Il 3 giugno di cento anni fa moriva Kafka. Tra l’assurdo e il tragico la fine è indecifrabile
Pierfranco Bruni
Kafka è sentiero tra l’incipit e gli orizzonti in una memoria indefinibile e indefinita. Il gioco parte dalla fine e non dall’inizio. Un assurdo terribile che lega la vita al morire. Kafka non credette nella ragione. Camus la rinnegò. Il destino avvolse Sgalambro.
Ci troviamo in un “chiaro di bosco” e il tempo si consuma pensando di viverlo nel profondo sapendo, comunque, che nel bosco si può incontrare l’assurdo. Dal bosco si esce. Dall’assurdo si può passare, in un attraversamento di metamorfosi, al tragico. È proprio questo tragico, che gli occhi caduti nel buio, catturano. È tragico e assurdo il cammino di Kafka. Dentro il castello i corridoi diventano labirinti.
Può esserci l’attesa o la morte, l’attesa disperante o il limite. Kafka però non conosce il limite. Ma quale personaggio si ferma davanti al limite? Bussano alla coscienza e il proprio io si sente di aprire. E se non si aprisse? Si andrebbe oltre. Abbiamo dentro di noi sempre un oltre che scava nel senso di rivolta che Camus ha dipinto con la matita dello straniero e della solitudine. Di solitudine è fatta l’isola. Quella che marcisce come il pensiero sgalambriano. L’isola è nelle parole. Quando le parole marciscono è il pensiero che va in rovina. Parole e pensiero sono una “nausea” che ci rende “misantropi” (Sgalambro). Essere isola è essere estranei? Kafka è un sottosuolo impetuoso dentro la malinconia del vivere. Camus è una rivolta incompiuta. Ma entrambi sono una disperante dissolvenza. Di cosa? Della fuga.
Si tenta la fuga ma si resta sempre la classica che misura i due tempi. Quello interiore e quello dell’orologio. Kafka conosce sia l’uno che l’altro. Si affida al destino. Camus fa del tempo una epistemologia della ermeneutica. Ma sono intercettati dal destino. Sgalambro fa della filosofia un destino da caverna. Il mito greco è una gravitazionale della variabilità del tempo. Kafka resta nel tempo senza mai confrontarsi con una legge teologica o religiosa che è la speranza. Camus cerca l’uomo primo nell’ultimo uomo che possa ancora definirsi tale ma precipita in quei demoni che lo attraverseranno sempre. Ma i demoni sono anche in Kafka. Si chiude nel silenzio o nel suono un topino che sembra che canti. Sgalambro ha però il destino scavato nello sguardo perché è uomo greco. Camus è mediterraneo. Kafka è austroungarico. Il silenzio comunque è la voce di un destino che coglie come foglia al vento o come vento che solleva la polvere. In Kafka non c’è il mito tranne il codice della kabala ebraica. In Sgalambro e Camus è proprio il mito che si dichiara ed è quello gogiano nel primo e delle acque algerine nel secondo. Si nasce nel destino come di nasce in un territorio. Questo nascere volente o nolente resta nella carne. Anche se si lotta per scrollarsi di dosso una eredità è lei, l’eredità, che non ci abbandona.
È il travaglio del nascere sapendo che già si entra in un tramontare. Nietzsche lo sapeva bene come lo sapeva Kafka nel momento in cui scrive la “muraglia cinese”. Il destino è il tempo che è fatto di età ci direbbe Sgalambro. Sotto il sole che si riflette in una lama di coltello è scritto il destino. Insomma veniamo violati dal destino e il violare è un velare la realtà. La realtà è estranea al tempo stesso. Scompare immediatamente in ciò che verrà l’istante dopo. La morte è realtà. Ma noi che coscienza abbiamo della morte? O meglio che coscienza della conoscenza possiamo avere. La morte non è quella che vediamo in un corpo freddo. È quella nostra. E non la conosciamo. Non sappiamo nulla. Il fatto di non sapere come e quando moriamo è un indecifrabile destino.
Anche Kafka non poteva prevedere come è morto. Si pensi a Camus che il destino lo colse come ironia del morire. Possiamo superare tutto tranne il nostro stesso morire. Josepf K. aveva previsto che sarebbe morto accoltellato? Neppure Kafka quando comincio a scrivere il suo romanza poteva immaginare questa fine incompiuta. Dunque? Il destino è illeggibile fino a quando in ognuno di noi non si sfalda o non si rivela. Ma di rivela quando noi non esistiamo più. Poi tutto sarà risolto. È questo non è un assurdo? Un paradosso? Un tragico? Allora siamo tutti dentro un bosco. Non bisogna cercare il chiaro, ci ha insegnato Zambrano, ma attendere. L’attesa porterà alla salvezza. Ma non è detto che porterà alla verità. Non si può cercare. La verità è nel destino. Anche cercando in tutti i nascosti dell’universo non troveremo mai il destino nonostante il processo di Kafka e la caduta di Camus. Veniamo processati perché siamo dei caduti. E il precipizio ci dà il senso, in fondo, che marcisce anche il pensiero. Siamo nel bosco. Dunque. Cosa si fa?