Il Mediterraneo ci appartiene perché siamo noi ad appartenergli
di Pierfranco Bruni
Il Mediterraneo o i Mediterranei?
Il Mediterraneo è l’insieme dei Mediterranei che incontrano gli Adriatici. Tra mare e terra.
Ci appartiene perché siamo noi ad appartenergli.
Il Mediterraneo non è solo un destino. È una geografia delle civiltà tra popoli che si raccontano e identità che vorrebbero raccontarsi oltre le linee e i confini, oltre i limiti della storia e gli orizzonti decisi dallo scontro tra Occidente ed Oriente. È quella frontiera che non ha compreso che le appartenenze sono non solo eredità ma strategia politica tra culture ed economie. Pascoli sosteneva nel 1912 che fino a quando non si capirà che il Mediterraneo siamo noi resteremo naufraghi attaccati alle coste di Ulisse. Bisogna avere la capacità e l’intelligenza di andare oltre le storie e diventare non storia ma presente dentro lo sguardo che va oltre le Colonne d’Ercole.
Il Mediterraneo non è un linguaggio. Neppure una terra promessa. È un ragionamento geopolitico tra l’uomo i popoli le civiltà e ciò che sarà dello sviluppo economico internazionale. Uscire da questo schema è affidarsi non più al greco labirinto ma al caotico caos.
Il Mediterraneo non è una filata di peperoncini… è un pensiero del ri -costruire il senso delle comunità.
Il Mediterraneo non è una “occasione”. È una tradizione nelle maglie di una economia che senza le culture non crea strategie di rilancio dei territori. Il territorio è una geografia non solo di un tessuto politico (e fisico) ma soprattutto antropologico.
Il reale del Mediterraneo è la conoscenza. Gli investimenti si fanno sulle conoscenze e sui saperi che le civiltà esprimono. Conoscere è non sbagliare la tipologia dell’investimento. Anche nelle culture oggi occorre confrontarsi con ciò che è utile. L’utilità deve confrontarsi con la necessità e questa con ciò che possiamo essere domani. In un tempo in transizione le società diventano cangianti nell’arco di un limite che è corto o breve e non lungo o indeterminato.
Il Mediterraneo è una antropologia anche lungo una visione di economia della riconciliazione con la geopolitica.
Il Mediterraneo è una contaminazione di antropologie. Racconta la storia e le vite dei popoli in una visione nella quale la tradizione, pur non perdendo le radici identitarie, diventa innovazione nelle coscienze delle civiltà. Le civiltà determinano i popoli o sono i popoli che definiscono i processi di una civiltà? Fin qui si resta in una dimensione il cui percorso è antro-metafisico. La manifestazione di tutto ciò è dato dalle culture che si dichiarano in un immaginario che è fatto da ciò che definiamo beni culturali. Dall’immaginario al reale il filo è tutto teso su una politica di investimenti sulle conoscenze. Perché conoscere? Cultura come impresa economica? Una domanda che è un interrogativo antico. Conoscere per trasformare la storia in economia. Qui è il punto nodale. La memoria è apprendimento di conoscenze ma è l’economia che rende, non solo valorizzante, fruibile la cultura stessa. In una temperie come quella che viviamo si corre il rischio di abitare una cultura soltanto virtuale. Non essere in presenza in un museo significa, tra l’altro, essere in assenza. I beni culturali possono essere fruiti virtualmente. Ciò che stiamo vivendo. Essere nel virtuale è condividere senza l’esercizio della fisicità, ovvero si resta in un intreccio metafisico. Il Mediterraneo qui potrebbe avere un ruolo significativo tra la condivisione antropologica e la visione fisica proprio attraverso la funzione e il ruolo dei beni culturali dentro i territori. Una linea meridiana che Camus ha individuato come una geografia dell’esistere e dell’esistenza resta ancora oggi un modello nel quale identità è appartenenza nella conoscenza.
Bisogna conoscerlo, il Mediterraneo, per poter fare in modo che sia progettualità culturale ed economia per una archeologia dei saperi che sappia guardare in prospettiva.
Il Mediterraneo è una contaminazione di antropologie. Racconta la storia e le vite dei popoli in una visione nella quale la tradizione, pur non perdendo le radici identitarie, diventa innovazione nelle coscienze delle civiltà. Le civiltà determinano i popoli o sono i popoli che definiscono i processi di una civiltà? Fin qui si resta in una dimensione il cui percorso è antro-metafisico. La manifestazione di tutto ciò è dato dalle culture che si dichiarano in un immaginario che è fatto da ciò che definiamo beni culturali. Dall’immaginario al reale il filo è tutto teso su una politica di investimenti sulle conoscenze. Perché conoscere? Cultura come impresa economica? Una domanda che è un interrogativo antico. Conoscere per trasformare la storia in economia. Qui è il punto nodale. La memoria è apprendimento di conoscenze ma è l’economia che rende, non solo valorizzante, fruibile la cultura stessa. In una temperie come quella che viviamo si corre il rischio di abitare una cultura soltanto virtuale. Non essere in presenza in un museo significa, tra l’altro, essere in assenza. I beni culturali possono essere fruiti virtualmente. Ciò che stiamo vivendo. Essere nel virtuale è condividere senza l’esercizio della fisicità, ovvero si resta in un intreccio metafisico. Il Mediterraneo qui potrebbe avere un ruolo significativo tra la condivisione antropologica e la visione fisica proprio attraverso la funzione e il ruolo dei beni culturali dentro i territori. Una linea meridiana che Camus ha individuato come una geografia dell’esistere e dell’esistenza resta ancora oggi un modello nel quale identità è appartenenza nella conoscenza.
Bisogna conoscerlo, il Mediterraneo, per poter fare in modo che sia progettualità culturale ed economia per una archeologia dei saperi che sappia guardare in prospettiva.