Il disastro educativo e culturale italiano e la ribellione civile
di Umberto Baldocchi
Il “femminicidio” di Giulia Cecchettin, non l’ultimo purtroppo, continua a richiamare l’ attenzione, in varie modalità. Non credo sia un caso semplicemente di impatto mediatico. C’è qualcosa di più profondo e consistente che vale la pena cercar di capire.
L’evento e le dichiarazioni che hanno seguito l’evento- in particolare le dichiarazioni di sorella e padre- hanno spinto sotto i riflettori non l’ennesimo caso, tra tanti, di prevaricazione e barbarie che segna le relazioni uomo-donna, ma un quadro di insieme, un contesto sociale cui non avevamo fatto caso. Vale a dire il disastro educativo e culturale, la tragedia devastante della de-civilizzazione della società italiana che sinora non riuscivamo a percepire in tutta la sua drammaticità, come causa principale di tante tragedie “private” e quotidiane, come i femminicidi. A tal punto ci eravamo assuefatti al disastro. E tanto eravamo “pieni di sonno”, lontani dalla via della ricerca del senso della vita e della verità. “Sonnambuli” come ci ha descritto il Rapporto Censis 2023, o “pieni di sonno” come, un po’ prima del Rapporto Censis, anche Dante descrive se stesso quando si perde entro la “selva oscura”.
C’è stato però un lampo, un bagliore che, in un attimo, ha squarciato il buio e ha risvegliato i sonnambuli. Abbiamo finalmente “visto” coi nostri occhi l’inferno terreno, questo disastro che forse è la prima e più grande emergenza italiana, da cui nessuno, uomo o donna può tirarsi fuori.
E’ vero l’ Italia ha oggi enormi problemi sociali ed economici, che paiono prescindere da ogni altro problema, da quello “culturale” prima di tutto. La cultura non era stata definita un lusso o una dimensione che non serve a produrre ricchezza e quindi serve a ben poco? In realtà siamo a tal punto istupiditi che ci pare assurdo persino il pensare che , prima di ogni sviluppo economico, industriale e sociale viene la cultura, viene soprattutto la cultura civile. Lo pensava invece in piena lucidità Camillo Benso di Cavour quando, osservando il disastro dell’ Italia del primo Ottocento, divisa in staterelli e mal governata dovunque, scriveva nel primo numero de “Il Risorgimento italiano”, nel 1847, che “il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico. Le condizioni dei due progressi sono identiche. Le virtù cittadine, le provvide leggi che tutelano del pari ogni diritto, i buoni ordinamenti politici, indispensabili al miglioramento delle condizioni morali di una nazione, sono pure le cause precipue dei suoi progressi economici.”
E quale altro ostacolo, se non questa mancanza di “fondamenta culturali e civili profonde” avrebbe potuto impedire, per interi decenni, ai governi di centro, di destra e di sinistra, tutti senza eccezione, di imboccare la strada per uscire dal declino, una strada che senza dubbio qualche leader avrà pur perseguito sinceramente? E’ di qui, credo, che dovrebbe partire un vero piano di ripresa e resilienza italiano, un piano che noi italiani abbiamo perseguito o avviato tante volte, specialmente a partire dal XVIII secolo. E che definivamo con altro termine. Con un termine solo in apparenza un po’ retorico, ma in realtà più chiaro e più coraggioso, di “risorgimento” e soprattutto “risorgimento civile”.
Oggi abbiamo davanti a noi il declino costituito dalla stagnazione economica e sociale, dal crollo demografico, dall’affondamento elle strutture destinate alla cura e alla salute di tutti, a volte ridotte a strutture da Terzo Mondo, dall’incapacità di usare in positivo le risorse della tecnologia, dall’abbandono a se stesse delle nuove generazioni, dall’irrilevanza internazionale del nostro Paese, dal prevalere, unico caso europeo, del lavoro “povero” in alcuni settori privati e nel settore statale. Quale altro paese europeo, o non europeo, ha percorso nell’ultimo ventennio la nostra parabola declinante? Il nichilismo devastante che, in molti casi, si traduce anche nel disfacimento dei legami sociali, a partire da quelli del nucleo dove ci si deve prender cura degli altri, cioè della famiglia, delle persone cui dovremmo esser legate dall’affetto è l’approdo cui siamo giunti. Poteva esserci un approdo diverso?
