Il Recovery Plan e la qualità dei servizi pubblici: il fattore, anche culturale, che può unificare il paese
Un punto di vista dall’interno della pubblica amministrazione e un breve promemoria
Di Enrico Conte
Scheda di sintesi del Piano
Gli Obiettivi del Recovery plan
Il Recovery plan è un pacchetto di investimenti e riforme, costruito come una serie di opportunità per dare al paese la possibilità di modernizzare la pubblica amministrazione, rafforzare il sistema produttivo, contrastare la povertà, l’esclusione sociale e le diseguaglianze.
Queste le principali finalità
- ridurre l’impatto sociale ed economico della pandemia
- raddoppiare il tasso di crescita economica italiana, dallo 0,8% al 1,6%, in linea con la media UE
- aumentare gli investimenti pubblici almeno al 3% del PIL
- far crescere la spesa per Ricerca e sviluppo dall’attuale,1,3% al 2,1% sopra la media UE
- portare il tasso di occupazione al 73,2 % in linea con la media UE, contro l ‘attuale 63%e
- innalzare gli indicatori di benessere di equità e di sostenibilità ambientale
- ridurre I divari territoriali di reddito e occupazione, di dotazione infrastrutturale e il livello dei servizi pubblici
- aumentare l’aspettativa di vita in buona salute
- migliorare il tasso di natalità e la crescita demografica
Le sei Missioni
- digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo e della PA, istruzione, sanità e fisco
- rivoluzione verde e transizione ecologica
- infrastrutture per mobilità e telecomunicazioni, rete nazionale in fibra ottica, sviluppo reti 5g e Alta velocità
- istruzione, formazione, ricerca e cultura
- equità sociale di genere e territoriale
- politiche attive del lavoro e piano per il sud
1. la debolezza istituzionale
Adesso che I soldi sono stati messi in cassaforte, tali e tanti da richiamare il Piano Marshall del secondo dopoguerra quando, tra il 1950 e il 1971, il PIL per abitante è cresciuto in media del 5,3 per cento l’anno, la produzione industriale dell’8,2 e la produttività del lavoro del 6,2 ( in meno di un quarto di secolo l’Italia ha portato avanti un processo di convergenza verso I paesi più avanzati e il reddito medio degli italiani è passato dal 38 per cento al 64 di quello degli Stati Uniti e dal 50 per cento all’88 dii quello del Regno Unito) e che sono state impostate le prime misure per garantire progettazione, monitoraggio e rendicontazione dei fondi del Recovery plan (circa 248miliardi, compresi I fondi complementari), il compito di utilizzare le risorse verrà affidato ai soggetti attuatori: la parte del leone verrà svolta dalle Ferrovie dello Stato e da chi si occuperà delle infrastrutture materiali, della transizione ecologica e di quella digitale.
Un ruolo considerevole verrà svolto, tuttavia, dal sistema degli enti locali, le Regioni, e i Comuni in particolare, che dovranno gestire non meno di 80 miliardi, su di un totale il cui 40 per cento è destinato al Mezzogiorno.
Questi, in estrema sintesi, i numeri del piano di ripresa e resilienza che, tra I suoi obiettivi, ha quello di superare I divari economico-sociali tra le diverse aree del paese.
Il primo problema che verrà affrontato da uno qualsiasi dei soggetti attuatori, si pensi per tutti ai servizi sanitari o agli enti locali (per I nidi d’infanzia), sarà costituito dal fatto che il Recovery Plan è stato elaborato in un contesto di crisi politica, che ne fa un documento macro-economico scritto a tavolino e fondato su modelli e simulazioni statistiche, senza la necessaria e prolifica interlocuzione, e mediazione, dei partiti la cui fragilità e debolezza, va ricordato, aveva determinato la medesima crisi di governo.
Adesso il Piano dovrà passare dalla dimensione macro economica a quella operativa, posto che le stazioni appaltanti avranno il compito di trasformare gli stanziamenti in progetti e gare, fasi che saranno seguite dalle stesse PA già in sofferenza di risorse tecniche e professionali, pur nel quadro delle assunzioni in corso offerte dalla recente decretazione d’urgenza.
C’è tuttavia un punto sul quale è opportuno acquisire una certa vigile consapevolezza.
L’attuazione del Piano sarà soggetta a controlli che condizioneranno I flussi di spesa necessari per realizzare lavori, forniture e servizi, ma si farà fatica, in ogni caso, a misurare cosa e come verrà fatto con le “riforme”, che costituiscono condizione e ossatura trasversale del Piano, riforme di “contesto”( PA e giustizia), “abilitanti”(semplificazione e concorrenza), di “accompagnamento”(fisco, famiglia, lavoro, consumo di suolo), alle quali aggiungere, per ciascuna delle sei missioni in cui si articola il Recovery, un pacchetto di riforme tematiche, per citarne alcune, dall’economia circolare alla gestione del ciclo dei rifiuti, agli istituti tecnici e professionali, alle borse di ricerca, ai nidi d’infanzia, alle farmacie rurali, alle quali assegnare servizi sanitari.
