Il filo d’Arianna, le Fosse Ardeatine e il “cappotto di Alberto che avevo rivoltato”.
di Enrico Conte e Michael Di Palma
Piazzetta della chiesa “Greca”, del 1765, recuperata negli anni ’90, già sede di rito bizantino, praticato da una colonia di albanesi che, alla fine del 1400, si insedia nel Salento, fuggendo alle persecuzioni degli Ottomani.
Qui, negli anni anni ’70, era tutto in rovina, al più ci potevi incontrare prostitute e i clienti che uscivano furtivi dalle loro case.
Adesso ci sono pub, negozi di design e uno studio di artista, Piero Paladini.
Siamo seduti, io e Michael, ai tavolini esterni di un bar, in una sera invernale, c’è silenzio intorno, freddo, umido, umidissimo, come sempre in Salento. Sembra quasi di sentire il rumore del mare, a est, dove sorge il primo sole, al Faro di Punta Palascia, verso Otranto, o a ovest, Gallipoli, il cui museo di storia naturale custodisce nella formaldeide feti deformi.
Enrico: “Il mondo è composto da tanti mondi – così dice uno dei protagonisti del film Perfect day di Wim Wenders – alcuni sono collegati, altri no!”…. Mic, ci sei stato a Gallipoli a vedere i feti deformi?
Michael: no, mai, i feti deformi mi mancavano, mi sembra però un’ottima gita da organizzare con le sorelle, che dici? Sai Enrico, piuttosto ti volevo dire che ieri, mentre portavo in giro Max, ad un certo punto si è steso per terra, in posizione di agguato, nel mentre a più di 50 metri di distanza si riconosceva un Labrador nero, assomigliava a Poldo. Quando sono stati vicini sembrava che parlassero….hai presente quel racconto di Gogol centrato sul funzionario che lavorava a San Pietroburgo?
Enrico: Mic… mi sa che ti sei bruciato il cervello…tu e sto cane sempre in giro. Quando lo porto a spasso io mi si avvicinano un sacco di ragazze che si chiedono, infastidite, se per caso il cane sia quello di “suo” fratello…… ma…. cheglifaiasteraggazze….. piuttosto, ti volevo fare una domanda: ma tu, ti senti poligamo?
Michael: poligamo? E perché dovrei?
E. Ho scoperto che Il Presidente USA Teddy Roosevelt considerava chi avesse la doppia cittadinanza come fosse un poligamo. E tu hai la doppia cittadinanza e voti anche alle elezioni americane. Anzi, non dimenticare di fare le carte con l’ambasciata…Mi hai detto di te quando, nato a Brooklyn, verso i dieci anni sei tornato con i tuoi genitori in provincia di Napoli, a Gragnano, la città della pasta, ma quand’è che la tua famiglia si è trasferita in America? Non mi hai raccontato del periodo subito antecedente, di tuo padre. Mi hai solo riferito che parlava poco di sé, come mio padre Lorenzo, che preferiva che a esprimersi fossero i suoi acquerelli, gli alberi di ulivo disegnati a china, le città che abbiamo visitato, con lui e mia madre Itala, mio fratello Mario Paolo e mia sorella Gianna.
Il resto era silenzio su di sé e sul mondo interiore, sul ventennio, sulla propaganda, quella che era entrata nella sua testa in un misto di mentalità cattolica e di formazione nella gioventù littoria. Poi la guerra, finì in un campo dove venivano concentrati gli italiani che erano stati presi prigionieri in Grecia dopo l’8 settembre del 1943.
Michael: invero mio padre Michele mi ha fatto alcuni racconti degli anni a Roma, dove si era trasferito da Vico Equense. Ricordo, come fosse ieri, quando parlava del maggio 1938, quando era appena arrivato a Roma, alla stazione Ostiense, perché la centrale era tutta un cantiere.
