“Il caffè della moenese”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello
Al bar con un amico, Roberto, pittore cinquantenne, amava
scrutare i volti delle persone che passavano per la piazza del
piccolo paese della Ciociaria o che venivano a sedersi per
sorbire un buon caffè.
-“Sto lavorando a una tela che rappresenta un momento di vita
paesana. Ci sono diversi personaggi, ma non mi riesce di
trovare l’immagine giusta di un volto femminile in primo piano.
E questo stallo inaspettato mi rende inquieto e nervoso”.
Giorgio, il suo amico, lo ascoltava come sempre con attenzione,
quando a un tratto si illuminò in volto, il suo sguardo si fissò su
un punto, dietro le spalle di Roberto, e disse:
-“Hai finito di penare Roberto, è arrivata la fanciulla che cerchi
per la tua pittura!”
Il pittore con due tre cauti movimenti della sedia poté cambiare
la sua posizione e guardare nella direzione che l’amico gli
indicava.
Due ragazze sedevano a un tavolino: la prima, bruna sui
vent’anni, magra con un viso affilato e un naso piuttosto lungo,
con ciglia folte e nere, sfogliava distrattamente un grosso
volume e parlava senza interruzione al cellulare; la seconda,
bionda.
Il cameriere nel prendere l’ordinazione si era attardato un
attimo più del necessario, stupito dalla bellezza del volto della
ragazza bionda. Quando portò le tazzine di caffè che avevano
ordinato, fece un mezzo inchino e un sorriso. Bastò perché la
due ragazze alzassero gli occhi in direzione dei due amici.
-“Ma certo, disse Giorgio, che stupido! Quella bella ragazza
bionda è la figlia della moenese. Oh, com’è cresciuta!”
-“Vuoi dirmi chi è questa moenese?” ribatté prontamente
Roberto.
Invece di rispondere, Giorgio si alzò e si avvicinò al tavolo
delle ragazze.
-“Buongiorno Nadia, non mi riconosci?”
-“Certo, signor Giorgio, stavo proprio per parlare di lei con la
mia amica Gina. E’ tanto tempo che non viene a prendere un
caffè da noi”.
-“Hai ragione Nadia, ma sono quasi sempre lontano dal paese
per lavoro. E quando ritorno non ho più il tempo di venirvi a
trovare come una volta. Sto qui con il mio amico pittore che
vorrebbe conoscervi”.
Fece un segno con la mano a Roberto, il quale si avvicinò e si
complimentò con le ragazze. Si fermarono a conversare per
qualche minuto, poi le ragazze si alzarono e salutarono.
Giorgio disse a voce alta: “Di’ alla tua mamma che appena
possibile verrò a prendere un caffè!”
Giorgio, rivolgendosi all’amico, disse:
-“Prima di sposarmi frequentavo il bar della signora Elena,
detta la moenese, perché originaria di Moena, una donna molto
bella, vedova, che gestisce un bar caffetteria, un locale molto
caratteristico nel paese di P. che, come sai, è a mezz’ora di
macchina da qui. La caffetteria della moenese per vari anni
restò l’unico bar frequentato dai giovani del paese. Acquistò in
breve tempo una tale fama per la bontà del caffè e per
l’ambiente accogliente, al punto che i giovani venivano anche
dai paesi vicini. Tu sei qui solo da poco tempo e quindi non hai
vissuto quella piacevole esperienza. Ti consiglio di andarci e
così avrai anche la possibilità di rivedere la ragazza e accordarti
con la madre per un ritratto”.
Non lo lasciava un istante l’impressione di quella bellezza e
Roberto ripensava a quella ragazza di poco più di diciotto anni,
dagli occhi verdi, con un nasino minuto all’insù, un profilo
delicato, capelli biondi ondulati, movenze e gesti che
denotavano eleganza, grazia e dolcezza. Tutto confermava
quella impressione di bellezza e di armonia che aveva provato
sin dal primo momento. Ora la bellezza si univa alla
malinconia. Una malinconia sottile, impalpabile come nebbia
che copriva la sua anima e le toglieva ogni senso di
orientamento. Essa vagava come nel sogno, eppure vigile e
pronta a interrogarsi sul significato della vita, sul perché di una
certa commozione, di una gioia, dinanzi a spettacoli sublimi
della natura, a visioni di splendori di luci e di colori, come i
lampi, così sfuggenti da ferire il cuore al pensare che nello
stesso istante si perde qualcosa che uguale non tornerà più.
Roberto si era sempre vantato con gli amici di non aver bisogno
di prendere moglie, era in grado di badare a se stesso e fare
quello che soltanto lui decideva di fare. Era un uomo sicuro di
sé, alto, ben piantato, con spalle larghe, in perfetta salute. Ma
da quando aveva lasciato dietro di sé gli anni quaranta, aveva
cominciato ad avvertire qualche segnale di quelli che
cominciano a fare avvizzire il corpo di un uomo avviato alla
cinquantina: un po’ di pancia, un po’ di calvizie, un po’ di
capelli grigi, un generale appesantimento che non faceva
prevedere nulla di buono. Dire che lentamente, quasi senza
accorgersi, stava avvitandosi in una crisi interiore, non era del
tutto errato.