Il cosa e il come delle riforme che interesseranno lo Stato e il sistema delle autonomie regionali (sanità in particolare)e locali, farà la differenza, una questione di merito dunque sulla quale sarà quasi impossibile che la Commissione UE possa dire qualcosa.
Giocherà un ruolo decisivo la riforma traversale della PA, e il rinforzo delle sue capacità amministrative, della cui necessità avvertiva l’ancora attualissimo Rapporto Giannini del 1979. A parte una parentesi dovuta alle leggi sulla trasparenza, sull’elezione diretta dei Sindaci e a quelle Ciampi, Cassese e Bassanini degli anni ’90, con le quali si doveva dare una risposta alla crisi del sistema dei partiti dopo tangentopoli, la storia della PA racconta una sostanziale continuità di apparati, di logiche, una “lunga durata” di comportamenti.
Le semplificazioni sistematicamente invocate negli ultimi venti anni, e che non a caso coincidono con il periodo di stagnazione del paese, 1999-2019( riportato nello stesso Recovery plan), dai roghi simbolici della normazione in eccesso fino all’ultima decretazione d’urgenza su semplificazione del Governo Conte 2, oltre che costituire sintomo di una storica debolezza e di una “antica e radicata cultura anti-istituzionale” (Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera del 27 giugno 2021), si sono puntualmente limitate a riprodurre Il medesimo schema: le PA sono state considerate come “apparati esclusivamente tecnici”, alle quali dare compiti di efficienza, facendo slittare sulle stesse problemi non risolti a monte dal livello politico e dalla sua classe dirigente, nel quadro di uno stile di funzionamento che registra l’antica egemonia del formalismo giuridico.
Le PA, frutto di questo meccanismo, sono diventate un capro espiatorio sulle quali scaricare vecchi mali e antichi corporativismi, nascondere inadeguata volontà politica e, soprattutto, celare l’incapacità del sistema dei partiti di utilizzare uno sguardo d’insieme, con programmi che non si limitassero alla sola emanazione di leggi, magari anche frutto di una buona intuizione, ma che fossero punto di partenza di policy coordinate e integrate, necessarie per assicurare la continuità tra l’azione del governo, con la sua forza anche simbolica, e l’azione amministrativa (si pensi alle politiche del lavoro o a quello che occorre fare contro il caporalato).
Le strutture amministrative, al netto di comportamenti opportunistici, non costituiscono oggetti inerti (macchinici) ma, nel secolo dei servizi, organismi viventi I cui uomini (I burocrati dei vari livelli ) rispondono funzionalmente in ragione degli obiettivi politici e degli indirizzi concretamente ricevuti, nel quadro di una distinzione di ruoli, politici e amministrativi, ma anche, non va taciuto, di un progressivo svuotamento di contenuti e di perdita di spessore da parte del personale e dei programmi politici: l’efficienza della PA è stata considerata, insomma, una faccenda separata e indipendente dalla dimensione politica, circostanza questa che ha alimentato un processo di autoreferenzialità delle strutture burocratiche.
PA quindi come variabili indipendenti, nonostante il sistema degli incarichi di vertice dirigenziale dipenda dal personale politico. Ministri Sindaci, Presidenti di Regione affidano gli incarichi con un meccanismo circolare che lega la politica all’ amministrazione con l’assegnazione degli obiettivi e degli indirizzi, e che si chiude prevedendo che sia il politico e I suoi organismi a svolgere un ruolo di vigilanza e controllo.
Ecco allora che se è giusto rivedere e modernizzare le procedure di selezione del personale amministrativo, ciò che si sta facendo con il Recovery Plan, altrettanto opportuno dovrebbe essere aggiornare I meccanismi di selezione della classe dirigente politica. Tema toccato di recente da un segretario di partito, che ha parlato della necessità di dare al paese una legge sui partiti, quanto meno per fissare un congegno statutario per selezionare con criteri di merito i candidati, e non lasciando che quella selezione sia affidata a puri rapporti di forza (potentati nazionali e locali).