Tanta gente per le strade, aria di festa, le botteghe erano tutte aperte, anche se di merce ce n’era poca. Si sentiva ancora l’eco della visita di Hitler, che era stato a Roma e Napoli, prima della sua partenza da Vico Equense.
Da quel giorno iniziai a prendere appunti su di un quaderno nero, papà..aspetta…parla piano…non correre…..devo cercare di mettere anche le date, te le ricordi? Devo poter seguire a ritroso questi racconti, come se avessi in pugno un filo di arianna. E’ importante che lo faccia, gli dissi, sei testimone della storia, e gli anni non sono tutti uguali.
Mi raccontava che una sera, Mussolini, dopo essersi liberato del Re e del genero, aveva portato Hitler a cena all’Osteria dell’Orso, la scorta aveva fatto uscire tutti, e i due capi erano rimasti da soli, ad eccezione dell’interprete, chiusi all’interno; ognuno di noi aveva le proprie “certezze” che ci scambiavamo su cosa si fossero detti.
Non molto lontano da lì aveva trovato una stanza, in sub affitto, in via della Scrofa n. 39; l’appartamento era molto grande, al primo piano, e faceva angolo con via della Stelletta, sulla quale si apriva la sua finestra. C’era un unico bagno, in comune con gli altri ospiti e la famiglia che aveva in affitto l’appartamento.
L’affittacamere era gestito dalla moglie di Alberto Marchesi, lui invece gestiva un’Osteria in zona Campo Marzio. All’inizio erano molto diffidenti nei suoi riguardi e non ne capiva la ragione poi, con il tempo, iniziò a capire e anche loro,soprattutto lei, cambiarono atteggiamento.
Il palazzo era di proprietà del Principe Boncompagni, che non abitava li, però era sempre al primo piano, dall’altro lato, dove aveva l’ufficio e curava meticolosamente i suoi affari.
L’unico che era a conoscenza dell’arrivo del Principe era il portiere, che per l’occasione indossava il cappello e i guanti, apriva il portone, e si faceva trovare sotto l’arco, dove rimaneva sino a quando il Principe si tratteneva nell’ufficio.
Roma, 11 settembre 1943, i tedeschi hanno preso il dominio della città, hanno occupato l’Hotel Continentale e altri edifici.
Da quando è iniziata la guerra, Roma è molto cambiata, in giro non si vede nessuno, le botteghe aprono sempre più raramente. Fino a quel momento i “signori” che frequentavano la bottega di sarto, erano quelli che usavano il cappello, gli altri erano “uomini”, al massimo buon uomini.
Il lavoro non c’era quasi più, di nuovo non se ne parlava proprio, si andava avanti risvoltando giacche e cappotti e rammendando pantaloni.
In quel periodo mio padre Michele aveva più volte pensato di ritornare a Vico Equense, ma la situazione lì era anche peggiore. Don Catello, il suo maestro, a Castellammare non aveva lavoro per sè, figuriamoci per altri.
La marchesa aveva raccontato a mio padre che, dopo l’armistizio, ci sono stati scontri con i tedeschi in centro, in particolare alla Stazione Termini, forse ha partecipato anche Alberto?.
Anche i suoi rapporti con i signori Marchesi sono cambiati, lo avevano preso in simpatia, non gli dicevano niente se era in ritardo con il pagamento della stanza.
Lei l’aveva soprannominata “la Marchesa”, visto che è la moglie di un Marchesi non poteva essere altrimenti.
Tramite lei ha saputo, a spizzichi e bocconi, il vissuto di Alberto. Era stato una sorte di eroe della prima guerra mondiale, tant’è che a fine guerra si era meritato un bel posto pubblico. Lo stesso posto pubblico da cui è stato costretto a dimettersi a causa delle sue idee antifasciste.
Dopo le sue dimissioni ha preso la gestione di una osteria in zona Campo Marzio, ma con l’inizio della guerra, un po’ per le sue già note idee antifasciste, un po’ per la crisi economica, ha dovuto lasciare anche questo lavoro.
