IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Il marchese di Villafiorita”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello

panorama-vallefiorita

Compiuti i quarant’anni, il marchese smise di viaggiare. Parigi

divenne presto un ricordo, a volte anche molesto, se pensava

al denaro sperperato con le donne, al gioco che aveva fatto

volatilizzare più di una proprietà terriera. Per confortarsi, diceva

a se stesso che in fondo era meglio che se lo fosse “mangiato”

lui, il capitale, piuttosto che quei ladroni del governo, come era

accaduto al tempo di suo padre, buonanima, quando avevano

proceduto a quella che riteneva una vera e propria spoliazione.

Alle nove della sera, il marchese obbligava tutta la sua

corte, amici e servitù, a recitare il rosario, guidato dal canonico

Passafiume.

D’estate entrava dal balcone del salone aperto sull’ampio

giardino il profumo del gelsomino, degli aranci e dei limoni.

L’odore intenso procurava un torpore e, spesso, qualcuna delle

donne sonnecchiava, dopo le prime Ave Maria. Il marchese,

inflessibile, a voce alta la richiamava e la poveretta, scrollando

subito il capo, vergognosa, riprendeva a pregare.

Nella stagione fredda, il balcone era tenuto chiuso, ma con

le imposte spalancate, anche quando c’era il temporale. A ogni

lampo, per un istante si interrompeva il rosario e allo scoppio

del tuono che faceva rimbombare le stanze del palazzo, per lo

più semivuote, le donne invocavano San Bartolomeo, dicendo:

“Senza danni e senza pericolo!”

Si riprendeva il rosario fino a che il canonico, dopo la litania

della Vergine, dava la benedizione ai presenti. E tutti si segnavano

devotamente.

Il marchese, accomiatati il canonico, gli amici e i domestici, si

ritirava nello studiolo accanto per trattare gli affari con il fattore.

Questi riferiva, a seconda della stagione, del raccolto del grano,

delle mandorle, dell’uva e delle olive, mostrando i registri che

metteva sul tavolo, sotto gli occhi del marchese. Quando finiva

l’incontro, il marchese usciva quasi sempre infuriato. E si capiva

che aveva discusso rabbiosamente con il fattore, che tutti dicevano

essere un imbroglione, arricchito facendo la cresta ai raccolti e

taglieggiando i poveri contadini.

Macolda, la figlia maggiore del custode, viveva ritirata nella

sua camera, al piano terra del palazzo, già da alcuni anni. Nei

primi tempi usciva per prendere i pasti e la sera per partecipare

al rosario. Poi, col passare del tempo, non volle più uscire, né

incontrare alcuno. Solo il canonico, la domenica mattina, aveva il

permesso di entrare per la confessione settimanale.

La sua camera, ampia e luminosa, aveva una finestra protetta

da una grata di ferro che dava sul giardino. Di tanto in tanto la si

vedeva dietro la finestra con lo sguardo sperduto. Se si accorgeva

che qualcuno la guardava, subito si ritirava dietro la pesante tenda

di velluto verde. Viveva come una suora di clausura. Nella camera

c’era un altarino: fiori finti e piccole candele attorniavano varie

figure di santi. Il canonico le aveva regalato per il compleanno dei

quarant’anni un inginocchiatoio con un cuscino rosso sul quale,

inginocchiata, pregava nelle ore della giornata e della notte.

Non era stato sempre così.

Un tempo Macolda era una bella ragazza. Molti, in paese,

le facevano la corte. Ma a lei piaceva Ferdinando, il figlio del

marchese, che aveva la sua stessa età. I suoi genitori, che da una

vita erano al servizio del marchese, la dissuadevano:

– Anche se Ferdinando non è figlio legittimo del marchese, è

sempre un erede, che prima o poi l’Eccellenza dovrà riconoscere

davanti alla legge. Tu non puoi sperare nulla da lui. Noi siamo

gente povera!

– Ma lui è come me, anzi io sono più brava di lui, me lo dice il

canonico, quando ci insegna il latino e la matematica.

Nello studio, infatti, rivaleggiavano. E tra una lite e l’altra,

una sera ci scappò pure un bacio tra i due giovani. Da allora si

amarono.

Ferdinando si era fatto un bel giovane, alto, con un fisico

possente, intelligente. Amico del podestà, si era particolarmente

distinto come avanguardista.

Allo scoppio della guerra civile spagnola disse a Macolda:

– Mi sto preparando a partire volontario per la Spagna, ho già

fatto richiesta e il podestà mi ha assicurato che mi appoggerà.