La qualità della regolazione, della sua interpretazione, dei modi scelti per applicarla e, non ultimo, l’individuazione dei settori di intervento ai quali assegnare priorità, costituiscono fattori in grado di incidere e di influenzare non solo le PA statali (ministeriali), ma anche quelle regionali e locali. Si pensi, per tutti, al settore degli appalti e delle concessioni, che avrebbe ben potuto registrare piuttosto che inutili e ripetute semplificazioni normative, l’individuazione delle priorità di intervento, accompagnata da interventi formativi promossi dai governi in carica, per esempio sulla finanza di progetto, sui contratti di efficienza energetica per ridurre i costi e le emissioni di Co2, o per razionalizzare il numero delle stazioni appaltanti (cosa che, molto probabilmente, farà adesso il Recovery), o dotare il settore delle concessioni demaniali dei siti balneari di una riforma in grado di bilanciare vecchi investimenti con le aspettative di giovani imprenditori, certo messi in coda dalle barriere all’accesso, chiamate “proroghe”.
Nessuna PA è riuscita a sottrarsi a questo fenomeno culturale, fatto da paradigmi di legalità formale, che hanno contribuito a produrre, insieme alle annunciate inutili regole semplificatrici, carte, schede, target, performance, verifiche superficiali, mai valutazione dei risultati di impatto conseguiti; si è salvato solo il singolo operatore pubblico che, in ogni luogo (nelle Università, nelle Scuole, nei Comuni, nella sanità, nel fisco, nella giustizia) ha cercato di sottrarsi provando ad usare altri metodi che premiassero la selettività delle scelte di merito, la valutazione delle priorità, la ricerca di soluzioni non routinarie, magari individuate in quei settori normativi rimasti per lo più sulla carta.
E’ in questo quadro che può spiegarsi l’assenza della dimensione generativa e trasformativa del Recovery plan, più propriamente del nesso, che adesso dovrà essere sviluppato, per connettere il Piano con il profilo delle policy necessarie.
Si consideri che compare nel Piano un continuo richiamo all’innovazione, che viene per lo più intesa come tecnologica, mentre manca un adeguato rinvio a processi di cambiamento, quelli che i governi in carica, solo per parlare degli ultimi venti anni, hanno per lo più disatteso non impostando una serie di iniziative e azioni integrate, che avrebbero potuto dare continuità alle iniziative parlamentari e incisività all’azione del governo, si pensi a quanto accaduto, per esempio, con riguardo alla riduzione delle partecipate (processo avviato ma poi interrotto), ai servizi pubblici locali a rilevanza economica: sul territorio nazionale, dopo la legge Letta del 2000 che ha cercato di rompere il monopolio dei gestori del servizio di distribuzione del gas, si registrano solo 15 gare sulle 170 previste nei diversi ambiti, gare che sono in grado di produrre significativi investimenti e occasioni di lavoro, per i nuovi interventi sulle reti.
Per quanto si è esposto, pertanto, spendere i soldi del Recovery sarà certo importante, importantissimo, ma non sarà sufficiente se questo fatto non verrà accompagnato dalla consapevolezza che per conseguire i risultati di sistema che si vogliono raggiungere servirebbero: una visione d’insieme di sviluppo da parte dei distinti livelli di governo, una serie di iniziative politiche collaterali, tanto più necessarie quando si tratterà di coinvolgere il personale dipendente e le corporazioni, nazionali e locali.
Si pensi, per tutti, all’utilizzo di un cloud unico per la gestione dei dati sanitari e delle cartelle cliniche, attualmente suddivise in sistemi regionali non sempre dialoganti (interoperabili), e che dovrà completarsi e integrarsi con servizi ospedalieri che, piuttosto che agire, come molto spesso accade, con logiche da feudo, possano iniziare a contenere il fenomeno del turismo sanitario, magari accreditando le cliniche private partendo da cosa occorre per abbattere le liste di attesa.
La trasformazione dei progetti finanziati dal Recovery plan in opportunità di sviluppo e di modernizzazione dei servizi pubblici, costituirà una cartina di tornasole, che permetterà di accertare se, accanto alla rendicontazione della spesa, siano state gettate le basi per generare valore duraturo sui territori, come dovrebbe essere necessario per tutti I fondi di natura strutturale.
Sarebbe necessario che il Governo centrale, facendo uso delle prerogative già esercitate a causa della pandemia per assicurare una disciplina unitaria e prevalente nella materia della profilassi sanitaria (azione confermata dalla Corte Costituzionale, sent. n 37 del 2021), dotasse il paese di un piano capace di coinvolgere, in forme proattive, tutte le parti sociali.
