I piccioni, nel palummaru dell’Arciana e secondo il racconto del ciabattino
Racconti salentini di Rocco Boccadamo
Costeggiando e tenendo a manca la civettuola villetta con fontana a zampillo di Piazza della Vittoria, sorta nello slargo già denominato “Campurra”, che, sino a cinquantacinque/sessanta anni fa, era in parte occupato dalla cappella di S. Giuseppe e, per il resto, fungeva da campetto alla buona per giocare al calcio, s’imbocca via Giuseppe Parini che, in sostanza, delimita, in quel senso direzionale, il vecchio centro abitato di Marittima. Una volta superato l’incrocio con via Murtole, recente nastro d’asfalto su cui si affaccia uno sparuto numero di costruzioni, segnando in prevalenza, d’ambo i lati, i confini di fondi agricoli, inizia la cosiddetta via vecchia per Andrano. Il primo appezzamento di terreno che scorre sul relativo versante sud è storicamente denominato “Arciana”, accezione di significato sconosciuto, almeno per lo scrivente, contraddistinto, lungo il confine con la strada, da un’infilata di bellissimi, datati e svettanti pini, dagli ampi cappelli di verde che sembrano sfiorare, insieme, sole e cielo.
Quasi al centro della “Arciana”, si erge una solida e massiccia torre colombaia (in dialetto, palummaru), per stagioni secolari in funzione di rifugio, in pratica casa e nido, grazie alla ragnatela di cellette incollate ricoprenti l’intera estensione interna delle pareti cilindriche, di nutrite colonie di colombi o piccioni. Nei tempi andati, tali volatili abitatori si annoveravano, a buon titolo, fra gli animali domestici o da cortile, seppure allevati in libertà e a campo aperto senza reticolati, il loro nutrimento consisteva unicamente in semi, erbe, insetti, larve, frutti sui rami o avanzi dei medesimi caduti sulle zolle rosse, davano carni assolutamente commestibili, anzi di particolare leggerezza, digeribilità e pregio. Sicché, di frequente, finivano con arricchire la tavola delle famiglie abbienti, benestanti. Inoltre, anche da parte dei nuclei comuni e poveri, non si mancava d’acquistare almeno un esemplare di colombo, allo scopo di preparare un brodo e una pietanza speciali per le puerpere: piccolo segno di festa in ogni grande evento, quale, al paesello, era considerato l’avvento di una nuova nascita.
I ragazzini della metà del ventesimo secolo, fra i quali il sottoscritto, avvertivano sin da lontano il vociare dei pennuti del palummaru, risuonante a guisa di un coro, una successione di uhù, uhù, uhù…, che, nel sentire e nella suggestione di quelle individualità infantili e ingenue, s’interpretava come Gesù, Gesù, Gesù…, la qual cosa incuteva sprazzi di timore, se non di vera paura.
Oggi, purtroppo, degli antichi, familiari e domestici colombi, non residua alcuna traccia, sulla cinta di copertura e nelle cellette del palummaru si aggirano sparuti esemplari di piccioni che, già osservandoli a distanza, danno l’idea d’essere come spaesati, imbastarditi, identici, o quasi, a quelli presenti in abbondanza fra i condomini e negli spazi delle città, che, però, non rendono più alcun contributo utile alle mense, anzi nessuno si azzarderebbe a mangiare la loro carne; al contrario, creano problemi, giacché, con i loro escrementi, imbrattano, su scala diffusissima, edifici, monumenti, chiese, balconi, cortili, inferriate, al punto da far sorgere una linea di produzione, un mercato di aggeggi, marchingegni dissuasori e ritrovati vari anti colombi.
Adesso, com’è noto, si vive in un ambito, una sorta di cornice, di globalizzazione di portata planetaria e, invero, non si fa che parlarne e porre l’accento a ogni piè sospinto tale realtà che avrebbe rivoluzionato tanti aspetti, lo stesso metro esistenziale e d’abitudini. Tuttavia, il concetto di coinvolgimento collettivo e d’interazione allargata non è un’autentica novità, si manifestava nei fatti e nelle azioni concreti, pure nel secolo e nei decenni trascorsi. Ad esempio, le comunità di Marittima, Diso, Castro e Andrano, sebbene si trovassero divise da qualche chilometro di distanza e collegate da arterie strette, sconnesse e martoriate dai solchi dei traini, erano sfere di scambi e d’incroci di frequentazioni, scenario reale e antesignano di piccole globalizzazioni inter paesane, in seno agli abitanti ci si conosceva in molti. E ciò era, già di per sé, bello.