Da alcune sere si trovava a passeggiare solo per il corso della
cittadina. Roberto, prima di ripartire per il suo lavoro, gli aveva
di nuovo raccomandato di andare al bar della moenese, ma lui
tergiversava, dopo il primo entusiasmo per il ritratto della
bellissima ragazza. Preferiva restarsene con i suoi pensieri. Si
accorse di aver percorso tutta la lunghezza del corso: era giunto
all’ultima curva del paese, dove iniziava la campagna. Gli
venne di pensare al suo passato. Prima di allora aveva sempre
preferito non volgersi indietro. Nelle conversazioni con gli
amici sosteneva sempre che era importante preoccuparsi solo
del presente e proiettarsi verso il futuro, finché qualcuno gli
fece osservare che per saltare bene e andare avanti è utile
indietreggiare. “Qualche passo all’indietro, diceva l’amico, ti
darà la possibilità di compiere un salto più lungo e sicuro!”.
Quella verità all’improvviso gli tornò alla memoria, ora che gli
frullava l’idea di crearsi una famiglia e predisporsi a quel
“salto” importante.
-“Che tristezza! gli venne spontaneo esclamare. Solo ora mi
accorgo di te, mio passato! Sei come un fiore sbocciato nella
notte senza colore, né profumo, perché mi sono dimenticato di
irrorarti con acqua di cristallo”. E gli spuntarono due lacrime!
Rifece il cammino all’inverso e senza incontrare alcun
conoscente, rientrò in casa. Soffiava il vento che scendeva dalla
collina scura, portava polvere e odore d’erba bagnata e spingeva
ombre che ingombravano la strada. Tutto il mondo ora gli
sembrava a brandelli, nulla era fermo, stabile e sicuro. Nulla,
neanche il suo cuore trepidante!
Un giorno finalmente il pittore si decise a recarsi a P. a
prendere un caffè al bar della signora Elena.
Il bar si affacciava sulla piccola piazza del paese. Era al piano
terra di una graziosa casa a un piano, circondata da un vasto
spazio intorno, dove erano disposti diversi tavolini e sedie.
Facevano bella mostra una siepe fiorita e una larga tettoia
colorata. Quando Roberto entrò, c’erano due signore sedute a
un tavolino che bevevano il caffè e chiacchieravano. Al banco
un giovanotto in camicia bianca e gilet nero trafficava tra
bicchieri e tazzine. Roberto ordinò un caffè e subito dopo,
restando in piedi, cominciò a gustarlo a piccoli sorsi. “Davvero
squisito, aroma eccezionale”, pensò Roberto.
In quel momento si aprì una tenda dietro il bancone e apparve
una donna sulla quarantina, alta, bionda, ben fatta, con un viso
straordinariamente somigliante alla ragazza che aveva
conosciuto alcuni giorni prima. Non potevano esserci dubbi,
doveva trattarsi proprio della madre di Nadia.
-“Buonasera”, disse Elena, al cliente in piedi di fronte a lei.
-“Buonasera signora, rispose con un sorriso Giorgio, scommetto
che lei è Elena, la mamma di Nadia!”
-“Precisamente, disse la donna, e lei è il pittore, l’amico di
Giorgio. Mia figlia mi ha parlato del vostro incontro e il signor
Giorgio mi ha detto che lei ha intenzione di fare il ritratto a
Nadia. Molto bene, se mia figlia è d’accordo, io non ho nulla in
contrario”.
La donna si esprimeva con voce melodiosa e con accento del
Nord. Aveva un viso dalla carnagione giovanile, delicata;
qualche piccola ruga le solcava il collo, abbellito da una
catenina d’oro, due minute rughe agli angoli della bocca si
accentuavano lievemente quando sorrideva. I capelli erano
biondi naturali e ondulati. Indossava una elegante camicetta
rosa fucsia e una gonna ben intonata. Le scarpe non avevano
che un tacco modesto, dal momento che la sua statura era già
considerevole e gareggiava quasi con quella del pittore.
-“Ma si accomodi, sono curiosa di sapere qualcosa della sua
arte. Venga, si sieda da questa parte”.
Roberto seguì di qualche passo la donna e si sedette accanto a
lei.
-“Ha un gusto meraviglioso il suo caffè, all’altezza della fama
decantata dal mio amico Giorgio”.
-“Sì, è vero. La nostra è una lunga tradizione che ora porto
avanti da sola, dopo la morte di mio marito”.
-“E’ un bel locale, questo, arredato elegantemente, pulito e
accogliente. Si sente davvero la presenza di mani e gusti
femminili. Il mio occhio di pittore però, ma lei mi scuserà, mi
dice che alle pareti manca qualche bel quadro che metterei al
posto di un paio di oleografie e di vedute fotografiche. Che ne
direbbe di esporre il ritratto di Nadia e, perché no, anche quello
della proprietaria?”
Elena si schermì sorridendo e aggiunse: “Certo il ritratto di
Nadia farebbe una gran bella figura e, ora che ci penso, potrei
raccontarle una storia interessante che potrebbe dipingere.
Naturalmente prima di cominciare il lavoro e, avuto l’assenso
di mia figlia, ci accorderemo sulla spesa”.
-“Nessuna spesa, signora Elena, io il ritratto se avrò il permesso
lo eseguirò in nome della bellezza della ragazza e lo darò in
regalo. Piuttosto, lei poca fa mi parlava di una storia che avrei
dovuto conoscere, mi piacerebbe sapere qualcosa…”
-“Ah sì, disse Elena, ma prima le vorrei far vedere il mio
laboratorio, dove preparo la mia specialità di caffè, i dolci, le
creme e ogni tipo di torte. Venga da questa parte nel
retrobottega e le svelerò il mio segreto”.