In una società che non conosce più fiducia o speranza, ma solo paura, anzi che moltiplica e ingigantisce le paure quotidiane -secondo il Rapporto Censis 2023 la stragrande maggioranza gli italiani, anche i più giovani, temono disastri imminenti e vivono nella paura di tutto, del clima impazzito, della crisi economica, delle migrazioni, della guerra, della povertà futura, del debito pubblico, delle carenze di energia e persino della siccità- come potrebbero sorgere amicizie e fratellanze vere e non invece nemici invisibili da cui guardarsi in continuazione? Come pensare a costruire con l’impegno ed il lavoro un futuro personale o collettivo? Meglio ricorrere alle risorse della “fortuna” o delle “conoscenze opportune”, se non a quelle della “carriera politica”.
Finalmente, nel caso Cecchettin, non abbiamo più sentito i discorsi ripetuti in occasione di ogni “femminicidio”, sulla discriminazione delle donne e sul maschilismo che pure evidentemente ci sono. Finalmente qualcuno ha cominciato a affermare che questa è “solo” la piccola punta di un iceberg enorme costituito da un male oscuro e invisibile molto più profondo che ci travolge. Per questo l’appello del padre è stato così dirompente. Non più una richiesta di aiuto, di sostegno alle donne, o anche una rivendicazione delle legittime ed urgenti misure difensive penali in loro difesa, ma molto di diverso e molto di più. La denuncia di una sorta di responsabilità, insieme oggettiva e morale, generata dall’affiorare di un rinato senso profondo del dovere che irrompe dall’esterno e che impedisce di tacere. Come la “parola” proveniente dall’ “esterno”, avvertita dagli antichi profeti di Israele, che costringeva a parlare, a dire male del male, a rompere il silenzio complice, anche attirandosi disprezzo, isolamento o persecuzione. Una storia nota, anche se spesso dimenticata. Così il padre di Giulia, come ha confessato, si è sentito anche lui spinto, “costretto” a parlare.
Ma cosa è che ha visto realmente Gino Cecchettin? Quale è la realtà cui è stato strappato il velo all’improvviso? Sostanzialmente Gino Cecchettin si è accorto di tre aspetti cui non avevamo fatto caso.
Primo aspetto
“Da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti”( Testo online di Gino Cecchettin, martedì 5 dicembre 2023, Nord Est Padova, Il testo integrale della lettera ai funerali di Giulia Vi racconto l’eredità della mia combattente ).
La violenza di questo femminicidio dunque non è né personale né insensata. Non ci sono dei “mostri”, cui si può contrapporre solo la difesa della legge penale, l’ ultima ratio della difesa sociale. Ci sono solo persone, devastate, in modi diversi, dal male. Eravamo invece abituati a vedere questi episodi come casi di mostruosità, di emergenza permanente che non era necessario o possibile “comprendere”. Come “sonnambuli” accettavamo la mostruosità invocando la deterrenza, il potere, le leggi speciali e altri rimedi emergenziali. Abbiamo accettato così, in nome dell’emergenza, ogni mostruosità quotidiana nella vita pubblica e in quella privata. Ora però abbiamo capito. Le manifestazioni di massa, impreviste e imprevedibili nelle dimensioni, lo dimostrano. E’ probabile che sia difficile continuare ad accettare questo.
Abbiamo capito. Il male non è prodotto da un mostro proveniente da una dimensione aliena, non è una risultante casuale di eventi personali, e soprattutto non è privo di senso. Non è una “emergenza” casuale ed atipica che non si può prevenire, ma solo combattere ex post, come ormai si fa con tutto, con una epidemia, con un delitto imprevedibile, con una crisi economica, con un disastro ambientale imprevedibile, con una guerra, col “fallimento degli Stati” eventualità nuova, sconosciuta al passato storico, e assolutamente inedita, cui dovremmo provvedere con una adeguato meccanismo di assicurazione.
C’è infatti un male originario, profondo e radicato, ma non più percepito, da cui invece ogni “emergenza” mostruosa si alimenta. E su quel male profondo, non sulla “emergenza”, bisogna intervenire per rimuoverlo alla radice. Un compito non delle donne e neppure degli uomini soltanto, ma di tutta la comunità. Questo Male però è qualcosa di desueto solo perché risponde ad una logica esattamente opposta a quella emergenziale cui siamo da tempo abituati in tutti i campi della politica, italiana ed anche europea, qualcosa che avvertiamo solo nelle manifestazioni estreme. Una sorta di epidemia che identifichiamo solo quando produce la morte.
Secondo aspetto
Cosa è questo Male misterioso ? Se consideriamo Male un non essere, esso può esser definito solo dal Bene che gli corrisponde come suo opposto. Il Bene di cui ci priviamo è il dialogo che consente di far crescere le persone, di far maturare le persone come entità capaci di relazionalità vera. La relazione vera ha bisogno del rispetto, cioè della capacità di considerare l’altro come un altro io ( respicere, etimologicamente significa replicare la species, cioè il volto) ha bisogno dell’idea di sacralità , cioè di intangibilità della persona, della vera libertà della sessualità ( che nulla ha a che fare con la vecchia rivoluzione sessuale) , dell’amore inteso come bene dell’altro. Il Male che produce i femminicidi è la mancanza di tutto questo. Esattamente ciò che ha detto Gino Cecchettin.
“Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso e all’ amore vero che cerca solo il bene dell’altro. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ci connette in modi straordinari, ma spesso, purtroppo, ci isola e ci priva del contatto umano reale”.
Come scriveva Simone Weil, “…la possibilità[di esprimere il rispetto] si fonda su un legame insito nella natura umana tra l’esigenza di bene, che è l’essenza stessa dell’ uomo, e la sensibilità…Grazie ad esso ogni volta che , in conseguenza di atti o omissioni da parte di altri uomini, la vita di un individuo è distrutta o mutilata da una ferita o da una privazione dell’anima o del corpo , in lui non è soltanto la sensibilità a subire il colpo, ma anche l’aspirazione al bene” ( Simone Weil, Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, in Una Costituente per l’ Europa, Castelvecchi, Roma 2013, p. 116).
Come può un giovani pensare di dover rispettare la persona se non crede che esista una dimensione ontologica e morale di aspirazione al bene in chi è altro da noi, in una parola come può farlo o che senso ha farlo se tutto è male, egoismo, sopraffazione, narcisismo, competitività spietata, solipsismo ecc.? Eppure questo pensano tanti giovani. Ecco un esempio di questi giorni. “Da studenti e studentesse siamo pienamente consapevoli di vivere in una società marcia, fatta di individualismo, competizione e sopraffazione, che si rafforza nella volontà di possesso e nel dominio patriarcale”Dal Manifesto degli occupanti de Liceo Copernico di Bologna ( Giovanni Cominelli, Manca una vera consapevolezza del presente, in Politica Insieme, 9 dicembre 2023).
Come possono restituire forza e dignità alla società persone imprigionate da questa ideologia della disperazione? Se non ritroviamo una legge interna, un senso di autodisciplina e di autolimitazione, ma riteniamo onnipotente il potere del male, che si chiami capitalismo o altro non conta, rimaniamo persone dotate di un giudizio morale primitivo, vincolato solo dal potere, dalla convenzione e dalla legge, senza possibilità di uscire dal buio disperante della disumanità e della disperazione nonché dell’accettazione rassegnata dei mali. Possiamo sperare solo in una apocalisse mostruosa o in una realistica “riduzione del danno”, come nelle tossico dipendenze. Inutile chiederci quale idea dell’amore può nascere in questo contesto.
Questo male collettivo è ciò che con un termine antico ma profondo da tempo caduto “in disuso” perché ritenuto obsoleto avremmo definito un tempo come peccato, un peccato, in questo caso, sociale e strutturale, prima che individuale. II peccato, in realtà, nella grande cultura ebraica e cristiana-non nella parodia da commedia all’italiana cui è stato spesso ridotto- non è una ossessione maniacale di spiriti deboli, né la violazione di norme di cui non riusciamo sempre ad afferrare il senso, né il semplice “fare del male” agli altri- ma un fatto comune nella vita di ogni essere umano, una sorta di fallimento ( questo è il senso originario del termine nell’etimo ebraico) interno alla struttura relazionale in cui vive la persona, la negazione dell’ ordine della realtà, la sostituzione dei mezzi ai fini, una sorta di autonegazione o suicidio ontologico, una dispersione dell’ Io, una rottura della sua unità. E’ un male che, prima di tutto, non concerne l’Al di là, ma che tocca e devasta la nostra vita nel mondo spirituale e materiale in cui viviamo. E’ per così dire un male “incarnato”. Un male che devasta l’ “offensore” oltre che l’ “offeso”. Molto più problematico da estirpare di ogni male fisico, come ci mostrano tante pagine dei Vangeli.
Oggi questo concetto in larga parte si è perso. Dissolto, insieme ai concetti di bene e male oggettivo, che certo esistono ancora, ma tra cui è sempre più arduo tracciare confini. Siamo davvero andati “al di là del bene e del male”, senza aver prodotto alcun oltre-uomo e stiamo sprofondando in un vuoto senza confini, né dimensioni, come accade all’uomo folle della “Gaia Scienza” di Nietzsche. Così nei casi migliori il peccato è confuso col “reato” cioè con l’offesa arrecata all’altro, almeno laddove il concetto di reato sussiste ancora, e non è soltanto ciò che è male solo perché vietato da una norma di legge, ma che non si capisce bene perché debba esser proibito.
