“Il poeta e il chirurgo”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello
-Voi, don Calogero Vizzini, dovete stare tranquillo, i vostri due figlioli sono in buone mani e presto vi darò una risposta che vi farà piacere-
Don Calogero uscì dalla casa del podestà molto sollevato dall’angoscia che lo attanagliava sin dal momento dello scoppio della guerra:
“Due figli, diceva tra sé, dopo tanti sacrifici li debbo dare alla patria! Si fa presto a dirlo. Io non sono come quei tanti incoscienti e fannulloni che vanno a gridare in piazza che sono pronti a partire, che il Duce fa bene a fare la voce grossa per farci rispettare. Ma come si fa? Non capiscono che saranno carne da macello!”
L’arruolamento era prossimo e don Calogero aveva dunque pensato di prendere i provvedimenti opportuni. Sapeva che il podestà aveva amicizie altolocate e così riteneva di aver fatto bene a ricorrere a lui:
-Voi, signor podestà, potete contare su di me. Una mucca, viva o macellata, sarà sempre a vostra disposizione e della vostra famiglia, specialmente quando la guerra porterà difficoltà per i viveri. E poi non mancherà nemmeno qualche maiale… polli, uova-
-Grazie, grazie, don Calogero, ma vedrete che non ce ne sarà bisogno, perché il Duce condurrà la guerra in poco tempo, sarà una guerra lampo! Ma piuttosto, per i primi approcci, avrò bisogno di una decina di prosciutti. Ce li avete?-
-Certo, signor podestà, e di quelli veramente buoni, ben stagionati. Domani ve li porterò!-
Don Calogero non aveva tenuto conto del temperamento vivace e spiritoso del figlio minore.
Ignazio, fin da ragazzo in diverse occasioni l’aveva messo nei guai. Una volta offese in modo grave un piccolo proprietario delle vicinanze che aveva sposato una donna della ricca famiglia Pecora. La gente del luogo si abituò a chiamarlo “signor Pecora”.
Accadde che un giorno il giovane figlio di don Calogero, mentre quello si trovava a passare sotto la loro casa, se ne uscì con queste frasi dette a voce alta:
-Ma io dico che è sbagliato chiamarlo signor Pecora. Il marito della pecora non può che essere il becco, quindi è meglio dire signor Becco!-
Non bastarono due damigiane di olio vergine per sanare l’affronto, furono necessarie le scuse del giovane, che a testa bassa fu condotto da don Calogero in casa del signor Pecora.
Insomma Ignazio era uno spirito libero che amava stare in compagnia, scherzare con gli amici, fare lunghe passeggiate, ma non trascurava gli studi. Il suo obiettivo era quello di iscriversi alla facoltà di medicina, perché aveva una grande passione per la chirurgia.
Bartolo, il figlio maggiore di due anni, di don Calogero, era invece tutto il contrario: taciturno, piuttosto introverso, amava la letteratura e in particolare la poesia. Il suo modello era Pirandello. Anzi lo volle imitare al punto che convinse don Calogero a mandarlo a studiare in Germania.
Vi rimase per circa tre anni e al suo ritorno dimostrò di padroneggiare alla perfezione la lingua tedesca, con grande soddisfazione di don Calogero, il quale si vantava con gli amici e i parenti di aver speso bene il suo denaro.
Ma gli eventi incalzavano. Dopo appena tre mesi dal suo rientro dalla Germania, l’Italia si trovò in guerra. Salvare i due figli maschi della sua famiglia divenne per don Calogero il chiodo fisso di quelle settimane di luglio che seguirono la dichiarazione di guerra di Mussolini, al fianco della Germania. Per questa ragione aveva con successo avviato l’approccio con il signor podestà.
Ignazio non aveva perso l’allegria e quell’aria di buontempone con gli amici che frequentava, organizzava memorabili passeggiate nei boschi con provviste speciali e con qualche bottiglia di buon vino.
-Amici, quest’oggi l’azienda agricola di mio padre ha l’onore di presentarvi il miglior prosciutto di tutto il circondario –
E così dicendo, tirava fuori dalla sua capiente borsa di vimini, cuori di prosciutto senza ombra di grasso che veniva subito distribuito alla famelica compagnia.
-Vedete, amici, questa è la dimostrazione della mia passione chirurgica-
Gli schiamazzi, i canti e gli evviva, duravano a lungo mentre mangiavano e bevevano allegramente.
Ignazio si era talmente specializzato nell’eseguire precisi interventi chirurgici sui vari prosciutti appesi in cantina. Tagliava con abilità, toglieva una gran parte di polpa del prosciutto, riempiva il profondo buco con pezzi di lardo e infine ricopriva il tutto con sugna, sale, pepe e aromi, tanto bene che nessuno riusciva ad accorgersene.