Andava avanti alla giornata, un paio di volte alla settimana lavorava in un’osteria in via dei Portoghesi, un paio di volte al mese “Da Alfredo”, sotto casa.
È mattina presto a Roma, il 12 marzo 1944, quando si sentono rumori provenienti dalla porta della casa.
Chi sarà? È troppo presto per il Principe ed è troppo tardi per i compagni di Alberto, e poi sono silenziosissimi”.
“Nel mentre pensavo a questo – continua a raccontarmi mio padre – piombano in stanza diversi ufficiali delle SS. Non saprei quanti, perché gli altri erano in altre stanze e in cortile. Oh Dio!, non ho avuto nemmeno il tempo di riappendere la foto del Duce. Dopo qualche istante, arrivano una camicia nera che faceva da interprete e la marchesa che piangeva e gridava… “Michele! Michele!”
Dopo l’identificazione, mi chiedono insistentemente se sapessi dove fosse Alberto Marchesi. “Beh, se non è in casa, sarà andato al lavoro. E dove lavora?” “All’osteria qui vicino, in Via dei Portoghesi.”
Il Capitano tedesco è uscito portandosi dietro l’interprete e la marchesa. Gli altri sono rimasti a rovistare la casa e poi, dopo, si sono ricongiunti con gli altri SS che stavano sul tetto.
Più tardi, la marchesa mi disse che aveva saputo che un altro gruppo di SS era andato, contemporaneamente a quello venuto a casa, all’osteria dove stava Alberto, che però aveva avuto sentore del loro arrivo ed era riuscito a scappare dal retro prima del loro arrivo. Dopo di ciò si persero sue notizie.
Roma, 23 marzo 1944, l’attentato di via Rasella. Era di pomeriggio, la città molto silenziosa, c’era un clima di attesa ……gli alleati sarebbero potuti entrare in Roma da un momento all’altro, voci non confermate dicevano che erano già sbarcati, forse ad Anzio, altre che erano già alle porte di Roma.
In quel periodo, mi diceva il papà….. “avevo poco lavoro, mi restava da rivoltare una giacca, non avevo fretta di finire, tanto il cliente mi avrebbe pagato chissà quando e anche a rate”.
All’improvviso sento un forte boato…….veniva dalla zona del Quirinale ……..pensai qualcosa si muove …..è meglio che chiudo gli scuri…..per oggi ho finito di lavorare.
Michele! Michele! Arriva di corsa a’marches gridando felicissima… stanno arrivando! Stanno arrivando Michele! Si fa un giro della stanza e alla porta, con un piede dentro e un altro fuori si ferma di scatto si gira verso di me e con voce seria “o no Michele?”.
Roma, luglio 1944, Le Fosse Ardeatine. “Roma era stata finalmente liberata, eravamo tutti speranzosi in un futuro migliore, si cercava di tornare ad un certo tipo di normalità.
Ad eccezione della marchesa, che ogni giorno era sempre più buia, i compagni di Alberto non venivano più di notte, e nemmeno di giorno.
Ma lei sapeva dove trovarli, mi lasciava i ragazzini e usciva, ritornava il pomeriggio tardi ma sempre senza alcuna notizia del marito.
Più passava il tempo e più perdeva speranza, la città era stata liberata e non c’era più nessun motivo di nascondersi.
Anche quel giorno era uscita di buon ora, ma poco dopo mezzogiorno era già tornata …..
Michele! Michele! Dobbiamo andare! Dove, rispondo? Alle Ardeatine! E dove sono? Fuori città! Come ci arriviamo? E i ragazzini? Troveremo una camionetta o qualcosa lungo il Tevere, per i ragazzini chiederò al portiere la cortesia di badargli.