Tra i due era nata una certa misteriosa simpatia, una fiducia
reciproca. Elena alzò la tenda dietro il bancone, raccomandò al
giovanotto di servire i clienti che entravano e, seguita dal
pittore, cominciò a scusarsi per il disordine che regnava in quel
grande locale dalla volta bombata. Innumerevoli stoviglie
dappertutto, sui tavoli, sul piano della cucina, sui fornelli spenti.
-“Ecco, Evelina, la ragazza delle pulizie, arriva soltanto alle sei
del pomeriggio per lavare, rassettare e mettere tutto in ordine
per il giorno dopo. E se in mezzo a questa confusione a lei non
dispiace, posso pure spiegare i segreti del mio mestiere”.
-“Ma è straordinario tutto questo”! disse il pittore.
-“Vuol prendermi in giro? rispose Elena, perché dice così?”
-“No, mi scusi signora, intendevo dire che trovo una
somiglianza straordinaria con il mio laboratorio. Se lei vedesse
la stanza dove lavoro, troverebbe qualcosa di simile:
dappertutto pennelli, bottiglie di acqua ragia, tele
ammonticchiate, tubetti di colore spremuti, tappi, cornici vuote
e sgangherate. Cambia soltanto la produzione: quel che lei crea,
si gusta con la bocca, per i miei prodotti c’è bisogno degli
occhi!”
Si guardarono e scoppiarono a ridere allegramente.
-“Lei mi può capire benissimo. Gli ingredienti debbono
certamente essere di ottima qualità”.
Aprì uno dei due grossi frigoriferi: “Ecco qui, burro, panna,
frutta fresca, lamponi, fragole, cioccolato. ma quel che più
conta sono l’amore e la fantasia. Se non ci sono questi due
formidabili ingredienti, non si può scommettere di ottenere un
buon risultato. In tutti questi anni li ho sempre avuti con me,
non mi hanno mai tradito e ciò spiega il mio successo in questo
piccolo paese di provincia”.
Mentre così parlava, la signora non mancava di offrire ora un
biscotto riccioluto, ora un coloratissimo pasticcino, tra le
riserve che stavano su ampi scaffali refrigerati e protetti dal
vetro.
-“Mi permetta di dire, esclamò il pittore, che definirei il suo
laboratorio come un gradevolissimo pasticcio di profumi, un
mandorlato di sorrisi e, come leggo sul suo viso, un frullato di
ricordi e di malinconia”.
E in effetti Elena, all’improvviso, si era fatta seria e aveva
assunto un’aria pensosa: “Un segreto particolare ce l’ho, disse
la donna, e a lei voglio confidarlo. Io sono nata a Moena in una
casa del quartiere “Turchia”, dove ho sempre respirato una
misteriosa aria di caffè, legata a una storia che sa di leggenda.
Io sono convinta che noi siamo l’eco di coloro che vissero
prima di noi, cerchiamo gli stessi colori, amiamo gli stessi
odori, abbiamo uguali dolori. Il vento e la pioggia che si
accanirono sui loro corpi sono gli stessi che ora provano anche
su di noi”. E Elena raccontò la leggenda.
-“Spero di non averla annoiata con la leggenda e le mie
fantasie. Sono pronta ora a parlare di cose reali”.
Guidandolo in una stanza adiacente, gli mostrò due sacchi pieni
di caffè. Attinse dall’uno e dall’altro una manciata di chicchi e
glieli mostrò.
-“Forse lei non vede alcuna differenza, invece sono due qualità
diverse. Osservi la riga che corre sul chicco: in questo
mucchietto la riga ha un andamento a forma di “S”, in
quest’altro la riga corre piuttosto dritta. La prima manciata di
grani è la qualità più pregiata, l’arabica, che si coltiva sugli
altopiani a non meno di duemila metri, mentre la seconda è
detta robusta ed è quella coltivata a più basse altitudini. Il
segreto per un buon caffè sta nel miscelare con dosi appropriate
le due qualità, oltre naturalmente alla tostatura, che è una
operazione molto delicata. Ho qui con me questa preziosa
apparecchiatura che i miei nonni e mio padre mi hanno
insegnato a far funzionare con perizia. I grani vengono
riscaldati a circa trecento gradi, l’umidità evapora, gli oli che i
chicchi contengono migrano dall’interno verso la superficie e il
caffè assume un colore scuro. Naturalmente occorre una grande
esperienza nel sapere scegliere e differenziare il livello di
calore, perché il profumo, l’aroma e la fragranza sono racchiusi
in questo segreto”.
-“Ah, ecco mia figlia. per favore glielo chieda lei stesso per il
ritratto”.
La risposta della signorina Nadia fu positiva e il pittore non
perse tempo, prese dalla tasca il suo taccuino e la matita e in
pochi minuti tracciò con abilità il suo profilo.
Quella sera, tornando a casa, Giorgio era particolarmente
allegro. Aveva voglia di saltellare tra una pozzanghera e l’altra,
come faceva da ragazzo uscendo da scuola. Un tale con
l’ombrello lo guardò severo, temendo che gli schizzasse
addosso l’acqua della pozzanghera. Lui fece un sorriso e si
scusò, procedendo e canticchiando. Le luci dei negozi
illuminavano la strada e gli suscitavano ricordi lontani
dell’infanzia quando mano nella mano usciva con la madre per
gli ultimi acquisti prima del Natale. Ogni tanto si fermava a
guardare la sua immagine riflessa sulla vetrina e diceva:
“Perché no? Sono ancora giovane, posso provarci!”
L’aveva ascoltata con simpatia, non si era persa nemmeno una
parola, un sorriso, un gesto. Ricordava ogni particolare di
quella storia-leggenda che Elena così amabilmente gli aveva
raccontato, dimostrandogli una inaspettata confidenza. Gli
sembrava che le parole che uscivano da quella bocca non
arrivassero subito al suo orecchio, ma si attardassero nell’aria
come farfalle e solo dopo un attimo si facessero catturare con
dolcezza. Era chiaro che si stava innamorando di Elena. Ora che
sulla vetrina vedeva il suo volto accanto a quello di Elena
sorridente, con i capelli che le scendevano sul collo, un piccolo
grazioso neo sulla guancia sinistra, un naso diritto, le labbra
rosee e carnose, era certo di essersi pazzamente innamorato.
Chi avrebbe potuto chiudere con chiavi quel suo amore
nascente come sole splendente?
Percorse l’ultimo tratto di strada e stranamente sentiva che
l’oscurità della sera lo avvolgeva in una sorta di malinconia
profumata di magia, che gli ispirava soggetti e contenuti per
almeno un paio di tele che avrebbero abbellito le pareti della
caffetteria.
-“Sì, dipingerò lei e pensava alle sopracciglia lievemente
arcuate, come archi di luce sotto i quali lampeggiavano gli
occhi di Elena, alle sue labbra che erano rose mielate degli
Iblei. Sì, era lei la donna in primo piano che mancava ancora
nel suo quadro. Sì, dipingerò la battaglia, i cavalli dalle criniere
fluenti, i cavalieri, le sciabole, i pesanti cannoni, i forti
giannizzeri e getterò lo sguardo sul campo abbandonato, sui
tesori lasciati dai turchi in fuga, sui sacchi ripieni di fascinosi
chicchi di caffè, allora sconosciuti alla gente. A parte dipingerò
lui, il polacco scaltro, il soldato non graduato, con accanto la
pergamena che gli regalò fama e nobiltà. “Salus Vienna tua” fu
il motto inciso sul suo stemma. Così il re Jean Sobieski, al
comando della imbattibile cavalleria polacca, aveva voluto
ricompensare i servizi resi nel segnalare la posizione e gli
spostamenti delle truppe del Gran Visir Kara Mustafa Pascià,
durante l’assedio di Vienna del 1683. La fuga dei turchi, il 12
settembre di quell’anno, fu la salvezza dell’Europa
dall’islamismo, ma rappresentò anche l’inizio della diffusione
delle caffetterie. Fu il soldato polacco, poi diplomatico e nobile,
ad aprire la prima caffetteria in Europa, dopo aver ottenuto in
dono tutti i sacchi di caffè abbandonati dagli ottomani in fuga e
aver incontrato il misterioso turco sfuggito alla morte.
E il pittore ricordava con quanta passione Elena aveva narrato
la leggenda del soldato turco che, ferito e fuggitivo, aveva
trovato asilo e cure a Moena, mentre lui ascoltava con la testa
piegata in avanti, con gli occhi socchiusi, perduti nel sogno.
Elena diceva che l’aveva appresa dalle nonne delle nonne del
paese quando era fanciulla, per questo a un gruppo di fienili, tra
i quali il Tabià del Copeto, venne dato il nome di Turchia.
Per alcune settimane Roberto non si vide in giro per il paese,
tanto che il suo amico Giorgio, non ottenendo risposta ai suoi
messaggi, si era preoccupato e andò a cercarlo a casa.
-“Scusami se ti accolgo in tenuta da lavoro e così dicendo
chiuse alle sue spalle la porta del laboratorio. In questo periodo
sto lavorando moltissimo, le idee ci sono e pure l’estro, così mi
sono isolato”.
-“Posso vedere qualcosa?”
-“No, ti prego. Quando avrò finito, ti avvertirò e potrai
esprimere il tuo giudizio”.
-“Va bene, ho capito. Ti lascio lavorare. Questa sera con alcuni
amici andrò a prendere il caffè da Elena!”
Trascorse ancora una settimana e finalmente Roberto chiamò
Giorgio e gli aprì il laboratorio.
-“Che spettacolo”! esclamò Giorgio.
Aveva dinanzi a sé una grande tela nella quale Roberto
immaginava con vivacità di colori l’assedio di Vienna, la
sconfitta e la fuga dei turchi, il tesoro e i sacchi di caffè.
Poggiato sul cavalletto e non ancora incorniciato c’era lo
splendido ritratto di Nadia.
Dopo alcuni giorni quelle bellissime tele vennero appese alle
pareti del bar di Elena, la quale non finiva più di elogiare
l’artista. Sia gli avventori abituali, sia coloro che vi capitavano
per la prima volta, si soffermavano ad ammirarle. Nadia,
felicissima, non si stancava di lodare il pittore e non mancava di
invitare le sue amiche perché giudicassero l’opera.
