“Il bianco e il nero dell’effimero”, una raccolta poetica di Angela Bono. Recensione di Lorenzo Spurio
Angela Bono, poetessa catanese che ha un amplio palma res di riconoscimenti in importanti premi letterari sparsi su tutta la Nazione, è una grande amante e cultrice dell’arte in ogni sua manifestazione e sfaccettatura. Lo testimoniano i suoi tanti interessi (musica, arte, fotografia, poesia) e i suoi vasti e numerosi impegni anche come organizzatrice culturale. È, infatti, socia onoraria di molte realtà associative – non solo della sua Regione – e attualmente anche Presidente-Rettore dell’importante Accademia dei Poeti Siciliani “Federico II”.
In campo poetico, che è l’aspetto che qui principalmente ci interessa, dobbiamo segnalare la sua ingente e preziosa produzione poetica, sia in lingua che in dialetto siciliano (la questione sulla definizione di “dialetto” o “lingua”, per quanto attiene alla Sicilia, è intricata e segnata da dissidi irreparabili tra intellettuali e, proprio per tali ragioni, la lasciamo distante). Si è felicemente misurata anche con la corto poesia che è il nuovo genere poetico la cui teorizzazione è tutta isolana, a opera di Antonio Barracato e Dorothea Matranga, istituzionalizzata e regolarizzata da un apposito manifesto. Partendo dalla poesia, che è senz’altro uno dei suoi interessi-passioni insopprimibili, è giunta anche alla produzione di apprezzate video poesie che, com’è noto, implicano l’affiatamento coordinato e l’amalgama di contenuti visivi e sonori. Laureatasi in Pianoforte, Storia della Musica e Canto Corale, la Bono vanta una variegata produzione letteraria (è anche studiosa di poeti deceduti della Trinacria) e, per la poesia, una precedente pubblicazione dal titolo Acquadiciuri pubblicata per le Edizioni Radiusu nel 2014.
Ritorna così, un paio di anni fa, con una nuova raccolta dal titolo descrittivo de Il bianco e il nero dell’effimero. A spiegare la decisione di questo titolo sono, oltre ad alcune citazioni selezionatissime poste in apertura del volume, anche i pregevoli scatti bicromatici dell’amico poeta Antonio Barracato. Istantanee che sapientemente ritraggono scorci di Cefalù (di cui il padre della Nostra era originario), scenari da favola che si dispiegano tra ecosistemi diversi, dalla collina al mare, con attenzione anche ai ruderi di età fastose ormai andate e presenze popolari che abitano quegli spazi. Le fotografie in bianco e nero di Barracato non solo si sposano perfettamente ai contenuti delle liriche della Bono ma ne costituiscono un azzeccato complesso multisensoriale.
L’idea concettuale del volume parte dall’etimologia della parola “effimero” che ci parla di qualcosa che ha breve durata (in particolare di un solo giorno). Il dizionario – tra gli altri esempi – riporta quello degli insetti efemerotteri che, appunto, non vivono che poche ore. Questo, al di là dell’immancabile spauracchio del tempus fugit, sta a delineare la complessità dei dettagli, dei frammenti, delle porzioni minute, degli squarci e delle particolarità esperite nella loro singolarità che consente, nella complessità del sistema nel quale sono inserite e nel relazionarsi con altri contesti, di caricare di significati ampi le dissertazioni liriche della Nostra permettendole di occuparsi di varie tematiche. La sua poesia si caratterizza così per un accentuato vedutismo, per questa tendenza visiva assai procace e sempre ben alimentata collegata alle potenzialità dell’occhio. Gli scorci, talora naturalistici, altre volte all’interno del contesto urbano, che Barracato propone permettono con spiccato coinvolgimento al lettore di calarsi all’interno di quegli scenari che hanno del meraviglioso e dell’estatico.