Arriviamo lungo le sponde del fiume ma dei pochi mezzi che c’erano nessuno ci voleva portare sin lì, nel frattempo, una voce iniziava a circolare, arrivano altri che volevano andare in quella zona e per gli stessi motivi. Quindi si arriva ad un negoziato, mai più nobile negoziato ci fu in quei giorni,e poi si parte su di un camioncino, con delle tavole di legno a fare da panchina e un lenzuolo come tetto per ripararsi dal sole.
Tra strade dissestate e il caldo torrido il viaggio sembrava interminabile poi, ad un certo punto, iniziamo a sentire un odore di bruciato, andiamo ancora avanti e l’odore diventa insopportabile.
L’autista si ferma di scatto e ci scaraventa giù e riparte in velocità. Noi e le altre persone sulla camionetta ci copriamo il viso con cose di fortuna, io mi sono tolto la camicia e me la sono messa in faccia e abbiamo proseguito a piedi, più andavamo avanti e più l’odore diventava insopportabile. Il nostro gruppo si unisce ad altre persone che troviamo già lì.
Ad un certo punto veniamo fermati da alcuni uomini che stavano approntando delle staccionate con le corde, altri distribuivano delle pezze per coprici il naso e la bocca, e poi c’era un altro ancora che gridava che non potevamo proseguire perché i corpi dovevano essere prima numerati e poi, a tempo debito, e a gruppi, ci avrebbe fatti passare.
Da dove stavamo si vedeva uno spettacolo raccapricciante, un buco nella collina e una fila di una settantina di corpi all’esterno, barelle, una usciva dalla caverna e un’altra entrava, altri cercavano di allargare l’ingresso della grotta e altri ancora di liberare spazio all’esterno.
Siamo rimasti lì per oltre un’ora, nel frattempo sono arrivate altre persone, anche gli uomini che lavoravano erano aumentati. Ora i corpi erano diventati quasi un centinaio su due file.
Qualcuno grida “hanno messo i numeri!!!!”, ma non era vero, a quel punto tutto il gruppo ha scavalcato le corde.
Gli uomini impegnati nelle operazioni gridavano di fermarci e di aspettare che i corpi venissero numerati, ma a quel punto non tornavamo certo indietro.
Arrivati tra le salme, sempre dietro alla marchesa, tra l’odore e il caldo mi sentivo svenire… Fallo per i miei figli, mi sento incoraggiare! Andavamo avanti e indietro come degli automi. Con la coda degli occhi guardavo i corpi a terra, qualcuno sembrava che dormisse, ma nella maggior parte si vedevano già le ossa, ad altri mancava una parte del corpo.
Quando, ad un certo punto, mi sembra di scorgere un qualcosa di familiare, poi al giro seguente guardo meglio …….era il cappotto di Alberto che avevo rivoltato …..avevo paura di guardare la faccia ……continuiamo a girare …..non so che fare …. Glielo dico oppure gli lascio la speranza che sia ancora vivo?…… cerco di camuffare il pianto con la tosse….
Poi la marchesa si ferma, si gira, si avvicina a me e guardandomi negli occhi mi dice sottovoce “dove sta?” Con il braccio gli indico quel che resta di Alberto Marchesi.
Il 24 marzo del 1944 nell’eccidio delle Fosse Ardeatine furono fucilati dai nazisti e su ordine diretto di Hitler 355 ostaggi civili, come rappresaglia di un attacco compiuto dai partigiani gappisti in via Rasella. In quella circostanza morirono trentadue soldati tedeschi, insieme a due civili che furono colpiti dallo scoppio.
Negli anni successivi fu innescata una polemica che mirava ad attribuire ai gappisti la responsabilità della strage per non essersi consegnati nelle ore successive posto che, si diceva, se si fossero consegnati non ci sarebbe stata la rappresaglia.
Solo negli anni ’90, con la scoperta dell’armadio della vergogna, ritrovato abbandonato in uno scantinato della Procura militare di Roma con le ante rivolte verso il muro, è stato possibile ricostruire, tra ricerca storica e giudiziaria, quanto accaduto.
