IL MOTO DELLE SFERE CELESTI E I LORO INFLUSSI SUGLI UOMINI NEL SISTEMA TOLEMAICO DESCRITTI IN ALCUNI CANTI DELLA DIVINA COMMEDIA
RICERCA LETTERARIA DI GIOVANNI TERESI
L’ordine dei cieli tolemaici si ritrova facilmente a partire dalle nostre attuali conoscenze astronomiche: basta scambiare di posto il sole con la terra (che naturalmente si porta dietro la luna). Abbiamo i sette cieli planetari a distanza crescente dalla terra, che è al centro (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno); poi il cielo delle Stelle Fisse (ottavo cielo); infine il Primo Mobile (chiamato anche Cielo Cristallino, o nono cielo) che non porta alcun oggetto celeste, ma serve solo a dare a tutto l’insieme il veloce moto giornaliero, lasciando all’ottavo il lentissimo moto di precessione.
Nel cielo di Venere troviamo importanti contenuti d’interesse cosmologico. All’inizio del canto VIII si parla di epicicli:
Solea creder lo mondo in suo periclo / che la bella Ciprigna il folle amore / raggiasse, volta nel terzo epiciclo.
Terzo, perché viene dopo quelli della luna e di Mercurio. Nel sistema tolemaico si attribuivano ai pianeti due moti, entrambi circolari e uniformi (gli unici moti ammissibili, secondo gli antichi, per i corpi celesti): quello di “deferente” e quello di “epiciclo”. Il cerchio deferente aveva al centro la terra, l’epiciclo aveva il centro fissato in un punto del deferente, il pianeta era fissato in un punto dell’epiciclo. In questo modo si poteva tener la terra ferma perché del suo moto orbitale intorno al sole si rendeva conto col moto di epiciclo, mentre il moto di deferente rendeva conto di quello che è l’effettivo moto orbitale del pianeta intorno al sole. Ma l’epiciclo serviva anche per un altro scopo: quello di approssimare abbastanza bene i moti reali, che sono ellittici anziché circolari e sono anche non uniformi (cioè hanno una velocità angolare che varia come indica la seconda legge di Keplero). Nel caso della luna, che ruota davvero intorno alla terra, l’epiciclo occorre solo per questo secondo scopo. Tolomeo usava come deferente ed epiciclo due cerchi, ma dobbiamo pensare (e Dante lo spiega in Convivio II, 3, 13-18) che questi cerchi appartengano a sfere cave (sfere deferenti) nello spessore delle quali ruotino sferette (sfere epicicli) portanti i pianeti: queste sferette sono anch’esse cieli, sono i “cieli epicicli”.
Ancora nel cielo di Venere, al canto IX troviamo un’indicazione rilevante per le dimensioni del sistema planetario:
Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta / che ‘l vostro mondo face, pria ch’altr’alma / del triunfo di Cristo fu assunta.
Le distanze sono molto sottostimate e il cono d’ombra della terra arriva a penetrare nel cielo di Venere (si badi bene: nel cielo, cioè nella sfera deferente, e non nel pianeta, che è un pianeta interno e non può mai essere in opposizione al sole). La cosa comunque ha conseguenze importanti: quest’ombra fisica porta con sé anche “un’ombra spirituale”. Infatti le anime che si manifestano a Dante nei primi tre cieli hanno avuto qualche macchia: alla luna si associa una volontà instabile (come il popolare “lunatici”); a Mercurio un impegno più per ambizione che per amore di Dio; a Venere un passato reprensibile in campo amoroso.
Infine, rimanendo nel cielo di Venere ma tornando al canto VIII, troviamo un personaggio che aveva conosciuto Dante e ne cita un verso:
Noi ci volgiam coi principi celesti / d’un giro e d’un girare e d’una sete, / ai quali tu del mondo già dicesti: / ‘Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete’.
In effetti Dante aveva scritto una canzone, poi commentata nel libro II del Convivio, che inizia “Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete”: in questa canzone si rivolgeva agli angeli motori del cielo di Venere per trovare conforto al turbamento dovuto a sentimenti d’amore. Un altro riferimento ai motori celesti si trova in Inferno VII , nella spiegazione di Virgilio sulla Fortuna:
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani.
Può sembrare strano che vengano usati i motori celesti come modello per far capire la gestione dei beni materiali da parte della Fortuna: ma in realtà questo è un esempio della visione provvidenziale di Dante, che abbraccia tutti gli aspetti della realtà. Ancora si può citare il canto II del Paradiso dove Beatrice, trattando il problema delle macchie lunari, spiega:
Lo moto e la virtù de’ santi giri, / come dal fabbro l’arte del martello, / da’ beati motor conven che spiri.
Gli angeli motori governano il moto delle sfere celesti e i loro influssi sugli uomini, così come il fabbro dà al martello la forza e la precisione dei colpi che modellano il ferro. Infine si può citare il passo più suggestivo riguardante i moti celesti, nel canto XXIV:
E io rispondo: io credo in uno Dio / solo ed eterno, che tutto il ciel move, / non moto, con amore e con disio.
È Dante che risponde a s. Pietro nell’esame sulla Fede: ci chiarisce che gli angeli motori sono solo intermediari, è Dio il vero artefice di tutto. La chiarezza e la potenza di questa terzina ci aiuta a capire quanto sforzo è costato accettare il fatto che il grandioso moto dei cieli deriva in realtà dalla rotazione della piccola sfera su cui viviamo (basta pensare alla iniziale condanna del copernicanesimo e alla vicenda di Galileo).
Il cielo di Marte è occasione di due passi d’interesse astronomico: sono similitudini, non osservazioni dirette del cielo. Al canto XIV Dante vede una croce luminosa lungo i bracci della quale appaiono lumi, che sono anime di guerrieri della fede. Allo stesso modo si vedono stelle più o meno brillanti immerse nel chiarore della Via Lattea (la nostra Galassia):
Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra’ poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi.