. Impercettibilmente il poeta fa trasparire in filigrana una dimensione indicibile e inafferrabile, in cui finito e infinito, cielo e terra, tempo ed eternità si incontrano anche nella quotidianità dell’esistenza terrena. Accade così che durante la lettura delle composizioni di Don Franco, avvertiamo un senso di pace e di cosmica armonia.
Nella poesia di Don Franco Lupo anche l’essere più misero o emarginato conserva l’anelito verso la giustizia e la speranza nell’aiuto divino.[17]Leggiamo ne La cambiale:
Fènca nci su’ cambiali, còre miu
ulámunde a llu ièntu muti wai
nu nci pensare, ca ni juta Ddiu
teramu òšce, pçi pensamu a craj.
L’abbandono fiducioso alla Provvidenza divina, evidenzia il distacco dalle preoccupazioni quotidiane, rafforzato dall’espressione ulámunde a llu ièntu. Anche il piccolo universo degli affetti familiari costituito dalle icastiche figure de La mamma [18], Lu tata (Il papà)[19], Lu piccinnu (Il bambino)[20],La figghia se sposa[21] non costituisce un hortus conclusus, gelosamente e nostalgicamente custodito, un rifugio in cui ritrovare i sogni e la tenerezza di un passato ormai remoto, ma è ancora vivo al centro del pensiero poetante, si fa carne e sangue che vivifica il passato, rendendolo presente. Così attuale è ancora nella composizione Lu tata la narrazione in prima persona del figlio che, rientrato dopo molti anni a casa per riabbracciare il padre, lo trova cambiato e invecchiato:
Sta bbègnu de luntanu
e doppu tantu tiempu te sta bbisciu…
comu t’á šciú cangiatu!…
Ca tie si’ bbècchiu jèu num bògghiu crisciu
Eppure, il rammarico per il decadimento fisico del padre viene subito rimosso dalla constatazione che il cuore del vecchio genitore è ancora giovane e palpita d’amore per il figlio ritrovato:
Ma nc’è nna cosa sula
ca nu se cangia, tata, e bbè lu còre….
Lu bene ca me uei.
Se tie sí bècchiu, è giovane l’amore[22].
Dal ritratto di un evento contingente, la fantasia del Nostro vola talvolta verso la dimensione ultraterrena come nella lirica L’angelu de petra. L’essenza immortale dello spirito pervade anche le pietre che si animano e sembrano parlare con gli stessi accenti teneri e soavi della figlia morta:
Ma wárda wárda ḑḑ’angelu de petra,
me pare la piccinna mia carusa,
Ulia me parla e cu me tica: “Tata,
è bèḑḑa sta šciurnata…sciamu fore…
sta petra è fridda fridda…senza còre…[23]
Lo stupore del poeta dinanzi alla pietra che si anima e assume le leggiadre sembianze della bambina viene evidenziato dall’iterazione dell’imperativo warda e nei due versi successivi dall’anafora me pare. Vigoroso come un neologismo dantesco è il verbo se spetra in rima alternata con petra . La potenza icastica del verso è corroborata dall’allitterazione della consonante “r” che sembra frantumare la durezza della pietra e liberare la vita celata in essa.
Il tenero dialogo tra la figlia-angelo e il padre nei versi finali, dopo la tensione e lo sforzo iniziali, sottolineati dall’assonanza della “u” e della “i”, nonché dall’allitterazione della “t” , si attenua nei versi seguenti in un sussurro evidenziato dalla lettera “s” ricorrente nove volte . Quest’ultima, preannuncia anche il silenzio incombente che avvolgerà il padre e la figlia ormai ritornata « fridda fridda… senza còre…» come la pietra.
Un afflato di tenerezza pervade altresì la poesia Sunettu a llu mmamminu [24], affine tematicamente ad una poesia di Erminio Giulio Caputo , dall’identico titolo[25]. Nella lirica di Lupo, come in quella di Caputo le piaghe della società umana trovano sollievo e conforto nella misericordia divina. Il tono colloquiale con cui entrambi si rivolgono al fanciullo divino segna l’intimo legame tra la religiosità popolare e la dimensione cosmica della salvezza: Essa è incarnata nella poesia di Lupo dal pargoletto che stende la sua manina per sollevare verso Dio tutti gli uomini, anche i malvagi:
O mmamminièḑḑu, tie te sai rranciare
scárfanni tutti de l’amore tòu,
mparani ntòrna comu s’a preáre,
dinne a ci è riccu ca nu tuttu è sòu…
Stièndi la manicèdda, mmamminièḑḑu,
nnanzi la rutta tutti nnui mentimu,
lu tristu, lu lardusu e lu perièḑḑu…
sta chiangi ncòra e ncòra te sentimu.