A Macolda sembrò che le crollasse il mondo addosso, sospirò

e poi scoppiò in un pianto dirotto.

– Ma non capisco. Ti assicuro che tornerò, non ce la faranno a

stendermi quei dannati comunisti senza Dio!

Solo il giorno della partenza, Macolda ebbe il coraggio di dirgli

che era incinta. Ferdinando quasi non reagì e subito le disse:

– Ti scriverò, ne parleremo al mio rientro!

E le grida di chi partiva, gli applausi di chi restava e cantava

canzoni patriottiche, coprirono le loro voci.

Il giorno che il treno partì, sanguinavano le ciliegie.

Macolda tornava a casa, confusa, con l’angoscia nel cuore.

Pensava alla primavera dell’anno passato, quando con Ferdinando

aveva visitato nella zona delle colline il più ricco dei vigneti del

marchese, che si estendeva a perdita d’occhio fin quasi a lambire

le onde del mare. E lì avevano trovato un rifugio segreto, un

capanno abbandonato, ricoperto da una estesa pianta di glicine,

dove si erano più volte fermati a lungo.

Quando il marchese seppe dell’accaduto, corse ai ripari,

segregando la ragazza in alcune stanze del terzo piano del palazzo

che solitamente restavano chiuse. Là, Macolda portò avanti la

gravidanza in pieno isolamento, visitata da poche persone di

fiducia e dal canonico che si rifiutava di darle l’assoluzione per il

grave peccato commesso.

La ragazza non fece in tempo a partorire, che già la bambina

le fu portata via.

Rimase per giorni a piangere e a implorare di riavere la sua

bambina. Ma fu tutto inutile.

Accolta di nuovo in famiglia, Macolda ebbe continue crisi di

nervi e rifiutava spesso il cibo.

A peggiorare la situazione, giunse la notizia di un evento ancor

più grave.

Una mattina, il podestà si presentò tutto trafelato e sconvolto, e

chiese di parlare con il marchese. Tirò fuori dalla tasca un biglietto

e lo porse al marchese, il quale, dopo averlo letto, si accasciò su

una divano e rimase con il capo chino e le mani sulle ginocchia. Il

podestà, preso coraggio, dichiarò il suo profondo cordoglio:

– Mussolini in persona mi ha telegrafato dicendomi di esprimere

le sue condoglianze a Vostra Eccellenza e che il ragazzo sarà

ricordato con la medaglia d’oro. Nella triste circostanza il Duce,

inoltre, mi ha incaricato di rassicurarla che le sue proprietà della

Sicilia non saranno mai in pericolo, perché, come ha affermato

dinanzi al popolo di Palermo, sull’isola, visto l’apprestamento

militare, terrestre, marittimo e aereo, non sbarcherà mai nessuno,

nemmeno un soldato nemico.

E sottolineò queste ultime parole con l’abituale ferma fede

fascista, seguita dal saluto romano!

La notizia della morte di Ferdinando si diffuse in un baleno.

Da quel giorno Macolda si aggravò. Chiusa nella sua stanza

per giorni e giorni, cominciò a manifestare i segni di un grave

squilibrio psichico. Piangeva, gridava, ma a volte anche cantava

antiche nenie siciliane.

Una mattina la videro uscire dalla sua stanza, spalancando

improvvisamente la porta e gridando:

– L’ho vista, l’ho vista, la Madonna e mi ha parlato!

Si mise seduta a terra con le mani sulla testa. Il primo ad

accorrere fu il canonico. Con cautela la fece rialzare piano piano

e, sostenendola, l’aiutò a rientrare in camera.

– Adesso, figliola, con calma spiegami quel che ti è accaduto.

Dopo aver bevuto un sorso d’acqua dal bicchiere che il

canonico le porgeva, Macolda, rasserenata in volto, narrò che

per tutta la notte lei si era trovata lontana dalla sua camera, era

stata portata misteriosamente nella grande tenuta di Curiano e

là, all’improvviso le si era parata innanzi una belva furiosa, che

non sapeva ben distinguere se fosse un leone, una tigre o altro

animale selvaggio. Nello stesso tempo il cielo si era illuminato e

un enorme cono di luce dorata scendeva dall’alto. Dentro questo

cono c’era la figura di una Signora dalla veste azzurra costellata

di stelle d’argento che sorrideva e benediceva.

– Di colpo la belva scomparve e io mi ritrovai sul mio letto.

– Bene, disse il canonico, fatti coraggio ora. È un buon segno,

la Santa Vergine ti protegge e non ti potrà accadere nulla di male.

Ora riposati, stai tranquilla!