La Bono introduce la sua opera con l’esattezza profetica di Seneca quando riporta: “Tutte le cose umane sono brevi, deperibili e occupano una parte trascurabile dell’eternità”. Una chiosa in sé lapalissiana che ha il potere di riportarci con i piedi sulla terra, mediante la sottolineatura di due aspetti inamovibili: il passare del tempo e, con esso, il deperimento dell’organico. Tema per sé non nuovo nella letteratura (si pensi ai Sonetti shakespeariani) ma che non è trattato in maniera mimetica, al contrario, le “visive” fornite rendono l’atteggiamento lirico e le intenzioni della Nostra assai pregnanti e partecipate.
Gli scenari paesaggistici che la Bono ci consegna sono molto suggestivi perché vi è una compenetrazione tra natura incontaminata e natura edilizia e fortificata di età andate che a loro volta tornano ad essere ricoperte dalla natura vegetativa che si riappropria dei propri spazi. Così troviamo: “Ruderi di castelli e templi, / pietre di perenni memorie / incastonate nell’aspra roccia, / in raccolto silenzio” e poi ancora, in un’altra poesia, leggiamo: “Arroccata sull’aspra roccia, / una maestosa torre / evoca arcane leggende, / antiche civiltà, / albe remote…”. La Sicilia è ritratta nella sua verticalità degli spazi brulli e montuosi, ben esemplificati dalla Montagna che la domina, adoperando di volta in volta ravvicinamenti e prese grandangolari, quando non istantanee ad ampio raggio, “di scena”, focalizzazioni multiple.
Ci sono poesie cariche di affetto, tra cui quella dedicata all’amorevole madre, e altre che trasudano di profonda spiritualità cristiana al punto tale da poter essere concepite anche come piccole preghiere. Il tempo dell’infanzia è ricondotto a porzioni di memoria: “Ricordi inquieti, / come cocci d’argilla acuminati, / mi squarciano il petto / di silente solitudine…” mentre la condizione di donna-madre-moglie è rivendicata con grande fierezza e determinazione: “Io, donna, / roccia che sostiene la tua terra, / acqua che appaga la tua sete. / Io, donna, / ambrosia che genera vita”.
La Nostra riflette anche su questioni di grande attualità, di vero dramma sociale, quale l’annosa questione del femminicidio, sull’incomunicabilità e la crisi psicologica causata dall’epidemia del Coronavirus (da lei definita in una poesia la “tragica diffusione globale”) il cui evento traumatico è fisso e segnato da “quella lunga colonna / di mezzi militari… / [che] trasportavano centinaia di feretri”. C’è poi l’analisi lucida sui comportamenti sciatti e deviati che predominano nel nostro oggi, considerazioni sagge (seppur scoraggianti) sulle variegate (e spesso camuffate) malvagità e gli egoismi nocivi così circolanti e diffusi. L’effimero chiama in causa quel che muta, deperisce e porta irreversibilmente a uno stato di finitudine ma individua anche lo stato (spesso assuefatto) della vulnerabilità del singolo dinanzi a una società chiassosa e disattenta, sempre più frequente dominata da polarità e storture e dove il bene collettivo rimane disatteso o viene negato.
Paradossalmente l’enigmatico Eugène Ionesco (non a caso padre del teatro dell’assurdo) ebbe a dire che “Solo l’effimero dura” e, in effetti, se pensiamo ai tanti squarci del nostro passato, alla nostra infanzia, ai momenti che abbiamo vissuto con i nostri cari (che ora non ci sono più e che non potremmo in nessun modo rivivere in forma tangibile) ci pare di averli eternamente vivi in noi, pulsanti ed energici. Sono fugacità che si perpetuano, segni concreti di una presenza continua e assidua, completamente introiettati in forma attiva. Come i chiaro-scuri che, negli aloni e zone d’ombra delle foto di Barracato, lambiscono, circoscrivono e delineano gli spazi, le presenze, i momenti che, sulla carta, vengono “fissati”.
Angela Bono, Il bianco e il nero dell’effimero, Edizioni Billeci, Borgetto, 2021.