Il Pensiero tra Passato, Presente e Futuro
di Pompeo Maritati
Tanto tempo fa, quando l’ignoranza regnava sovrana assoluta e dispotica su questa terra, qualcuno disse: “Solo l’uomo colto è libero.”
Oggi provocatoriamente, mi verrebbe di asserire esattamente il contrario. La “Cultura” non ci rende liberi, al contrario, paradossalmente ci rende schiavi della consapevolezza di quanto male stiamo facendo il nostro ruolo di uomini, che qualcuno, tanto ma tanto tempo fa, a nostra insaputa, senza interpellarci, per qualche recondito motivo a noi al momento sconosciuto, ha voluto porci tutti qui insieme, su questo lembo di terra a pestarci i piedi.
Qui potremmo aprire una prima fase paradossale della nostra esistenza. Quando siamo venuti al mondo, attraverso l’accordo o l’inconsapevole scelleratezza di un momento dei nostri procreatori, c’è chi ha gioito, chi ha pianto, chi ha immediatamente predetto un futuro di tanti straordinari traguardi, ma nessuno si è mai chiesto se ciò fosse stato giusto. L’inconsapevole ignoranza del nostro passato, inteso quello precedente alla nostra procreazione, per uno strano fatto della “Vita” rappresenta il primo atto di costrizione a danno di una democratica libera scelta di disporre del proprio futuro. Quando i miei decisero di mettermi al mondo, nessuno si è guardato bene di informarmi, di chiedere se fossi stato d’accordo di entrare a far parte di questo mondo. Ritengo non democratico che due persone volendo dare sfogo ai propri istinti debbano mettermi nelle condizioni di affrontare la “vita” quella terrena, senza poter optare per qualche altra soluzione.
Cominciamo la nostra vita in conformità a una scelta altrui, senza che si abbia la pur minima capacità di prendere una posizione diversa. Prometto che dopo questa vita, prima di ripercorrere un’altra eventuale avventura, costituirò un sindacato a tutela dei futuri nascituri, affinchè possa liberamente scegliere, previa regolare informazione sulle clausole della vita terrena, se scendere sulla terra o restare lì dove si trovano. Per quanto paradossale possa sembrare questo mio pensiero, alle soglie della demenza senile come ha avuto modo di asserire un mio caro amico, dimostrandomi così grande amicizia, proprio perché m’indicava le necessarie cure da seguire, evidenzia un punto oscuro del nostro passato. Sì perché io sono convinto che il nostro presente inizia dal nostro concepimento, mentre appartiene al nostro passato tutto ciò che è antecedente. Vedete, già in quest’affermazione traspare un concetto, o meglio un pensiero importante, che ci sia un passato antecedente al nostro concepimento, dove la materializzazione dell’uomo avviene attraverso il complesso laboratorio chimico insito nella donna.
Nasciamo per effetto dell’unione di due cellule appartenenti a due individui diversi, che le vicende della vita terrena consentono loro di incontrarsi e quindi di procreare. Come potremmo ipotizzare un passato ante concepimento se questo avviene per effetto di due cellule diverse e indipendenti, direte voi? Ecco che scoppia il mal di testa. Le cellule neuronali cominciano ad andare in fibrillazione non riuscendo a tenere il passo della logica, abituate come sono a cercare la regola matematica su cui poggiare la propria convinzione.
E’ come un’infezione batterica, dove gli anticorpi cercano in ogni modo di annientare questi nuovi abusivi che intendono alloggiare, senza le dovute licenze, nel nostro organismo. Pare che lo stesso avvenga nel nostro cervello. Le idee razionali, quelle che alla fine fanno sempre quattro, combattono quelle che altro non sono che utopie, ritenendole dannose per il nostro equilibrio mentale al punto da far ipotizzare, a chi c’è vicino, un’eventuale demenza senile precoce. Dalla nascita lentamente apprendiamo una nozione dopo l’altra, facciamo delle esperienze e conoscenze che pian piano nel tempo andranno a comporre il puzzle della nostra intelligenza. Lasciando per un po’ questa prima fase della nostra vita che ho definito paradossale, proprio per la sua atipicità temporale, diamo uno sguardo intorno. La conoscenza e l’esperienza mi verrebbero di definirle le capacità sensoriali, attraverso le quali prendiamo coscienza di quello che vi è intorno a noi, guardandoci bene di fare una seria autocritica di quello che siamo stati capaci di fare nel corso della nostra umana presenza in questa “valle di lacrime”. Nella stragrande maggioranza delle volte costatiamo che questa autocritica, laddove sia stata compiuta, ci porta a un risultato mortificante e avvilente, caratterizzato dalla presentazione di un conto salato, facendoci amaramente toccare con mano, alla fine dei nostri giorni, che tutto quello che è stato realizzato potrebbe risultare inutile, anzi in contrasto con gli ideali materialistici prevalenti, e che purtroppo tutto è da rifare, ma miseramente costatiamo che il tempo rimasto è purtroppo terminato.