L’eco del pianto divino diviene simbolo di una pena universale, destinata, però a purificare l’Umanità dal peccato e renderla degna della redenzione.
La tensione agonica dall’Immanenza alla Trascendenza nella scrittura poetica di Franco Lupo perviene alla sua pienezza nella Bibbia popolare in dialetto leccese, Cose de Ddiu, che ha la struttura di una sinfonia il cui Leitmotiv è la luce che vince le tenebre[26]. Gli episodi biblici, nonostante presentino eventi e personaggi differenti, sono ugualmente pervasi da una grazia soprannaturale, da un sentimento del sacro che li eleva, nonostante gli errori ed i limiti umani, verso la redenzione.
Questa dimensione teleologica è evidente nelle composizioni Lu ddeluviu[27], La petra[28], La Legge [29], Fermate, sule!…. [30]
Don Franco possiede quella capacità straordinaria di far parlare donne e uomini della Bibbia nel nativo dialetto salentino, dischiudendo anche alla gente umile e incolta della sua città un patrimonio religioso universale, senza mai tradire il senso del messaggio divino.
Pertanto non condivido l’osservazione di Salvatore Colonna, prefatore del volume, il quale sostiene che «L’autore è identico sempre, sia che si tratti delle “ cose di Lecce” sia che si tratti delle “ cose de Ddiu”. Le une e le altre sono viste sempre in chiave umana […]. Non si tratta delle “ cose de Ddiu”, ma delle “cose dell’uomo”, di quell’uomo di ogni giorno, che durante la sua storia fa i conti anche con Dio».[31]
A mio modesto avviso, invece, Franco Lupo non riduce l’esperienza spirituale ad aspetti contingenti legati all’ hic et nunc del suo tempo e della sua terra natia. Mediante il potere trasfigurante della sua arte il poeta eleva le miserie, le lacrime e i momenti di felicità terrena a simboli di una sofferenza e di una redenzione ultramondana. Sulla soglia della disperazione e del “nulla”, come possiamo leggere nella poesia “Isaccu”, l’inatteso intervento divino rappresenta la vicinanza di Dio alle vicende umane, così da tramutare l’angoscia della morte in esultanza per la vita[32].
Già ne “Lu primu giurnu”[33], composizione proemiale della silloge Cose de Ddiu, il verbo divino fiat lux “E ssía la luce!..” irrompe e fa risplendere tutto il creato che eleva a Dio una lode corale simile al Cantico delle creature del poverello di Assisi. A differenza però dell’inno francescano, in questa composizione sono le stesse creature che, in un ritmo anapestico, scandito dalle frequenti anafore, intonano per il loro Signore un canto armonioso:
«…E ssía la luce!…» disse lu Signòre –
«…la luce de nnu sule a mmenzatía…».
E lluce fòi sull’acqua…cce spiandòre!…
Ncignáa la vita còmu sinfunía…[34]
L’anafora della “luce”, ripetuta tre volte viene ulteriormente rafforzata dall’esclamazione in dialetto cce spiandòre!… in cui traspare lo stupore popolare per la rifrazione della luce sull’acqua che diviene essa stessa splendore. Quella armoniosa corrispondenza costituisce l’inizio della sinfonia, intonata pe tutte le criature de la tèrra[35].
Talvolta le tenebre sembrano prevalere come nelle composizioni Lu primu wai[36], Lu primu sangu [37], All’urmu de la vita,[38] Se fice scuru[39],che rappresentano non solo la sconfitta dell’uomo, ma anche la sconfitta divina.
Eppure la luce prevale nella maggior parte delle liriche, insieme al fuoco, simbolo in primis della potenza infinita di Dio[40], ma anche della forza vivificatrice dello Spirito Santo[41].
Don Franco Lupo ha saputo coniugare magistralmente in quest’opera la fragilità umana con la misericordia divina, evidenziando, tuttavia, che le miserie e le cadute sono tappe della Storia della Salvezza e che gli eventi umani hanno un senso non racchiuso nell’orizzonte terreno, bensì illuminato dalla prospettiva oltremondana. Pertanto la densità teologica ed escatologica dei versi di Don Franco viene testimoniata sia dalle composizioni ispirate all’Antico Testamento come ne La Legge[42], Signure miu[43], potente rilettura del Salmo 33,3 o nella visione profetica di Isaia, Sta bbisciu[44], sia dalle poesie che ci presentano in uno stile vivace e limpido alcuni degli episodi più pregnanti del Nuovo Testamento.
Nella seconda parte della silloge di Franco Lupo l’incontro con Cristo abbraccia tutte le componenti dell’uomo: il suo ambiente, i parenti, gli amici, le sofferenze della carne e dello spirito, colmandoli di grazia soprannaturale, come nei versi di Miraculu! (Lc.5. 18-20):
E llu purtara nnanzi llu Signòre
subbra nnu lièttu fattu de pagghiara,
intru nna casa china fènca ffore, de su la lámia, chianu, lu calara.