Crebbe ancora di più la fama della caffetteria di Elena e nello
stesso tempo la stima per il pittore.
Dopo questi eventi, non passava giorno che Roberto non si
recasse al bar di Elena e, come accade in questi casi, si
consolidò la simpatia fra i due, fino a diventare una vera e
propria intesa, allorché il pittore le svelò di essersi innamorato e
l’intenzione di porre fine alla sua solitudine. La vedova
apprezzò la rivelazione e condivise la scelta.
Una sera Roberto trovò Elena chiusa nella sua stanza. Dopo
lunga insistenza, Roberto poté finalmente entrare e chiedere la
ragione del suo pianto.
-“Sono molto preoccupata per quel che intende fare Nadia.
Adesso capisco il perché dei discorsi umanitari, dei sentimenti
appassionati per i poveri, per i diseredati, per i perseguitati dalle
guerre, per i bambini malati e destinati a morire di fame. Da
circa un anno frequenta, insieme con la sua amica, il direttore
della associazione Onlus che si occupa di mandare in Africa
persone disposte a operare presso i centri sociali di aiuto alle
popolazioni povere.
-“Mi sembra, interruppe Giorgio, un’idea nobile e generosa,
però è meglio che questa forma di volontariato si realizzi nel
nostro paese, anziché in terre lontane e pericolose”.
-“E’ proprio quello che ho provato a farle capire, ma mi sono
trovata come di fronte a un muro insormontabile. E’ decisa a
tutto”.
-“Ma non può una ragazza bella e fragile, come lei, esporsi a
pericoli di violenza di ogni tipo. Se permetti, proverò a parlarle
anch’io”.
Nadia con l’inseparabile amica Gina arrivò di lì a poco e si
accorse subito della brutta aria che tirava: la madre con gli
occhi arrossati, Roberto nervoso e inquieto.
Le due amiche lessero alcuni ritagli di giornale, alcuni fogli
scritti al computer e li riposero in una cartella, che Gina mise
sotto il braccio. Baciò l’amica, salutò e andò via.
Appena uscita l’amica, Roberto seguì Nadia diretta verso le
scale che portavano al primo piano dove c’era l’abitazione.
Dopo un poco si sentì la voce irritata di Nadia.
-“Lei, Roberto, non ha alcun diritto di intromettersi nella mia
vita. Io debbo fare questa mia esperienza in Africa, voglio
realizzarmi, aiutare chi ha bisogno, condividere i disagi e se
necessario le sofferenze, l’indigenza, le paure, le ansie di gente
che non ha nulla. E se lei mi dice che posso farlo anche qui nel
nostro paese, io le rispondo che non è la stessa cosa: sarebbe
una paura finta, una sofferenza addolcita dalla sicurezza che
respiriamo, dal ritmo di vita abituale, dopo una parentesi
temporanea. Io voglio toccare con mano il male vero che
opprime quella gente, fugare o almeno far diminuire
quell’abbandono al triste destino, che dà l’ignoranza, l’ignavia,
la rassegnazione. Lei, mi spiace dirglielo, è un intellettuale da
salotto, un personaggio pieno di buoni propositi, di ideali, un
velleitario, incapace di realizzare la pur minima parte di tali
ideali. Io voglio un viaggio, un viaggio che scenda anche
all’inferno, perché non sono più capace di sopportare queste
“dolcezze” che mi circondano, senza che io abbia fatto nulla per
meritarle. Il caffè che io, lei, gli altri, che frequentano il nostro
bar, beviamo e assaporiamo, viene da molto lontano, viene da
una terra che ha succhiato molto sangue. Io non ho paura di ciò
che può capitarmi. Per me le nostre vite sono come nubi
veleggianti nel cielo. Corrono per un breve spazio di tempo, poi
il vento le dilacera, le sospinge più avanti, le svuota, le
ricompone in altre vite. A volte sono come nuvole scure, tetre,
le nostre vite, ma il destino è simile, solo che prima di
disperdersi nell’immenso cielo, qualche angelo lascia cadere le
sue lacrime”.
Roberto si turbò dinanzi a quella reazione inaspettata. Non
disse nulla e scese giù al bar.
-“Lasciala andare, Elena, noi apparteniamo a un’altra
generazione, forse più pavida, più refrattaria alla solidarietà,
meno decisa a cambiare il mondo. Probabilmente ci sbagliamo
quando giudichiamo affrettatamente questi giovani. Tua figlia
non è soltanto la ragazza che perde le sue ore a scambiare
messaggi su WhatsApp, vuoti e ripetitivi. Ma ha dentro
qualcosa che non sospettavo nemmeno. Mi ha fatto capire che
il suo viaggio vuole essere il simbolo della iniziazione alla vita.
E questo è veramente importante. Se dunque tu la ami, ti ripeto,
lasciala partire, se si romperà il collo sarà in nome dell’amore
del prossimo e di vera partecipazione alla vita degli altri, non in
nome di astrazioni, di ideali lirici, incantati, di sentimenti puri
ma pur sempre intrisi di sogni che rimangono tali”.
Quelle parole rivolte a Elena, il rimprovero di Nadia che aveva
saputo mettere a nudo quell’aspetto oscuro della sua
personalità, risuonavano ancora nella mente di Roberto che,
uscito di casa, si era avviato per una passeggiata solitaria verso
la campagna.