Il canonico uscì e si imbatté subito negli occhi ansiosi delle

donne di casa, che stavano fuori ad aspettare. Ma si limitò a dire,

per non alimentare alcuna chiacchiera: “Ora sta bene, lasciatela

riposare”. E tra sé e sé andava dicendo: “La Vergine, la Vergine.

Tutti vedono la Vergine!”

Nei giorni seguenti, Macolda ebbe ancora di queste visioni.

E già in paese si era sparsa la voce che fosse addirittura una

guaritrice per intercessione della Madonna. In fila, gruppetti

di donne si presentavano al palazzo, chiedendo di poter vedere

Macolda e parlare con lei.

Il marchese ne fu turbato e, preoccupato per come si andava

sviluppando la vicenda, fece chiamare il canonico e gli disse

chiaro e tondo, che se non fosse cessato entro pochi giorni quel

tumulto, avrebbe cacciato via Macolda e tutta la famiglia. Il

canonico assicurò il suo interessamento e promise di risolvere la

faccenda al più presto.

Naturalmente egli era il primo a non credere alla visione di

Macolda e pensò bene di organizzare una specie di “tavola

rotonda” con l’amico farmacista e con il cavaliere Luigi, che

tutti chiamavano “il mago”. Religione, scienza e astrologia,

si confrontarono per tre serate, nel retrobottega del farmacista.

Si decise alla fine che ognuno dei tre avrebbe messo a punto il

rimedio più efficace, secondo la preparazione specifica.

Fu così che per primo il canonico, andando a trovare Macolda

per tre volte durante il giorno provò con le formule e i riti previsti

dalla Chiesa per scacciare il demonio.

Poi fu la volta del dottor Gallo, il farmacista, il quale aveva

preparato una mistura, a suo dire, veramente miracolosa. Macolda

con una certa ripugnanza fu costretta a berla prima di pranzo.

Infine toccò al cavaliere Luigi che lavorò con i suoi strumenti

per una intera notte sulla foto e su una ciocca di capelli di Macolda,

che il canonico furbescamente era riuscito ad avere.

Ma nonostante l’impegno profuso dai tre, fu tutto inutile,

perché Macolda continuava con le sue crisi.

Il marchese allora, su suggerimento del canonico, si lasciò

convincere ad allontanare la sola Macolda in un luogo segreto

di una sua tenuta, accompagnata da una domestica della casa.

Sarebbe ritornata, appena guarita completamente.

Qualche tempo prima degli anni Trenta del secolo scorso,

quando al marchese venne a noia la vita dissoluta di Parigi, due

belle sorelle gemelle tedesche, Britta e Elke, che frequentavano

gli stessi ambienti, ricevettero l’invito a venire in Sicilia, come

ospiti. Accettarono volentieri e si fecero accompagnare da una

giovane signora, anch’essa tedesca che parlava perfettamente la

nostra lingua.

L’ospitalità di quelle due biondissime tedesche si protrasse

a lungo con reciproca soddisfazione. Probabilmente fu la loro

permanenza che indusse il marchese a non allontanarsi più dal

suo palazzo e dalle sue enormi tenute.

Dapprima la gente del luogo cominciò a malignare, poi disse

che in fondo il marchese era scapolo e quindi non faceva torto a

nessuno.

Quando la sera d’estate il marchese le portava a passeggio

lungo il corso o sedevano al caffè-pasticceria più importante del

paese, i giovani maschi siciliani, e persino gli anziani, restavano

abbagliati dal fascino, dalla bellezza e dalla grazia delle due

gemelle. E tutti immancabilmente, prima di salutarsi per tornare

a casa, dicevano: “Eh, beato il marchese con quei due angeli.

Lui sì che ha saputo scegliere!” E un altro, malizioso, mettendo

un po’ in dubbio la virilità del marchese ormai sulla quarantina,

aggiungeva: “Mah, io non credo proprio che il marchese riesca a

tener testa. Gli anni di Parigi lo hanno certamente svuotato!” E

giù risate allusive che chiudevano allegramente una giornata di

calura che lasciava senza fiato anche il più energico.

Fatto sta che una mattina, la governante tedesca bussò alla porta

del marchese. Entrata, disse al Marchese, senza alcuna esitazione,

che una delle gemelle era incinta. Il marchese accusò il colpo,

rimase un po’ sovrappensiero.

Una delle due? Quale? Si somigliavano come due gocce

d’acqua. Ma, come accade in questi casi, un piccolo particolare le

distingueva. E il marchese da tempo lo aveva notato. Britta aveva

un piccolo neo sulla spalla sinistra, invece l’altra no. Così, quando

la governante fece il nome di Britta, il marchese frugò nella sua

memoria, rievocando gli incontri delle ultime settimane.