[…]
An fundu a ll’ècchi Cristu lu wardàu,
ni tisse: “Lu peccatu è perdunatu!”.
E ppe nnu razzu, forte, lu zzeccàu.
Meráculu!…Meráculu!… nc’è statu!…[45].
Lo sguardo penetrante del Signore non solo ha una straordinaria capacità comunicativa, ma anche performativa, poiché scende fin negli abissi dello spirito e della carne, liberandoli contemporaneamente dal peccato e dalla malattia.
Questo sinolo tra salvezza materiale e spirituale è stato di recente approfondito da uno studioso come Raimon Panikkar il quale sottolinea che l’incontro con il Signore coinvolge tutte le componenti dell’uomo: corpo, anima, razionalità e inconscio, finito e infinito. Dall’unione mistica tra il Cristo e l’uomo si genera il Cristo Cosmico, in cui materia e spirito, cielo e terra, tempo ed eternità sono una cosa sola[46].
Soprattutto nei testi poetici ispirati ai passi del Nuovo Testamento, l’io individuale cede il passo ad una dimensione intersoggettiva e trascendentale, che proietta i singoli ego in un Noi Trinitario che abbraccia tutta l’Umanità. L’immanenza, pertanto, cede il posto alla trascendenza, il peccato è vinto dalla Grazia redentrice, la storia è inghiottita dall’Eternità, come viene profetizzato nella Seconda lettera ai Corinzi di San Paolo.
Le pène de stu mundu ca ha mmurire
am paraísu ccògghienu la cròria
‘gne ccòsa de sta tèrra a sci’ffinire
quandu l’eternità gnutte la stòria.[47]
Lecce, 14/02/2017
[1] Cit. da J.L. BORGES, L’invenzione della poesia, Le lezioni americane, a cura di C.A.MIALESCU, Milano, A. Mondadori, M 2001, p.12.
[2] M: HEIDEGGER, Sentieri interrotti, a cura di P.Chiodi, Firenze, La Nuova Italia 1968, pp. 56 e 61.
[3] D. VALLI, Storia della poesia dialettale nel Salento, , Galatina,Congedo Editore, 2003, p.202.
[4] Cfr. F.LUPO, Gente Bona, Galatina , Editrice Salentina, 1980, «Camillo», pp.47-69.
[5] Cfr. F. LUPO, Lecce mia, poesie dialettali , Galatina, Editrice Salentina, 1976, pp. 67-68.
[6] Ivi p.51.
[7] Ivi, p. 53.
[8] Ivi, p. 141.
[9] F. LUPO, Lecce mia,cit.
[10] ID., Cose de Ddiu, …un po’ di Bibbia in dialetto leccese, Galatina,Editrice Salentina,1984.
[11]ID, Gènte bòna, cit .
[12] ID., Lecce mia, cit. p.95
[13]Ivi,p.93.
[14] Ivi, p.97.
[15] Ivi, p.99.
[16] Ivi, p.101.
[17] Cfr. Lecce mia, Lu capellone, p. 103, ivi, La bizzoca, pp.117-118, ivi, La cambiale, pp. 127-128.
[18] Ivi, pp. 45-47.
[19] Ivi, pp.51-52.
[20] Ivi, pp.53-56.
[21] Ivi, pp.59-60.
[22] Ivi, p. 51.
[23] Ivi, pp.55-56
[24]Ivi,Sunettu allu Mmammminu, pp.159-160.
[25] E. G. CAPUTO, Biancata, tomo II, pp. 46-48, Galatina, Congedo 2001.
[26] F. LUPO,Cose de Diu ….un po’ di Bibbia in dialetto leccese, Galatina, Editrice Salentina,1984.
[27] Ivi, p.17.
[28] Ivi, p.26.
[29] Ivi, pp.29-30.
[30] Ivi, pp.32-33
[31] Ivi, p.8.
[32] Ivi, p.18.
[33] Ivi,p. 13.
[34]Ivi.
[35]Ivi.
[36]Ivi,p.14.
[37]Ivi, p.16.
[38]Ivi, p. 48.
[39] Ivi, p. 110
[40] Ivi, pp.27-28.
[41] Ivi, Chini de fuecu, pp.149-150.
[42] Ivi,pp. 29-30.
[43] Ivi, p. 54.
[44]Ivi, p.67.
[45] Ivi, p.87.
[46] R.PANIKKAR, La pienezza dell’uomo,una Cristofania, Milano, Jaka Book, 2008, p.226.
[47] F. LUPO,Cose de Diu ….un po’ di Bibbia in dialetto leccese, cit., p. 160.