In Germania esiste un patto nazionale basato sulla produttività. Rappresentanti delle imprese e dei lavoratori adottano regole partecipative e decidono I livelli salariali guardando ai risultati. Le regioni dello Stato federale (Lander) svolgono funzioni di sostegno allo sviluppo e tengono conto dei vincoli costituzionali a non sforare il budget disponibile: cooperano con il centro e creano lavoro di qualità. In Italia, invece, dopo la riforma del titolo V della costituzione del 2001, le Regioni vanno ognuna per conto proprio e producono il 50% del contenzioso davanti alla Corte Costituzionale
2. La capacitazione e il rinforzo del capitale sociale
Saranno allora le condizioni di contesto a fare la differenza, con una crescita economica che sia anche sociale e culturale, contesto che, come ricorda Gregorio Arena nel suo recente “I custodi della bellezza”, è composto da tre fattori:
i servizi pubblici, senza esclusioni, sanità, mobilità, istruzione, educazione, ricerca, assistenza, ordine pubblico e giustizia, cruciali, per determinare un luogo in cui si hanno minori o maggiori opportunità di realizzare le proprie scelte;
il capitale sociale, inteso come l’insieme delle risorse di natura relazionale durature che un individuo, o un gruppo, può utilizzare, congiuntamente con altre risorse, per perseguire I propri obiettivi. Il capitale sociale è fondamentale non soltanto per lo sviluppo personale ma anche per quello economico di una comunità perché è più facile che le imprese vadano nelle zone dove c’è molto capitale sociale;
la qualità dei beni pubblici, il terzo elemento fondamentale nella determinazione del contesto. La qualità maggiore o minore dei beni pubblici, per conseguire la quale è importante sia la vigilanza civica che l’attiva partecipazione nella cura e nella manutenzione di quei beni di interesse generale (sussidiarietà orizzontale, art 118 Cost.), altrimenti percepiti come cose di nessuno.
In questo quadro di conclamata debolezza degli organismi intermedi (i partiti sono ridotti a comitati elettorali, mentre i movimenti restano forme fluide di consenso, entrambi alle prese con la problematica formazione di una classe dirigente, e che non sembrano interessati a costruire, attraverso strutturati dibattiti pubblici, un consenso che non sia legato all’immediato presente), dovrebbero essere le associazioni e le istituzioni presenti sul territorio a svolgere un ruolo di supplenza e di sussidiarietà orizzontale, con iniziative che possano, per un verso, tallonare gli amministratori al fine di spingerli a fare e a generare valore aggiunto, per un altro a costruire contenuti che non siano solo burocratici (si pensi a quello che sarà necessario fare per aprire un solo nido d’infanzia, che non sia solo struttura-lavoro pubblico ma progetto educativo di inclusione sociale).
Una rete di “agenti del cambiamento” per alimentare circuiti virtuosi, alleanze positive fuori dagli schemi, con i cittadini e le imprese, con I soggetti del Terzo settore, con le parrocchie, in luoghi dove tradizionalmente si costruiscono legami, tanto più necessari dove occorra bilanciare spinte regressive delle strutture burocratiche e delle politiche parassitarie.
Una possibile indicazione su come si muoveranno i territori sarà data dall’attivazione per tempo delle reti di soggetti pubblici e privati (consorzi) per partecipare ai Bandi UE KIC, ecosistemi di innovazione sociale il cui scopo, ricorda Pierluigi Sacco, è promuovere la creazione di nuove competenze imprenditoriali e nuova impresa nei settori strategici quali, per esempio, quelli culturali e creativi, sia per i posti di lavoro che si possono creare, sia per l’impatto sociale che le dinamiche di cambiamento comportamentale generano come effetto collaterale, e anche imprevisto, della partecipazione culturale.
Il moderno Pangloss adatto ai tempi della frantumazione sociale, sarà allora un soggetto, singolo o associativo, che agisce in rete, un motivatore, un suggeritore di accordi fuori dagli schemi, un mutageno urbano, un facilitatore e stimolatore che supporti nella costruzione di progetti e di collaborazioni nello svolgimento di pratiche non conformiste con funzioni educative e civiche, un alleato delle Prefetture, delle Università, delle scuole e degli enti locali, per costruire dal basso o, più semplicemente, per accendere un faro sui fenomeni di abuso delle risorse o di devastazione del territorio (perché I roghi degli ulivi fuori controllo nel Salento sembrano generare meno proteste della TAP?) o, più pragmaticamente, per stimolare il rispetto, da parte delle PA, dei tempi entro i quali (30gg) le stesse devono pagare le fatture a cittadini e imprese, magari senza chiedere l’intercessione dell’Amministratore di turno.
Un Think tank, insomma, un suscitatore e elaboratore di idee, delle quali ultime sono a corto quello che resta dei partiti, per uno sviluppo economico, sociale e culturale che sia frutto della capacità di fare della persona e delle comunità (Amartya Sen), mettendosi in gioco, nello spirito, a ben vedere, delle riforme abilitanti previste dal Recovery Plan.
Enrico Conte
Ex Direttore Dipartimento Lavori Pubblici, project financing e PPP Comune di Trieste
Trieste 1 luglio 2021