Allora ci chiediamo, ma non sempre, perché siamo giunti in questo mondo e perché la materializzazione del contenitore delle nostre idee (il corpo) iniziata qualche decennio fa, quando ebbe inizio la nostra vita terrena, si sia poi irreversibilmente distrutto o trasformato, come disse qualche autorevole fisico, in mera polvere. Se nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, è un concetto fisico autorevolmente consolidatosi nel percorso dello sviluppo del pensiero dell’uomo, è altrettanto vero poter dire, applicando sempre la solita logica razionale, che se pur vero che tutto si trasforma, è altrettanto vera che la trasformazione avvenuta genera un prodotto di qualità inferiore. Vedi l’uomo che dalla semplice unione di due microscopiche cellule a volte riesce a superare i 200 chili di peso, per poi ridursi a un mucchietto di polvere. Un processo di trasformazione che sfido chiunque a definirlo qualitativamente positivo. Cosa che avviene anche con tanti altri elementi della natura.
In questo discorso abbiamo però trascurato un aspetto importante, quando abbiamo parlato del corpo umano, trasformatosi in polvere, azzerando la sua potenziale presenza terrena, che con la sua morte e trasformazione non conosciamo cosa poi succeda ai nostri pensieri, quelli che generalmente sono rappresentati come l’anima. Possiamo quindi asserire che dall’alba dei tempi, quelli consapevolmente raggiungibili dalla scienza e conoscenza umana, il processo vitale si svolge unicamente in una sola direzione, dove la trasformazione della materia avviene per decadimento della stessa. Il concetto del “Nuovo” che attraverso il tempo si trasforma inesorabilmente in “Vecchio”, è applicabile non solo alle cellule del mondo animale e vegetale ma anche a tutte le altre materie, legno, ferro, vetro, ecc. che con il passare del tempo s’invecchiano. Il tempo invecchia il mondo che però ha la grande capacità rigenerativa attraverso il processo della “Procreazione”, ma la sua direzione temporale sembra essere quella che dal Nuovo si passa al vecchio.
Altra obiezione o se vogliamo un completamento al concetto prima detto potrebbe essere quello concernente lo sviluppo del creato. Cos’era la terra miliardi e miliardi di anni fa? Da quest’ammasso di elementi chimici ha avuto origine il mondo animale, noi, quello vegetale, quindi non un invecchiamento, bensì un continuo sviluppo verso qualcosa di nuovo, di più completo come se si percorresse una strada già chiaramente tracciata. L’albero, l’animale, l’uomo, si è vero nascono, crescono, muoiono e si trasformano in polvere, ma la loro presenza ha permesso di generare altri individui. E’ vero che invecchiamo e ci trasformiamo in qualcosa che sotto il profilo materiale è qualitativamente peggiorata. Se invece ci riferiamo al nostro cervello, è proprio nella vecchiaia, prima che avvenga la demenza senile (e spero che queste pagine non ne siano una precoce manifestazione) che raggiunge il suo maggiore splendore. Purtroppo la nostra capacità sensoriale ci porta a interagire con fatti certi tutti riconducibili a una sintesi materialistica, riuscendoci difficile ipotizzare scenari diversi se non attraverso le Utopie.
Partiamo sempre dalla convinzione che ogni cosa è generata da un’altra a questa precedente e dove il concetto di finito si scontra con quello dell’infinito, non avendo la capacità sensoriale, di andare aldilà di quel momento fatidico in cui avviene la “Procreazione”. Ipotizziamo il punto di partenza laddove una cosa ha avuto la sua origine, che di se altro non è che un concetto materialistico, al quale può esistere solo qualcosa di antecedente identificato nel soprannaturale, in colui che rappresenta il fautore e governatore del creato. Idealizziamo giustamente, quello che non sappiamo giustificare, quello che non conosciamo e che le nostre facoltà non sanno ancora interpretare. Invochiamo il divino, certi che a questo sconosciuto soggetto dobbiamo la nostra esistenza. Più volte abbiamo chiesto a costui di venirci a spiegare il perché di tutto ciò che ci circonda, senza mai aver avuto una risposta. Le varie divinità ipotizzate dall’uomo, più volte sono state viste temporaneamente in giro per la terra, ma a quanto pare abbandonandola, lasciandoci dopo con ulteriori e maggiori dubbi sia sul nostro passato, sia sul perché attendiamo inesorabilmente con grande indifferenza la fine dei nostri giorni.
Abbiamo sempre idealizzato e ipotizzato le superiori divinità quali elementi soprannaturali con sembianze e caratteristiche riconducibili, spesso, alle debolezze umane. Li abbiamo avuti nostri ospiti inattesi e in qualche circostanza non ben voluti. Per non parlare delle divinità che per un lungo periodo hanno avuto la loro dimora terrena sul monte Olimpo. Quelli si che erano Dei alla mano, comprensivi poiché costituiti proprio dei nostri difetti che peraltro non disdicevano avere a che fare direttamente con noi, anche per soddisfare semplici e umani desideri anche di natura fisiologica, essendo anch’essi dotati di strumentazione atta alla procreazione come gli uomini. C’è chi ha intravisto nelle forme più strane della natura il manifestarsi della divina provvidenza, dedicando a essa la loro vita ovviamente in piena e rispettabile buona fede.
