Il poeta che riuscì a scrivere anche all’interno del campo di concentramento
di Anna Maria Nuzzo
Gli crollai accanto, il corpo era voltato,
già rigido, come una corda che si spezza.
Una pallottola nella nuca –
anche tu finirai così –
mi sussurravo – resta pure
disteso tranquillo.
Ora dalla pazienza fiorisce la morte –
“Der springt noch auf” (si agita ancora)
suonò sopra di me.
E fango misto a sangue si
raggrumava nel mio orecchio.
Heidenau sulle montagne di Zagubica (luglio 1944)
Oggi, nel giorno della memoria, ricordo questi versi del poeta ungherese di origine ebrea, Miklos Radnòti (1909 – 1944). Furono trovati nella tasca del suo impermeabile quando i suoi resti vennero riesumati dalla fossa comune nei pressi di Abda in Ungheria, vicino al confine austriaco, il 4 novembre del 1944.
Quella che abbiamo riportato fu la sua ultima poesia: descriveva l’uccisione di un suo compagno, il violinista Miklòs Lorsi, la cui morte lasciava presagire al poeta la sua stessa fine.
Nell’impermeabile di Radnòti fu ritrovato un taccuino. Nelle prime pagine vi era scritta una preghiera in cinque lingue: ungherese, serbo, tedesco, francese e inglese. Chiedeva di riconsegnare le sue liriche al Professor Gyula Ortuday dell’Università di Budapest.
Questo quadernetto fu poi denominato il taccuino di Bor: conteneva le testimonianze e i versi da lui composti durante la prigionia che lo avevano aiutato a sopravvivere. Nel taccuino si trovano dieci componimenti: i primi cinque purtroppo vennero quasi del tutto rovinati dalle infiltrazioni d’acqua.
Il giorno dopo l’arrivo dei tedeschi a Budapest – il 19 marzo del 1944 – il poeta mise in salvo in una biblioteca i manoscritti delle sue poesie e dei suoi diari.
Il 20 maggio 1944 fu deportato nella zona mineraria di Bor, in Serbia, e rinchiuso a Heidenau, uno dei sette campi di concentramento presenti in quell’aria.
Venne ucciso dalle SS durante una marcia di trasferimento da un campo di deportazione all’altro. Aveva camminato per 30 chilometri di notte nel ghiaccio e il gelo gli aveva fiaccato le membra e i polmoni. Venne picchiato da un militare ubriaco, ucciso con un colpo alla nuca e infine gettato in una fossa. Fino all’ultimo istante della sua vita è stato capace di trasformare l’orrore in bellezza, esprimendo i dolori più profondi e le miserie più atroci.
Riporto il commento della traduttrice di Radnòti, Edith Bruck, nata in Ungheria da una famiglia di ebrei, sopravvissuta alla deportazione e stabilitasi a Roma nel 1954:
“Il suo canto non può essere fatto prigioniero da nessuna lingua, ma è messaggio universale, monito per l’uomo finché il dolce grido non lo assorda, e non si riappacifica con sé stesso invece di continuare con le barbarie che si susseguono da quando l’uomo è uomo: se questo è un uomo.”
Le spoglie del poeta riposano nel cimitero Kerepesi di Budapest.
“…Ho vissuto su questa terra in un’epoca
quando anche il poeta taceva
in attesa di poter parlare ancora…”
(Tòredék – 1944)