Quel rimprovero gli bruciava la coscienza. Eppure non poteva
fare a meno di riconoscere che Nadia aveva colto la verità:
intellettuale da salotto! La sua coscienza gli confermava ora che
la sua vita era rimasta sempre stregata dall’inerzia, dalla
menzogna, dall’opportunismo, dall’egoismo e dalla indifferenza
verso la vita comune della gente, senza alcun intervento
concreto per lenire qualche sofferenza, per aiutare qualcuno a
uscire dai guai. E così con amarezza doveva convenire con se
stesso che fino a quel momento della sua vita, il suo
comportamento era stato alquanto spregevole, perché aveva
preso dagli altri senza nulla dare. E gli sembrava che in fondo la
stessa aria che aveva respirato, la stessa acqua con cui aveva
domato la sua sete, non le avesse meritato. Si giudicava un
parassita e per giunta superbo e orgoglioso. Si chiedeva se per
dare inizio al cambiamento non fosse stato il caso di
guadagnare un po’ di umiltà. Sì, umile come l’erba che in quel
momento andava calpestando, quell’erba che chinava il capo e
tutta se stessa fino a terra e si faceva sentiero, si faceva terra tra
la terra e felice di servire il suo passo.
Nadia e Gina partirono piene di entusiasmo, dirette in Kenya.
All’aeroporto di Nairobi le attendeva un giovane collaboratore
della Onlus che aveva il suo centro direzionale presso uno dei
numerosi villaggi che sorgevano a una cinquantina di
chilometri a nord della capitale.
Durante il percorso le due ragazze cominciarono a rendersi
conto delle difficoltà e povertà di quei luoghi. Dovunque lungo
le strade dei villaggi attraversati, bambini, ragazzi, donne, con i
piedi scalzi affondati nella melma; ai lati sorgevano misere
capanne fatte di fango con i tetti di paglia.
Giunsero a destinazione verso il tramonto. Furono accolte dal
responsabile del centro, il quale assegnò loro una piccola
stanza, nell’unico edificio in muratura, arredata con due
brandine, due sedie e un tavolo. Sospese alle pareti due
sporgenze di legno che dovevano servire da attaccapanni.
Notarono subito che in tutto il villaggio non c’era elettricità e il
loro pensiero corse ai cellulari ormai ridotti al silenzio.
Padre Giulio, il responsabile, era una sorta di missionario laico
con una lunga barba bianca, sulla cinquantina; le ringraziò di
essere venute, si informò della loro salute, perché diceva “in
questo posto non ci si può prendere il lusso di ammalarsi”. Poi
con un sorriso disse che le aspettava fuori su uno spiazzo
rotondo attorno alle capanne, dove la gente del villaggio aveva
preparato per loro una piccola festa di benvenuto.
Al loro apparire le donne lanciarono un lungo caratteristico
urlo, i giovani si abbandonarono a una danza di gioia e i
bambini e le bambine intonarono i loro canti. Il suono dei
tamburi continuò fino a tardi. I bambini si stringevano attorno
alle due straniere bianche, le toccavano, le prendevano per
mano e sorridevano.
Nadia e Gina erano commosse per quella accoglienza e, acceso
il lume, pensarono subito al programma per il giorno dopo. La
loro idea era di raggruppare i bambini per età e incentrare la
loro attività sul gioco. Ne avrebbero parlato a padre Giulio la
mattina successiva.
Padre Giulio le lasciò libere di organizzare tutto come meglio
credevano e suggerì di puntare per i primi giorni sulla
comprensione degli scambi verbali. Accolsero il prezioso
consiglio di padre Giulio e trascorsero il primo mese ad
apprendere le principali espressioni linguistiche legate alla
attività ludica e alle necessità personali essenziali.
Tutte le mattine Nadia e Gina si svegliavano allegre, bevevano
una tazza di tè e subito si recavano in un grande spazio
circondato da una staccionata, dove potevano intrattenere i
bambini. Durante le ore calde della giornata, si ritiravano sotto
una grande tettoia a mangiare e a riposare. Anche quei momenti
della giornata diventavano importanti per far apprendere ai
bambini regole igieniche e di comportamento. Ricambiavano
l’affetto che ricevevano dai bambini, studiando di essere
garbate nei modi, distribuendo sorrisi e gentilezze. La sera
erano sfinite e dopo il frugale pasto condiviso con la comunità,
si sedevano sulle loro brandine, scrivendo i loro diari, dove
annotavano pensieri e esperienze.
Una mattina all’alba furono improvvisamente svegliate da urla
spaventose e dal rumore di un autocarro. Poi qualcuno con un
calcio spalancò la porta e in un attimo Nadia e Gina si sentirono
sollevate dai loro letti dalle braccia robuste di due soldati neri,
che con violenza le spinsero fuori e, schiaffeggiandole, le
obbligarono a salire sull’autocarro col motore acceso. Una
piccola folla si era radunata e gridava. Padre Giulio, apparso
sulla soglia della sua stanza, stava per precipitarsi fuori, quando
fu raggiunto da un colpo alla testa e cadde a terra privo di sensi.
Un soldato sparò in aria con un mitra e saltò in cabina,
l’autocarro accelerò e, lasciando dietro una nube di polvere,
scomparve alla vista.