Un aspetto che mi fa pensare e che in questa sede desidero affrontare in modo veloce e superficiale è la diversità di idealizzare il proprio Dio. Numerosissime sono le divinità contemplate dalla storia delle religioni, tutte diverse e tutte radicate nelle varie e diverse aree territoriali della Terra. Popoli che trascorrano la loro vita a pregare tante divinità diverse, con riti appartenenti alla tradizione popolare, che per ognuno di essi sono il verbo assoluto, ritenendo le divinità del loro popolo vicino se non sbagliata, inferiore al proprio. Si sono costruite, storie, leggende, si sono messi in piedi sistemi liturgici così complessi e diversi che per conoscerli tutti bisognerebbe avere a disposizione una vita di almeno trecento anni. Il bello di tutto ciò è che tutti credono nel proprio Dio al punto tale da esser disposti a sacrificare la propria vita, tanta è radicata l’attendibilità di tale essere superiore. Spesso mi sono chiesto, e non certo solo adesso che sto vivendo la parabola discendente della mia esistenza, se fossi nato in India, avrei creduto e venerato il Buddha, e senza indugio avrei ritenuto tutti gli altri probabilmente in errore. Come poter dire oggi che questa venerazione verso queste divinità sia un atteggiamento corretto e non invece la debolezza di un individuo che se pur buon manipolatore delle sorti della natura che ci circonda, spesso se la fa sotto davanti ad un normale terremoto o a un devastante uragano? Certamente sino a quando l’uomo sarà succube della forza della natura, avrà sempre bisogno di qualcuno cui chiedere aiuto, richieste di aiuto che diminuiscono sempre di più con l’aumentare della propria sensazione di onnipotenza.
Quanto anzidetto, anche se potrebbe sembrare la trattazione di un argomento diverso, rappresenta per certi versi la convinzione umana che prima della “Procreazione” vi è solo Dio. Dio quale creatore dell’universo, le cui sembianze mutano a secondo delle varie aree territoriali del mondo. Non possiamo prendere in seria considerazione che comunque l’uomo in qualsiasi latitudine del mondo, ha sempre idealizzato un suo Sommo Creatore, diverso da quello genitoriale cui deve oltre che la sua esistenza, anche tutto ciò che lo circonda.
Un altro aspetto che per certi versi assume del paradossale nel comportamento terreno dell’uomo è la sua incosciente consapevolezza di morire. La morte per l’umanità rappresenta, il punto in cui la vita termina e che da questa porta, una volta chiusa dietro di se, racchiuda il vero mistero della vita. Ho definito il morire un’incosciente consapevolezza, perché questo evento terminale, negativo e distruttivo, sembra per nostra fortuna non incidere negativamente sulla nostra volontà nel percorso della nostra breve vita terrena, comportandoci come se anziché il buio dell’eternità, la morte rappresentasse l’immortalità. Ci affanniamo e ci aggrappiamo ai nostri desideri e ai nostri ideali, sino all’ultimo giorno della nostra vita come se la morte di giorno in giorno sia rimandata a quello successivo. Aspetto questo radicato nel nostro inconscio, non perché idealizzato da numerose religioni, bensì perché radicato o meglio strutturato nell’impostazione cerebrale dell’uomo.
Non possiamo tacere o dimenticare che la morte è distruzione, fine, aldilà del quale esiste solo la smaterializzazione del nostro corpo, dove i nostri pensieri sembrano terminare, dove si fermano i ricordi e soprattutto dalla quale non si è mai tornati indietro. E’ il mistero paritetico a quello della nascita. Arriviamo e viviamo la nostra vita su questo mondo senza saperne il perché e moriamo nello stesso modo. La cosa insita in noi che per certi versi può essere definita paradossalmente straordinaria, che pur alla presenza di una certezza negativa e distruttiva quale la morte, l’uomo vive la sua vita in forma costruttiva, propositiva, ovviamente non stiamo qui a discutere anche sulle sue negatività.
E’ indubbia la sua capacità esplorativa e soprattutto quella di porsi delle domande, alle quali pur arrivando sempre al concetto finale della morte, riesce a vivere la sua vita come se questa sorte non gli appartenesse. Per certi versi l’uomo moderno sembra aver ancor di più allontanato questo concetto distruttivo, soprattutto con l’allungamento della vita e con tutti i ritrovati scientifici che fanno presupporre, e questa non è utopia, che un giorno l’uomo possa vivere senza l’ausilio dei suoi organi materiali se non solo con il suo cervello, al quale potrebbero trovare il sistema di rigenerare all’infinito la sua massa cerebrale. Quello che potrebbe essere una descrizione fantascientifica o meglio utopistica, alla luce dei fatti non lo è assolutamente. Gli arti bionici, i cuori artificiali, ecc. altro non sono che preistoria della medicina. Ecco perché per certi versi l’uomo, se ci riflettiamo, è un essere positivamente paradossale. Come paradossale è la sua capacità di sapersi fare male da solo.
Stralcio dal libro di Pompeo Maritati “L’Utopia della Ragione la ginnastica delle idee”