Così accadde che don Calogero caricò sul suo carretto quella decina di prosciutti che aveva promesso al podestà e, senza perdere tempo, glieli portò.
Il podestà non era in casa, ma la moglie, che evidentemente era stata informata dal marito, accolse con gentilezza don Calogero, il quale scaricò uno per uno i prosciutti e li andò a sistemare nel locale che la signora gli aveva indicato.
Il podestà ne trattenne un paio per sé e regalò gli altri alle “autorità” che dovevano, appunto, aiutarlo a portare a compimento la faccenda riguardante i due figli di don Calogero.
Se non era proprio possibile bloccare la partenza, raccomandava che almeno venissero segnalati per svolgere servizi negli uffici e comunque nelle retrovie.
Era già da una settimana che don Calogero attendeva notizie. I due giovani si erano già dovuti presentare in caserma e di loro non si sapeva più nulla.
Don Calogero si fece coraggio e andò a cercar il podestà. Lo trovò in piazza mentre redarguiva alcuni operai che se la prendevano comoda nella costruzione di un palco, che la sera doveva servire per un comizio di un federale della provincia.
Non appena il podestà lo vide da lontano, gli andò incontro con occhi furibondi: -Ah, proprio voi volevo incontrare! Siete davvero un miserabile imbroglione. Meritereste il confino, disfattista! –
Il povero don Calogero non si raccapezzava e, balbettando, disse che cosa avesse fatto di così grave. E il podestà, tirandosi su i pantaloni e con le mani ai fianchi, adirato: -I vostri prosciutti… ve li raccomando! Mi avete combinato un grosso guaio con i miei amici. Prosciutti pieni di lardo, da buttare. Vergogna! –
E girando sui tacchi, si avviò verso casa gridando:
-Vi siete rovinato, don Calogero! Vedrete quel che accadrà ai vostri figli!-
E, infatti, di lì a qualche giorno, i due fratelli Vizzini partirono in treno con altre decine di militari verso Messina.
Dalle prime informazioni che don Calogero riuscì ad ottenere, si seppe soltanto che forse erano destinati al fronte russo o a quello greco.
Al nord i due fratelli si persero di vista. Ma entrambi, senza mai incontrarsi, si trovarono a combattere in Grecia.
Dopo la tenace e inattesa resistenza dei greci, con l’intervento delle truppe tedesche, la Grecia finalmente fu conquistata.
Bartolo, in qualche raro momento di libera uscita, ebbe l’occasione di visitare Atene e aggirarsi fra le colonne del Partenone. Gli tornavano alla mente i miti dell’antica Grecia, i versi dei poeti classici, il fascino della cultura greca. E non si saziava di ripetere dentro di sé quel che sempre durante il corso degli studi aveva sognato. Forse lì, tra i mirti, aveva passeggiato Aspasia, lì Platone cercava riposi allontanandosi dall’agorà chiassosa, là dove il poeta con il capo cinto di lauro, non sentiva il peso della cupa vita che si andava spegnendo.
Mentre era assorto nei suoi pensieri, seduto sui resti di un capitello, passò un gruppo di militari tedeschi. D’un tratto la voce profonda di uno di quei militari, rimasto isolato, lo colpì:
-Sage, wo ist Athen?- (1)
Istintivamente Bartolo continuò a voce alta: “ist über den Urnen der Meister/ Deine Stadt, die geliebteste dir, an den heiligen Ufern,/ Trauernder Gott, dir ganz in Asche zusammen gesunken? (2)
Il militare tedesco, un capitano, lo guardò esterrefatto. Bartolo si alzò e fece il saluto. Quei versi di Hölderlin lo legarono di amicizia al capitano, che volle sapere il suo nome e in quale circostanza avesse appreso così bene la lingua tedesca e soprattutto quella lirica.
Gli eventi della guerra avevano portato il fratello Ignazio, prima in Albania e poi nell’isola di Corfù, dove un contingente di soldati italiani appoggiato da truppe tedesche difendeva le coste da eventuali sbarchi angloamericani.
Gli italiani si erano conquistata una discreta reputazione tra la popolazione, a differenza dei soldati tedeschi che ricorrevano spesso alla razzia dei viveri. Addirittura qualcuno pensava di farsi una famiglia in quell’isola e restarvi per sempre. Ignazio era invece del parere che, finita la guerra, si dovesse tornare al più presto in paese. Ma questo pensiero non gli impediva di tenere rapporti di amicizia con gli abitanti del luogo, poiché non aveva perso il suo temperamento gioviale.
Un sergente tedesco gli si era messo alle costole, quando finito il servizio giravano tra la gente. Questi aveva ricevuto dal suo comandante l’incarico di custodire cinque muli, molto utili in quel luogo accidentato per il trasporto di merci e armi. E siccome si era accorto che Ignazio era un tipo sveglio e pratico di animali, aveva pensato bene di farselo amico.