Le due ragazze, tremanti, erano rimaste sdraiate sul fondo
dell’autocarro coperto da un pesante telone. Un nero con una
tuta di tipo militare e armato di fucile le guardava con occhi
feroci e ogni tanto si alzava e puntava in faccia ora all’una , ora
all’altra, la canna dell’arma. Dalla cabina, un nero con occhi
acquosi, bovini, con labbra grosse, con un naso enorme,
carnagione scura e capelli corti brizzolati, chiamò con tono
autorevole il compagno e gli porse un pacco. Quello lo aprì e
tirò fuori due niqab , che sbattè in faccia alle ragazze, facendo
loro segno di indossarli. Nadia e Gina avevano intuito di essere
cadute in mano a banditi o a ribelli e che per la loro salvezza
avrebbero chiesto un riscatto. Sicure che la notizia del
rapimento sarebbe stata presto diffusa in Italia, pensarono alle
loro famiglie e si rattristarono.
L’autocarro aveva già macinato parecchi chilometri senza mai
fermarsi. Il soldato che li sorvegliava, di tanto in tanto alzava il
telone per guardare fuori e le ragazze intravedevano un
paesaggio desolato, con scarsa vegetazione. Attraversando
qualche raro villaggio, l’autocarro rallentava, il loro custode si
affrettava ad abbassare il telone, sicché Nadia e Gina non
potevano vedere nulla, ma sentivano le voci dei bambini e delle
donne.
Dopo una corsa di almeno quattro ore, l’autocarro si fermò.
Quando scesero dal camion, avevano le gambe rattrappite e
provarono un grosso sollievo facendo pochi passi. Guardavano
il luogo dove si trovavano attraverso la fessura che all’altezza
degli occhi il niqab consentiva.
Il capo era un gigante, alto quasi due metri, con spalle larghe e
braccia poderose; consegnò il suo fucile a uno dei compagni,
forse per non spaventare le ragazze, si avvicinò e disse: “Qual è
vostro nome? Io…Dunga, io soldato buono!”
-“Perché non ci lasci andare allora?” disse Nadia.
-“Denaro… denaro… per mia famiglia tribù. Pochi giorni e poi
libere, ora vostri occhi guardare monti”. E con la mano indicò
l’orizzonte dove si intravedevano le montagne e i boschi.
Dunga era uno dei tanti banditi della zona che, con un gruppo di
soggetti simili a lui, viveva di azioni illecite, solo che a
differenza di altri, aveva un suo codice morale che gli imponeva
di rispettare la vita dei prigionieri.
Il giorno dopo raggiunsero il margine di una foresta. Furono
costretti a fermarsi perché l’autocarro aveva subito qualche
avaria al motore.
-“Dunga fece scendere le ragazze e disse: “Qui terra di
Marsabit, dietro boschi e montagne… Etiopia… e mio viaggio
finisce”.
-“Dunque, pensò Nadia, abbiamo proceduto per almeno
seicento chilometri a nord di Nairobi. Come potranno
ritrovarci? Mi sembra un luogo sperduto e selvaggio”.
Infatti, osservando il panorama, le ragazze vedevano un
paesaggio costellato di crateri vulcanici, ormai evidentemente
spenti da millenni. Tutto il paesaggio piatto e vulcanico era
circondato da una zona verdissima che dava inizio alla foresta.
In lontananza splendevano al sole le acque azzurre di un lago
che creava un fascino inquieto.
Fu durante quella sosta che il carceriere, rimasto solo a
sorvegliarle, mentre il capo con gli altri si era allontanato in
cerca di acqua, tentò di violentarle. Le loro grida fecero
accorrere Dunga e gli altri. Subito fu chiaro quello che era
accaduto. Dunga frustò senza pietà il colpevole e lo tenne senza
cibo per un giorno intero.
Sembrava ormai chiaro che il viaggio non potesse proseguire se
non a piedi. L’autocarro se ne stava con il cofano sollevato, le
portiere spalancate e pareva proprio un rottame.
Raccolto il necessario, si misero in marcia: Dunga davanti e
dietro di lui le ragazze e i due uomini armati, in coda, con le
ferite ancora sanguinanti e senza armi, veniva l’altro compagno.
Dopo circa un’ora di cammino, entrarono nella foresta e lì
sostarono all’ombra di alberi frondosi. All’improvviso un grido
di paura e di dolore. Un serpente aveva morso il braccio di
Gina, nel momento in cui si accingeva a sedersi per terra, vicino
a un ramo secco. Dunga, prontamente accorso, colpì con un
bastone il serpente e lo uccise. Lo osservò a lungo e si mostrò
molto preoccupato. Lo chiamò con un nome sconosciuto alle
ragazze: “ serpente snake…molto velenoso”.
Uno degli uomini disse qualcosa al capo e questi si affrettò a
dire: “Andare villaggio foresta…sciamano curerà ferita”.
Dunga tagliò dei rami e improvvisò una sorta di lettiga sulla
quale fece adagiare Gina: “Tu non muovere…non piangere”.
Si avviarono tra le lacrime delle ragazze e poco dopo sbucarono
in una radura dove si trovavano in cerchio alcune capanne di
fango e di paglia.
Nella capanna dello sciamano, un vecchietto magro e rugoso,
Gina venne curata con parole misteriose, gesti e invocazioni.
L’effetto delle cure non si fece attendere molto, soprattutto
grazie agli impacchi di erbe segrete, che le procurarono un
grande sollievo. In poche ore il braccio di Gina aveva perso il
brutto colore violaceo dei primi momenti e già si sentiva
meglio.
