IL PENSIERO MEDITERRANEO

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“Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Romanzo di Vincenzo Consolo – lettura e commento di Giovanni Teresi

Copertina del romanzo

Copertina del romanzo

La vicenda narrata trae spunto dal ritratto di un affascinante ed enigmatico uomo vestito di nero, dipinto da Antonello da Messina e noto come l’Ignoto marinaio, ritrovato dal barone Enrico Pirajno di Mandralisca nella bottega di uno speziale di Lipari. Di qui la storia si dipana, sullo sfondo del Risorgimento siciliano, dall’incanto delle isole Eolie all’affascinante Cefalù fino a Messina, città continuamente cancellata dalla forza della natura, e Palermo, con il suo passato di eterna violenza politica e sociale. Un viaggio attraverso l’Isola, alla scoperta di luoghi reali e simbolici, specchi fedeli e immoti della condizione dell’uomo e della Storia.

Enrico Pirajno di Mandralisca mentre è sulla nave che lo riporta a casa vede un marinaio che gli ricorda incredibilmente il dipinto che porta con se:

Nello sguardo ammiccante, nel sorriso misterioso, soprattutto nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia (p.25) che difende dal rischio della pietà, il ritratto presenta un’inquietante corrispondenza con l’ignoto marinaio incontrato sulla nave da Lipari a Cefalù. Mandralisca ne è folgorato, ma ancora non comprende il recondito, ambiguo messaggio di quel volto che sorride ai pazzi allegri…agli imbecilli (p.26). 

 A questo punto però il libro non continua con una vicenda ben delineata, ma salta un po’ da un’ambientazione all’altra, senza spiegare prima dove ci porta. Aggiungendo a questo la varietà linguistica che viene usata dall’autore, ci si perde spesso, e quando finalmente credi di essere riuscito a comprendere gli avvenimenti descritti il capitolo finisce e ne comincia un altro.

Pubblicato per la prima volta nel 1976, Il sorriso dell’ignoto marinaio ha segnato l’affermazione di Vincenzo Consolo tra i grandi narratori del secondo dopoguerra. Lungamente meditato dall’autore, il romanzo scaturì da esperienze private e dall’urgenza degli eventi sociali e culturali degli anni Settanta.

Il libro è ambientato durante i moti siciliani del 1860, subito prima dell’arrivo di Garibaldi, quando ad Alcara Li Fusi si prepara una rivolta contro i Borboni. Proprio a causa dell’organizzazione della rivolta il protagonista, che è un barone, prende coscienza della situazione che lo circonda al di fuori della sua classe sociale. Entra in contatto infatti con il mondo contadino, in cui i soprusi e le angherie a cui sono costretti a sottostare sono giornalieri. Il mondo che viene descritto non risparmia nessuno, dalle forze dell’ordine ai preti. Il libro non è facile da capire, né per l’intreccio né per la lingua usata. Se infatti il protagonista è il barone Mandralisca, lo è solo per pochi capitoli che vengono inframmezzati da parti in cui è il popolo a parlare. Si capisce quindi che il vero motivo per cui viene organizzata la rivolta non è veramente politico, i siciliani non hanno nulla contro la classe dirigente in quanto tale, il motivo per cui decidono  di rivoltarsi è per riuscire a vivere una vita che non sia solo fatta di stenti e fatiche, sudore e dolore. E vedono nella figura di Garibaldi il cambiamento che stavano aspettando e che invece non arriverà, tradendo la fiducia che il popolo gli aveva dato.

“La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, ma era l’isola santa!”

Da Lipari a Cefalù, poi nell’entroterra, il viaggio di Enrico Pirajno barone di Mandralisca, si snoda in un’atmosfera rarefatta, traboccante di bellezze naturali e intrisa di rievocazioni storico-culturali, che si intrecciano drammaticamente alle misere condizioni della plebe e agli esiti dello sbarco dei Mille in Sicilia.
Tra le soffuse cromie notturne che confondono il cielo stellato e il mare, punteggiato dalla vacillante luce dei fani rossi e verdi sulle torri della costa, si stagliano torrazzi d’arenaria e malta (p.6), si intuiscono città distese sotto gli olmi, bene individuabili a mano a mano che il bastimento si avvicina alla rocca di Tindari, nel sole raggiante del mattino, mentre l’aria diventa spessa, umida, con lo scirocco fermo, visibile per certe nuvole basse, sottili e sfilacciate (p.10). Nello sguardo del barone si squarcia tutto l’immaginario di un glorioso passato remoto, frammanetario e fantastico, che bene esprime la sua passione erudita e antiquaria. Ecco, allora, la sospirata figura di Bianca Lancia, destinataria del lamento amoroso di Federico II; ecco poi Adelasia, regina di alabastro (p.11), madre di Ruggero I fondatore della Siciliana Monarchia (p.19); ecco infine come suggestiva visione commista di sacro e profano, l’immagine della Vergine formosa … l’impassibile Regina, la muta Sibilla (p.11). Mandralisca si sente parte di un cosmico evento tanto arcano quanto ineffabile, in un’aura mitica, di cui restano tracce solo nei frammenti archeologici incrostati dal tempo primordiale e dalla salsedine dei fondali marini.

Il marinaio vive nel presente e intuisce il futuro, ma mostra ironica commiserazione (p.10) per gli studi storici e la passione archeologica del barone, in quanto marginali rispetto alle immediate necessità contingenti. Anche il Mandralisca ne diventa consapevole quando si accampa nella sua mente l’immagine del cavatore di pomice, simbolo di un’umanità diseredata su cui si fonda l’agiatezza nobiliare.

Tutto in questo romanzo concorre a farne una metafora del presente. Il soggetto del quadro di Antonello da Messina, il sorriso dell’ignoto marinaio, è il simbolo di una cultura distaccata dal dolore della Storia. Simbolica è anche la scelta della struttura narrativa disarticolata.

I documenti d’archivio, da Manzoni in poi, sono alla base del romanzo storico ma nelle intenzioni dell’autore l’alternanza del racconto con inserti documentari (atti processuali, cronache), significava rinunciare volutamente a una forma compatta e armoniosa, per rispondere a due precise esigenze: dare forza di verità storica al romanzo e insieme creare nel lettore un effetto di straniamento per esprimere l’impossibilità di adattarsi alla società a lui contemporanea.

Il lettore è indotto a scoprire la verità in maniera alogica, attraverso l’intuizione. Più che un romanzo è un’opera poetica. La strage dei contadini non è raccontata ma ne vengono descritti gli effetti devastanti attraverso l’inserzione delle didascalie delle acqueforti di Goya, I Disastri della guerra, segnalate nel testo dal corsivo. Carrettata per il cimitero (pag. 132) richiama alla mente il celebre episodio manzoniano del Lazzaretto, facendo scattare una straniante identificazione demolitoria tra i monatti in divisa rossa e i garibaldini.

La lingua nazionale è per Consolo la lingua del Potere, è la lingua scritta dei documenti ufficiali che condannano a morte i contadini rivoltosi di Alcara Li Fusi. Questi ultimi, invece, parlano in dialetto. Più precisamente, in una variante minoritaria solo parlata, a sottolineare la marginalità degli umili e la negazione della memoria: il punto di vista dei contadini “traditi da Garibaldi” non lascerà traccia negli archivi ufficiali. Per Consolo la lingua nazionale era, nel momento in cui scriveva, uno strumento di colonizzazione. 

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