Il clima di tranquillità dell’isola improvvisamente mutò alla notizia dell’armistizio dell’8 settembre.
Di colpo i tedeschi, che si ritenevano traditi, divennero nemici. Dopo le reciproche minacce, le incomprensioni, la ricerca disperata di ordini precisi, si finì col combattere.
Lo stesso accadde nell’altra isola più grande, Cefalonia, dove gli italiani pur se più numerosi furono presto sopraffatti dalle superiori forze aeree e terrestri dei tedeschi, prontamente intervenute.
Non si contarono i morti e le distruzioni: Argostoli fu quasi rasa al suolo, tutti gli ufficiali dell’esercito italiano fucilati. E con loro anche semplici militari.
Anche Bartolo Vizzini si trovò nei pressi della famigerata casetta rossa dove avvenne l’eccidio. Si salvò, solo perché quella stessa mattina, il capitano tedesco che aveva conosciuto ad Atene, lo riconobbe. Con un pretesto lo fece allontanare dalla fila dei soldati italiani e lo condusse in una vicina palazzina e, dopo averlo fatto medicare per una ferita alla gamba, diede ordine di aggregarlo agli altri feriti destinati all’ospedale di Argostoli, che ancora non era stato colpito.
In quelle ore anche il fratello Ignazio nell’isola di Corfù viveva momenti terribili. Era stato catturato dai tedeschi e si trovava rinchiuso insieme a molti altri soldati italiani entro una baracca. Da una piccola finestra, Ignazio vide passare il sergente, suo amico, seguito dai cinque muli carichi di sacchi. Lo chiamò. Quello lo riconobbe e, facendo finta di niente, scomparve con gli animali dietro un muretto. Dopo qualche minuto si aprì la porta della baracca e apparve il sergente con altri due soldati. Al suo richiamo, Ignazio si fece largo tra i compagni e fu condotto via. Credettero tutti che lo portassero a fucilare. Invece il sergente, dopo aver parlottato con i due commilitoni, lo portò con sé.
Ignazio rimase con il sergente fino al giorno seguente, quando da una specie di buca nella roccia nascosta da rovi, uscì fuori un militare italiano, barcollante, con la divisa di carabiniere stracciata in più punti. Il sergente si allarmò al punto che prese la sua arma e la puntò alla testa del carabiniere. Ignazio fece per intervenire in sua difesa, ma fu fermato dall’atteggiamento improvvisamente minaccioso del sergente. Non l’aveva mai visto così furioso!
Il sergente cominciò a imprecare: -Tutti traditori, vigliacchi italiani! –
Il carabiniere, raccolte le sue forze, a brutto muso gli disse: -Io non ho paura di morire, bastardo tedesco! –
Partì un colpo e il carabiniere crollò a terra.
Ignazio, sbalordito per la rapidità di quanto era successo, gridò in faccia al sergente: -Sei un maiale, sergente vigliacco!- E gli voltò le spalle. Quello gli sparò un colpo alla testa.
Ignazio ebbe fortuna. La pallottola lo aveva soltanto sfiorato ed era rimasto svenuto. Ritrovato da una pattuglia tedesca, dopo le prime cure, fu portato all’ospedale di Argostoli, a Cefalonia. Lì, i due fratelli si ritrovarono.
Alcuni giorni dopo, tutti i prigionieri radunati ad Argostoli e i feriti dell’ospedale, vennero imbarcati su una nave per essere condotti in Germania. Sfortunatamente la nave, fatte poche miglia, andò contro una mina e cominciò ad affondare. Molti morirono annegati. Ignazio e Bartolo si tennero vicini aggrappati a una grossa tavola che proveniva dal carico trasportato nella stiva.
Poco dopo una nave militare inglese li salvò, insieme ad altri pochi sopravvissuti.
La guerra e il naufragio li avevano risparmiati: ora tornavano i due fratelli Vizzini, cambiati nel fisico e nell’anima.
Il giorno che giunsero finalmente al paese, il sole d’autunno volgeva al tramonto.
Per le strade li guardavano con curiosità senza riconoscerli. Dinanzi alle porte di casa, i vecchi fumavano la pipa. L’odore del tabacco si univa a quello del mosto che saliva dalle cantine.
Un vecchio, magro, con gli occhialetti, li guardò attentamente mentre passavano e, pur così malmessi, li riconobbe: -Ah, siete i fratelli Vizzini. Andate, andate, don Calogero vi ha aspettato tanto, sarà contento di rivedervi! –
(1): Dimmi, dov’è Atene?
(2): è forse crollata/ nella cenere, sulle urne dei maestri, Dio in lutto,/ la tua città, la più amata da te, sulle sacre rive? (trad. di Luigi Reitani).