Nacque un maschio. Dopo la morte in Spagna del primo figlio,

Alfonso ora era l’unico erede.

Lo sbarco in Sicilia degli americani e degli inglesi nel 1943

fu un avvenimento memorabile. Anche il marchese di Villafiorita

naturalmente fu coinvolto. Per anni raccontò poi, che il generale

Patton, nonostante fosse in gara per la conquista di Messina con

l’odiato collega inglese Montgomery, trovò il tempo di fermarsi

per una intera giornata con lui che lo ospitò nel suo palazzo. E

raccontava che la sera, dopo aver bevuto zibibbo e passito delle sue

vigne, si era messo a sparare in aria in giardino con la sua pistola,

che teneva sempre alla cintola, facendo accorrere la pattuglia di

soldati che vigilavano sulla sua sicurezza e spaventando a morte

le donne di casa.

Alfonso era intelligente e studiava con passione.

Frequentava da circa tre anni l’università di Catania, quando un

giorno tornando a casa e informando il marchese dell’andamento

dei suoi studi, come faceva sempre a ogni rientro periodico, disse

che aveva conosciuto una bella ragazza al primo anno del corso di

giurisprudenza, che veniva dal loro paese, ma che lui non aveva

mai incontrata. Gli sembrava impossibile, perché tutti i ragazzi

e le ragazze del luogo lo conoscevano. Adua, questo era il suo

nome, aveva detto che era cresciuta orfana dei genitori e viveva

in un paese vicino presso una zia.

Il marchese fece uno sforzo per non apparire colpito da quella

notizia e non provò ad aggiungere altre domande.

Per proprio conto, il giorno dopo mandò una persona fidata

da donna Concettina per sapere se si trattasse proprio di quella

ragazza che venti anni prima le aveva affidato. Le ultime notizie

gli erano arrivate una decina di anni fa, quando una signora per

caso gli aveva parlato della “figlia” di donna Concettina, che era

bella e intelligente.

Mesi dopo, Alfonso si laureò e informò il marchese della sua

intenzione di partecipare al concorso per commissario di polizia.

Non aveva più rivisto la ragazza, anzi se n’era quasi dimenticato,

quando un giorno di fine giugno in piazza del Duomo, vicino alla

Fontana dell’Elefante, gli sembrò di riconoscerla. Già in servizio

come commissario, scese dalla macchina della polizia e, con

grande sorpresa della ragazza, si presentò sorridendole. Ci fu il

tempo di un breve saluto e scambio di notizie e poi decisero di

rivedersi il giorno dopo al giardino Bellini a una certa ora del

mattino.

Insieme parlarono a lungo seduti a un tavolo del bar del

chiosco. Poi si lasciarono con la promessa di rivedersi in paese

per le ferie d’estate.

Ma il destino aveva stabilito diversamente.

Prima di partire per le vacanze, Adua aveva pensato di portare

un piccolo dono d’argento a quella che lei considerava sua madre.

Entrò in una gioielleria del centro per acquistare una collanina con

la medaglietta di sant’Agata. Dopo poco si sentì il rumore di un

vetro infranto e subito dopo entrarono di corsa gridando tre giovani

con le pistole in pugno. Il padrone del negozio, improvvisamente,

con sangue freddo, reagì sparando con la sua pistola. Ne nacque

una vera e propria sparatoria all’interno del negozio.

In quel momento una macchina della polizia che passava per

quella strada si fermò sgommando e un poliziotto in divisa e uno

in borghese si precipitarono verso il negozio. Si sentì la voce

di un giovane che gridava: “Spara, spara, u commissariu!…u

commissariu!…”

Due riuscirono a fuggire, il terzo giaceva a terra e non si

muoveva.

Una gran folla, intanto, si era radunata davanti al negozio.

Quando giunsero le ambulanze e gli altri poliziotti, si capì che

c’era stata una carneficina.

I giornali della sera annunciarono la terribile notizia: morti il

commissario e una giovane cliente, morto uno dei tre delinquenti,

ferito il proprietario del negozio.

Il maresciallo dei carabinieri fu incaricato di portare al marchese

la ferale notizia della morte del figlio.

Il marchese non disse una parola, si chiuse nel suo dolore.

Era trascorso quasi un mese da quel tragico evento, quando il

marchese si vide arrivare donna Concettina, invecchiata e curva,

che piangendo gli baciò la mano.

Entrambi muti stettero lì seduti, stringendosi la mano, finché

fu sera.


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