Così, sono stati processati alcuni criminali autori della strage, tra cui il responsabile del massacro, Erich Priebke, estradato nel 1995 in Argentina, condannato all’ergastolo godeva in carcere di una speciale condizione di detenuto, insomma, mangiava e beveva benissimo! E poi morto centenario, agli arresti domiciliari nel 2013.
Roma, primi anni ’60
Sono passati diversi anni da quel giorno, molte cose sono cambiate, è arrivato il tanto sospirato “benessere”. Papà Michele aveva molto lavoro, dalla marchesa aveva preso una seconda stanza che usava come laboratorio e dove riceveva i clienti. Alcuni suoi clienti avevano insistito affinchè si prendesse una loro nipote, che veniva da Gragnano, e che faceva i pantaloni. Lui glieli farà trovare già tagliati, lei li cucirà nel laboratorio quando non servirà la macchina, altrimenti a casa e li porterà già fatti il giorno dopo.
La marchesa si è invecchiata molto, da quel giorno non ha smesso di camminare per Roma, per inseguire i “Compagni”. Comunque, questi chilometri hanno portato dei benefici; lei ha ottenuto un indennizzo “una tantum” e una buona pensione, e i figli che nel frattempo sono cresciuti, stanno per avere una sistemazione, la femmina sta per avere una licenza di “Sali e Tabacchi”, mentre il maschietto sta facendo le visite mediche per diventare commesso alla Camera dei Deputati.
Finisco di lavorare tardi, ho mangiato un bel piatto di trippa e ora me ne vado a dormire…..
Ma dalla strada mi sento chiamare, sarà Otello con la moto, tiene sempre la “capa fresca”.
Mi affaccio ma stavolta è con una macchina, mi dice…. dai, scendi, che ho comprato questa macchina usata e la dobbiamo provare.
Per fortuna non c’è un’anima per strada, perché corre come un matto; sai Michele da domani darò a noleggio questa macchina completo di autista…. che sarei io.Beh…. se corri così, sarà difficile che trovi clienti.Arriviamo sul lungo Tevere, in pochi minuti siamo a Castel Sant’Angelo, in Viale della Conciliazione … Piazza San Pietro ….punta dritto alla fontana “Otello andiamo a sbattere!” .
“Michele, tranquillo, ci sono io alla guida”…..Abbiamo fatto non so quanti giri intorno alla fontana.
Si iniziava a respirare l’aria degli anni ’60 quando “avremmo visto e ascoltato ciò che non avremmo mai visto o ascoltato da quando eravamo nati,ciò che non avremmo mai creduto possibile. Luoghi il cui utilizzo obbediva a regole rispettate da sempre,in cui erano autorizzati a entrare soltanto determinati tipi di persone, università,fabbriche,teatri,aprivano le loro porte a chiunque e si faceva di tutto,discutere,mangiare,dormire,amarsi tranne ciò per cui erano stati predisposti;non ci sarebbero stati più luoghi istituzionali e seri. Professori e studenti, giovani e vecchi,colletti bianchi e tute blu si parlavano tra loro,le gerarchie e le distanze si dissolvevano, nella parola come per miracolo, così per il linguaggio cortese e moderato, fatto di toni posati e circonlocuzioni, e quel modo di tenere le distanze con il quale…i potenti ai loro servi imponevano il loro dominio…e la società, da allora, avrebbe avuto un nome e si sarebbe chiamata società dei consumi”( Annie Ernaux, Gli Anni).
C’è un filo in tutte le cose che le collega, un filo d’arianna che le tiene rapprese in un quadro, sia pur disperse, che le considera parte di un unico destino, sempre uguale e sempre diverso, e sempre che le si voglia vedere nel loro insieme.
Enrico Conte e Michael Di Palma
Redazione di Trieste
de Il Pensiero Mediterraneo