Questo concetto è svanito perché abbiamo smarrito nella nostra epoca il contatto umano reale, la percezione della natura relazionale dell’uomo, nella società dell’astrazione tecnologica in cui ci è dato vivere, il “contatto umano reale”. Solo di qui può rinascere e risvegliarsi una coscienza che faccia da barriera all’inferno sociale cui finiamo per assuefarci.
Solo se recuperiamo questa visione relazionale della persona possiamo recuperare la coscienza. E solo se recuperiamo la coscienza che ci consente di distinguere tra peccato e delitto, possiamo riumanizzare la società e umanizzare persino il potere politico. Illusione sarebbe credere di salvarci affidando le nostre vite a norme dettagliatissime, che ci dicono come fare ogni cosa o ad un Grande Fratello ( ormai diventata addirittura una presenza rassicurante nella idiozia televisiva di un incredibile programma) che ci consiglia ad ogni momento sulle scelte da fare. Non possiamo rinunciare al dualismo che caratterizza la nostra civiltà europea, al dualismo della norma che regola la vita dell’ Homo Europaeus.
Non possiamo lasciar perdere la nostra coscienza individuale e collettiva per entrare in una civiltà tecnologica, in un fondamentalismo secolarizzato o talvolta non secolarizzato, in cui la “norma a una dimensione”-che confonde peccato e reato- fa coincidere l’essere collettivo col dover essere e in cui le scelte di vita sono sempre più affidate alle statistiche degli scienziati o al calcolo delle probabilità, entro una comunità simbiotica in cui una intelligenza artificiale ( o un’ autorità politica) ci assegna un punteggio premio per ogni azione conforme alle norme.
Terzo aspetto
La scuola deve dare l’antidoto alla soluzione dei conflitti insegnando la conflittualità costruttiva, base di una matura ed efficace educazione della persona, sentimentale, intellettuale e sessuale. Ancora Gino Cecchettin:
“La scuola ha un ruolo fondamentale nella formazione dei nostri figli. Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza. La prevenzione della violenza inizia nelle famiglie,
ma continua nelle aule scolastiche, e dobbiamo assicurarci che le scuole siano luoghi sicuri e inclusivi per tutti”.
Ricostruire il rispetto, instaurare relazioni sane e umane gestire i conflitti vuol dire formare persone intere e coerenti. La costruzione dell’autonomia personale , la scoperta adolescenziale della norma morale e della riflessione ( o “pensiero del pensiero”), sono per Jean Piaget e per tutti gli studiosi dell’educazione capisaldi essenziali della maturazione umana. La forza del dubbio intelligente, della riflessione critica e libera è il fondamento dei fondamenti del vivere insieme: ma cosa facciamo per favorire queste dimensioni culturali? Cosa facciamo per favorire il conflitto costruttivo che, da Socrate in poi, è alla base dell’ educazione giovanile ed anche della autonoma scoperta della maestà delle Leggi che assumono volto umano, ci parlano, ci ammoniscono e ci interrogano dal nostro intimo, con la voce del vero “maestro”, quello che vive in ciascuno di noi. Scoperta che non potremmo mai fare attraverso le parole di un insegnante, tanto meno quelle di un poliziotto, di un funzionario civile o quelle di un giudice. Cosa facciamo per far vivere questa educazione civile?
Quante proposte e progetti di educazione civile in questa direzione sono stati impediti e travolti in Italia da classi politiche sciagurate, irresponsabili ed incoscienti dagli anni novanta in poi? Come in altre epoche, un ennesimo “risorgimento civile” è stato tragicamente travolto e distrutto sul nascere. Per giunta in uno dei pochi paesi europei con gravi ritardi di alfabetizzazione letteraria e morale ( la Bibbia come grande libro assente nelle letture degli Italiani, tra i pochi casi dell’n Europa moderna). Fino ad arrivare all’ inaudito disinvestimento dell’ultimo decennio, addirittura nella formazione professionale dei docenti.
Una vera e rinnovata cultura civile è la strada maestra per uscire dal disastro educativo e culturale su cui quest’ultimo femminicidio ha gettato la luce. Per questo però è necessario sbarazzarci e liberarci dalle prospettive paralizzanti della emergenza perenne e della paura- inclusa quella della guerra- e riprendere a guardare la realtà e riconoscerla per ciò che essa è. Con la convinzione che se i tempi che viviamo sono cattivi, sono pesanti, sono difficili, il vivere bene riuscirà a mutare i tempi. A rovesciare la de-civilizzazione e a produrre il “risorgimento” necessario .
Umberto Baldocchi
Fonte: politicainsieme.com