Il Barbiere di Natale
di Rocco Boccadamo
Al che, sbocco più naturale non poteva esserci se non la mia decisione, appena sveglio la mattina del 25 dicembre, di trascurare tutto e recarmi di buonora a Niguarda, dal collega
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Nel lontano 1978, i vertici della banca in cui prestavo servizio mi affidarono la guida della filiale di Monza, città della Corona Ferrea e di Teodolinda, e capoluogo dell’opulento e dinamico comprensorio brianzolo. Tanto impegno, tanto lavoro, ma anche tanto arricchimento professionale e relazionale e tante soddisfazioni.
Restai in quella sede per oltre sei anni, sino a riuscire a guadagnarmi l’agognata nomina a dirigente, sia pure abbinata al trasferimento a Roma; dopo un biennio, dalla capitale feci ritorno a Milano, per infine spendere gli ultimi anni di servizio ancora una volta nella Città Eterna.
A occupare il mio posto a Monza, fu designato Santo F., un collega di origini siciliane ma con precedenti esperienze lavorative in varie località della penisola ed anche all’estero: sebbene avessi già sentito parlare di lui da qualche mio collaboratore, in effetti, lo conobbi personalmente giusto in occasione dello scambio di consegne. Un omone gioviale tra i quaranta e i cinquanta, alto, piazzato, capelli precocemente più bianchi che brizzolati, volto e carattere simpatici.
Cedutogli il timone della filiale, dopo, per la verità, non ebbi molte occasioni d’incontrarlo, e ciò anche in sintonia con il mio metodo di tagliare nettamente i ponti, in sostanza non riattraversandoli mai, con gli ambienti di lavoro attraverso i quali passavo e che, a un certo punto, mi trovavo a dover lasciare per trasferimento in una sede diversa. In altri termini, mediante tale impostazione, mi prefiggevo di serbare gelosamente dentro le esperienze maturate di qua e di là, senza però interferire, sia pure con semplici contatti, nel seguito operativo impresso dai miei successori. Trascorsero circa quattro anni, da Roma ero stato mandato a Milano e, quindi, facevo il pendolare da Monza, dove avevo comprato casa ed era rimasta la mia famiglia, quando anche Santo, che nel frattempo si era separato dalla moglie, terminò la sua permanenza nella città brianzola e fu trasferito, pure lui, a Milano.
Ci trovammo, perciò, a lavorare nella medesima sede e a essere compagni di viaggio in treno e in metropolitana. Ebbi così modo di conoscere di più il collega, il quale, poveretto, rimasto solo in casa e con tre figli in giovanissima età che facevano la spola tra lui e la loro mamma, doveva anche affrontare non lievi problematiche di carattere organizzativo, logistico e famigliare.
Pertanto, non mi meravigliai quando, una mattina, mi chiese di metterlo in contatto con Angelita, la signora che da molto tempo dava una mano a mia moglie: detto fatto, la preziosa collaboratrice prese a combattere sia con Rocco, sia con Santo.
L’amico, con il quale, talvolta, avevo modo di incontrarmi ulteriormente durante i fine settimana giacché abitavamo a breve distanza, potette sostanzialmente mantenere le sue antiche abitudini, ivi comprese saltuarie brevi vacanze, per battute di caccia nei paesi dell’est europeo ed eccezionalmente nel Messico.
Sennonché, in mezzo a tutto questo, fulmine a cielo sereno, una sera, mentre rientravamo insieme dal lavoro, Santo ebbe a confidarmi di aver improvvisamente scoperto un serio problema di salute, un tumore in fase avanzata al polmone, e di dover, di conseguenza, sottoporsi a un delicato intervento chirurgico per cercare di sconfiggere il male o, quantomeno, di mettere una pezza. Ricordo, anzi mi sono rimasti impressi dentro, la forza d’animo e il senso di serenità con cui Santo m’informò di quella terribile tegola; da parte mia, sebbene non sia uno che si scioglie, innanzi alle emozioni, come neve al sole, solo ad apprendere la notizia ebbi l’impressione che mi precipitasse sulle spalle una montagna.
Arrivò presto la data del ricovero del collega a Niguarda per l’operazione e volli accompagnarlo; l’intervento ebbe luogo il 23 dicembre di una trentina d’anni fa e quella sera, prima di ritornare a casa, ripassai dall’ospedale per informarmi, dal figlio primogenito Alessandro, su com’era andata. Seguì una vigilia di Natale dallo strano sapore e completamente diversa dal solito, trascorsi la mezza giornata al lavoro, il pomeriggio, la cena in famiglia e la Messa di mezzanotte nel convento dei frati cappuccini, con dentro un’atmosfera triste, il pensiero fisso a Santo, in quel grande ospedale, da poco uscito da una sala operatoria.
Al che, sbocco più naturale non poteva esserci se non la mia decisione, appena sveglio la mattina del 25 dicembre, di trascurare tutto e recarmi di buonora a Niguarda, dal collega. Mi sembrò quello il primo e fondamentale augurio da porgere. “Come sta papà?”, chiesi subito ad Alessandro. “Benino, anche se di tanto in tanto si lamenta un poco”, la sua risposta.
Mi feci prestare e indossai la mascherina per entrare negli ambienti sterili e fui subito al capezzale di Santo. Mi sorrise, soprattutto si sforzò di farlo con gli occhi nel vedermi e sentendomi dire “Buon Natale”.
Notai che gli era rimasta la barba lunga, ovviamente, di due giorni e di fronte a ciò, per la prima volta, mi si accese una lampadina e mi offrii di radere il collega, non senza precisargli che non avevo mai fatto una roba del genere. Sul suo volto apparve una strana commistione fra ghigno preoccupato e sorriso, ma senza altre chiacchiere l’opera del barbiere iniziò e, in modo o nell’altro, andò a termine.
Seguì qualche sprazzo di conversazione scherzosa e poi il commiato, un timbro indelebile su quella cartolina di Natale.
Trascorse poco più di un anno dall’intervento, Santo, in effetti, pur apparendo in condizioni discrete, non si riprese mai; le consuete, dolorose trafile delle terapie, le sofferenze, i dolori che per lunghi periodi lo costringevano a letto, appena qualche breve intervallo per rapidi soggiorni, auspicati rigeneranti, in montagna e qualche passeggiata fra due amici e colleghi vicini di casa.
A stare accanto a Santo, in via permanente, arrivò da Giarre, Sicilia, la vecchia madre, la signora Maria, della quale, in occasione delle visite all’amico, apprezzai subito le spiccate doti di premura, gentilezza e amorevolezza, che solo una mamma vera riesce a evidenziare.
Purtroppo, le cose precipitarono in breve volgere di tempo e, in un freddo gennaio o febbraio, non rammento più esattamente, Santo arrivò sulla cima del suo calvario. Gli stetti vicino sino all’ultimo, in quella clinica privata, dove chiuse gli occhi, nella fredda sala mortuaria, nella chiesa prossima alle nostre case per il congedo.
Per sua volontà, Santo ritornò in polvere e toccò al suo primogenito Alessandro – il quale, nel frattempo, grazie anche alle mie vibrate insistenze, era stato assunto dalla banca – di far volare la piccola urna verso il cimitero di Giarre, affacciato sul mare, lasciando il mio amico a godersi la visione che, specie d’estate, aveva tanto amato.