Il giorno dopo, attraversata la foresta, si fermarono e dall’alto di
una collina videro lungo una strada polverosa una fila di
autocarri che avanzavano lentamente. Raggiunsero la strada
sottostante e attesero l’arrivo dei camion. Dal primo autocarro
scese un bianco e Dunga gli andò incontro. Parlarono per
qualche minuto, poi Dunga fece segno ai suoi di portare le
ragazze, le quali si tranquillizzarono quando sentirono parlare
quell’uomo: “Benvenute in Etiopia, la vostra prigionia è finita,
vi porterò all’aeroporto di Addis Abeba dove potrete imbarcarvi
per l’Italia”. Li fece salire sull’autocarro, scusandosi perché non
c’era molto spazio libero.
Dunga alzò il braccio e le salutò. Poi con una borsa di pelle
nera in mano si allontanò con i suoi uomini, risalendo la
collinetta.
La carovana di autocarri si mosse.
Le due ragazze si fidavano di quell’uomo bianco di mezza età,
un po’ grasso e calvo, con stivali e pantaloni di fustagno e una
camicia a quadri, che parlava la loro lingua. Rasserenate
alquanto domandarono se potevano scoprire il viso.
-“Ma sicuro, disse l’uomo, scusate; appena arrivati a Moyale vi
comprerò pantaloni e camicetta che potrete indossare e vi
offrirò un buon pasto. Conosco bene questa zona perché vi
svolgo il mio lavoro di commerciante di…”
Non fece in tempo a finire la frase che Nadia aggiunse
prontamente: “caffè”.
-“Si, di caffè, ma come hai fatto a indovinare?”
-“Ho tastato questi sacchi e ho capito subito che si trattava di
caffè e per giunta della migliore qualità, l’arabica. Scommetto
che viene dagli altopiani di questa terra d’Etiopia!”
-“Brava, te ne intendi davvero!” Il commerciante si girò a
guardare Nadia e sorrise.
-“Questi sacchi di caffè, confidò Nadia a Gina, davvero mi
fanno già sentire a casa. Coraggio, ce la faremo!”
Prima di arrivare ad Addis Abeba, Nadia e Gina sollevarono il
loro umore esplorando con gli occhi la natura di quell’immenso
territorio: verso occidente, dove si intravedevano i monti,
c’erano distese di tamarindi, di baobab, di sicomori, di palme;
verso oriente, un panorama più arido, dove attecchivano acacie
spinose e palme selvatiche e vicino ai corsi d’acqua e ai laghi,
anche sicomori e banani.
Dopo un intero giorno, giunsero finalmente ad Addis Abeba.
Non fu necessario entrare in città perché, evidentemente per
accordi già presi, il commerciante fece fermare il camion e
ordinò agli altri di proseguire.
Al crocevia di strade che era dinanzi a loro, da una macchina in
attesa scese un giovane signore e una donna che dissero di far
parte del corpo diplomatico italiano. I due salutarono il
commerciante con calore, dimostrando di conoscerlo già da
prima. Presero in consegna le due ragazze, disfatte per il lungo
viaggio, e, confortate dalla donna, si accoccolarono in
macchina, come se ancora si trovassero sui camion.
La notizia della liberazione di Nadia e Gina circolava in Italia
già dal giorno precedente. Incontenibile era la gioia di Elena, di
Giorgio e dei parenti di Gina, i quali poterono abbracciare le
ragazze dopo un giorno dal loro arrivo per l’espletamento di
tutti gli obblighi di legge, come accade in circostanze simili.
Accanto alla figlia, ora Elena riprendeva il coraggio e la gioia
del vivere. Ma quanto aveva sofferto! Al dolore per la sorte
della figlia si era aggiunto quello causato da persone senza
cuore e senza spirito di carità. Sui social abbondavano le scritte
ingiuriose dei benpensanti, che finivano sempre col dire: “Chi
gliel’ha fatto fare, se la sono meritata la disgrazia, potevano
restare a casa!”
Quegli insulti avevano prostrata Elena e nulla potevano le
parole di conforto di Roberto.
Ma ora era tutto diverso… Nadia sembrava un’altra persona.
Parlava con calma del suo viaggio, di ciò che aveva fatto, di ciò
che aveva visto e sofferto. Trovava il tempo di esprimere le
proprie opinioni e di confrontarle con quelle degli altri. Sapeva
dire “grazie” e “scusa”.
A Roberto, un giorno disse: “Scusami se ti ho chiamato
intellettuale da salotto. Ora so quanto sia difficile, quanto costi
il cammino. Ora so che non basta mettersi in viaggio e
cambiare posto per cercare se stessi. La salvezza bisogna
cercarla in noi stessi. E tu hai scelto questa seconda strada,
forse meno rischiosa, ma comunque estremamente valida e
apprezzabile, mentre io per orgoglio la disprezzavo. Ora ho
capito che il cielo, la terra, il mare, sono uguali dappertutto. Ciò
che conta è il guardarsi dentro”.
Il viaggio è un cammino come l’apparente cammino del sole
verso ponente per giungere a un nuovo levante, a un nuovo
giorno, a una vita rinnovata, altrimenti è un fallimento, un
andare inutile, un restare semplicemente affacciato all’oscurità
dell’oriente.