Il caso Iran: quando il cinema diventa una forma di resistenza
di Mattia Nuzzaci
Da settimane ormai l’Iran è una presenza fissa nei nostri notiziari per le sempre più crescenti proteste di piazza, iniziate dopo la morte di Mahsa Amini, una ragazza che era stata arrestata per non aver indossato correttamente il velo; i manifestanti, uomini e donne di ogni età, chiedono un drastico cambiamento del sistema socio-culturale se non addirittura il rovesciamento del regime teocratico di Ali Khamenei, massima carica religiosa del paese che, per tutta risposta, continua ad usare il pugno di ferro, senza sconti a nessuno. Se con queste premesse parlassimo di cinema, soprattutto del cinema iraniano e della sua pertinenza nel contesto, sembreremmo dei folli. Niente di più errato.
Mohammad Rasoulof, Mostafa Aleahmad e Jafar Panahi sono tre noti registi che a luglio del 2022 sono stati arrestati con l’accusa di aver partecipato a manifestazioni antigovernative e di aver denunciato le violenze della polizia sui civili. Anche se “abituati”, verrebbe da dire. Non è la prima volta, infatti, che il regime prende provvedimenti di questo tipo. Si chiama censura, perché è difficile trovare un altro nome ai divieti di girare film o di lasciare il paese che, nel corso degli anni, hanno subito questi cineasti, costretti ad adottare ogni mezzo per aggirarla con gli espedienti più impensabili come nascondere un hard disk in una torta, contrabbandando la pellicola fuori dal paese.
Perché al contrario di quanto si possa pensare, il cinema iraniano è vivo e forte. Di più è sempre rimasto fedele al diritto alla libertà d’espressione, unendolo ad una spinta creativa che ha raccolto riconoscimenti in tutto il mondo; per citarne alcuni, tra 1995, 2000 e 2015 il sopracitato Panahi ha vinto rispettivamente la Caméra d’Or a Cannes per “Il palloncino bianco”, il Leone d’oro a Venezia per “Il cerchio” e l’Orso d’oro a Berlino per “Taxi Teheran”, quest’ultimo girato in clandestinità con lo stesso autore che si è finto un tassista, tramite una telecamera nascosta, per raccontare i diversi personaggi della storia. In un’altra opera “Offside”, ha affrontato di petto la tematica delle donne a cui era impedito l’accesso allo stadio, mentre nel recente “Gli orsi non esistono” ha dato corpo e anima alla sua condizione di artista costretto ai domiciliari ma consapevole e convinto di una battaglia giusta, come dimostrato in una scena dove rifiuta la ghiotta opportunità di attraversare illegalmente il confine con la Turchia e quindi di essere davvero libero.
Ma Panahi non ha mai avuto paura, neppure di essere scomodo e non nel senso retorico del termine. Il suo è un dichiarato cinema di denuncia e di resistenza.
Rasoulof, condannato più volte dalla corte rivoluzionaria ed accusato di propaganda contro il regime, ha ottenuto anch’egli nel 2020 l’Orso d’oro a Berlino, premio che non ha potuto ritirare personalmente in quanto privo di un permesso di viaggio; il suo “Il male non esiste” è un film crudo sulla pena di morte attraverso quattro episodi che lavorano sul binomio dovere/morale e che si interroga su ciò che l’uomo interpreta come coscienza propria prima ancora che civile.
È del 2022 anche l’ultima fatica di Ali Abbasi, iraniano naturalizzato danese, che con “Holy Spider” ha raccontato la vicenda realmente accaduta di Saeed Hanaei, un serial killer che agli inizi del duemila fece strage di prostitute, in quanto convinto di aver ricevuto un mandato divino per ripulire la città di Mashhad dal malcostume. Un viaggio nella radicata misoginia del paese, se si pensa che una parte dell’opinione pubblica ne sostenne il progetto criminale.
Impossibile non citare poi Asghar Farhadi, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero nel 2012 con “Una separazione”, che parte da una vicenda famigliare per fare una disamina sul peso della religione e sulle differenze di classe all’interno della società iraniana.
Andando più a ritroso uno dei nomi di primissimo ordine è stato Abbas Kiarostami, elogiato da maestri del calibro di Kurosawa, Godard e Scorsese e autore di capolavori tra cui “Il sapore della ciliegia”, Palma d’oro a Cannes nel 1997, che segue le gesta di un uomo che cerca qualcuno che lo aiuti a farla finita. “Il corridore”, datato 1984, di Amir Naderi, tra i primissimi lavori iraniani a suscitare l’interesse internazionale, è l’odissea di un bambino rimasto solo e senza casa a causa della guerra con l’Iraq.
Un elenco di questo tipo, fatto di tematiche non di facile impatto, induce ad una riflessione sul valore della cultura di uno stato che, sin dai tempi dello scià Pahlavi, passando per la rivoluzione di Khomeini nel 1979, all’attualità, si è dimostrato spesso indeciso su che forma di riformismo abbracciare e quale limite porre alla sua tendenza conservatrice. Di conseguenza è giusto domandarsi cosa è richiesto al cinema, perché nel momento in cui lo si sfrutta come strumento di trasposizione della realtà, subentra il “rischio” che non possa essere solo intrattenimento. Se è vero, dunque, che l’arte, a dispetto di orpelli di selettività, appartiene al popolo, cosa impedisce a qualcuno di sublimarla in una determinata forma di coscienza? Qual è il confine tra una propaganda alla Riefenstahl per il nazionalsocialismo tedesco e un cinema che si offre come resistenza civile e democratica? La politica è in tutto ciò che circonda l’aspetto governativo e chi osserva, anche soltanto uno schermo, può scegliere se e come farsi sorprendere. Suonerà paradossale, ma ha un potere. Un film non fa mai paura a nessuno, se non a chi già ne ha.
Il cinema iraniano ha uno stampo neorealista che immortala il quotidiano e ne vuole far parte, con autorevolezza e veridicità. Magari toccherà al futuro giudicarlo ma definisce urgenze ed è figlio della storia che ognuno interpreta, per dirla hegelianamente, come divenire dialettico di un’evoluzione nel tempo dove ogni momento, soprattutto quello più negativo, è necessario. Ecco perché, oggi, questo momento è necessario.
“Non ci opponiamo al cinema, ma condanniamo il cattivo uso che se ne fa”, disse l’ayatollah Khomeini all’indomani della rivoluzione del 1979 quando erano già cominciati i processi contro i registi. Oggi sembra essere la realtà quella di cui se ne fa un cattivo uso. E probabilmente la questione è tutta qui: dietro una macchina da presa c’è sempre un uomo, non solo fisicamente. Un uomo con una propria identità. A chi e cosa subordinarla?
Mattia Nuzzaci