Si snodavano minuscoli cortei umani, sullo stimolo di devozioni religiose, ma, parimenti, alla ricerca di divertimenti, svaghi, incontri e così via, ogni domenica e, particolarmente, in occasione delle feste patronali. Il giorno d’oggi, sembra un paradosso eppure, nonostante la disponibilità e la diffusione in termini massicci, di mezzi di comunicazione e di contatto, raramente sono vissuti e alimentati effettivi e personali tratti di frequentazione e reciproca consuetudine al di fuori dei confini comunali o della singola, propria località e comunità.
Eccezione, in confronto al quadro della realtà così radicalmente evolutasi e mutata, ad Andrano, permane verde un “pezzo d’antico”, un riferimento desueto, nella persona di un artigiano, meglio dire un calzolaio, maestro Dante, classe 1930. Egli incarna, oltre che l’operatore tradizionale al desco da ciabattino, il gestore di un’utile bottega, anche l’animatore e la voce di un minuscolo ma attivo salotto vecchia maniera. E’ originario di Diso, maestro Dante, dove ha esercitato il solito mestiere in collaborazione con il padre sino alla prima giovinezza, servendo una vasta clientela sia a Diso, sia e soprattutto nella più popolosa frazione di Marittima, intessendo intense conoscenze in special modo con le famiglie di ceto medio elevato, le quali, chiaramente, meglio potevano permettersi d’ordinare calzature di pelle e cuoio di manifattura spiccatamente artigianale. Sposatosi, si trasferì in Andrano.
Adesso, maestro Dante, di scarpe nuove ne confeziona poche, mentre è impegnato da una buona domanda d’interventi di riparazione su calzature moderne, non necessariamente di cuoio e pelle, ma, anche, di para, plastica e stoffa: il ciabattino sopravvissuto è in grado di porre rimedio un po’ a tutti i leggeri e gravi deterioramenti. Da quando ho fatto ritorno nel Salento, anch’io sono divenuto cliente di Maestro D., in proprio e ancor più per conto di mia figlia, la quale vive e lavora all’estero, ma, in occasione dei saltuari weekend e/o vacanze da queste parti, non manca mai di portarsi appresso qualche paio di scarpe per l’amico artigiano. Interessante si rivela che, a ogni accesso alla bottega di Maestro Dante, si ha agio di apprendere un fatto, o ricordo o racconto inedito.
L’altro giorno, al mio accenno che per raggiungere Andrano in motorino ero passato davanti alla “Arciana” e al “palummaro”, il calzolaio ha prontamente fatto notare che quel fondo, in anni lontani, è stato per lui un abituale territorio di caccia. Già, perché lo sport venatorio ha rappresentato da sempre la sua principale passione. Difatti, fece domanda per il rilascio del porto d’armi a diciotto anni, all’epoca ancora minorenne e, perciò, con la necessità dell’assenso paterno; dovette versare una tassa di concessione governativa di 1300 lire e acquistare marche da bollo per altre 850 lire. L’agognato porto d’armi giunse in prossimità del Natale 1948 e maestro Dante, ansioso di toccar con mano il tanto sognato permesso, si spinse addirittura a fare pressioni sul Sindaco, in modo che la pratica fosse perfezionata a stretto giro. Osservazione di quel primo cittadino: “Maestro Dante, ma proprio in questi giorni di Natale è atteso l’arrivo di tanti…piccioni?”, laddove non mancava una chiara, maliziosa allusione a bersagli tutt’altro che volatili.
Maestro Dante acquisto il suo primo fucile, usato, per 17.000 lire, dopo di che, per la messa a punto e previa prudenziale richiesta e ottenimento di un preventivo di spesa pari a ulteriori 14.000 lire, gli toccò d’inviare l’arma a una famosa casa di produzione del bresciano. Per maggiore garanzia, maestro Dante preferì rivolgersi al più lontano e costoso indirizzo e non far capo a un artigiano d’Andrano, tale “Rondone” di soprannome, un autentico genio, il quale costruiva e affilava falci per lavori agricoli, ma sapeva anche costruire, riparare fucili, avancariche eccetera. Prova ne è che, emigrato a distanza di tempo in Lombardia, si occupò in una grande azienda del settore, svolgendo il compito d’istruttore dei giovani operai.
Ritornando al tema delle sue conoscenze e dei rapporti dei tempi passati, maestro Dante mi ha chiesto notizie sugli eredi di una determinata famiglia del mio paesello, non senza regalarmi la chicca della notizia che, nel momento della dipartita, intorno al 1950, del capo della medesima famiglia, gli fu ordinato e, insieme con il padre, dovette confezionare lavorando anche la notte, un paio di scarpe in capretto. Un cult, frutto della volontà e della speranza dei congiunti, di poter così rendere comodi e leggeri i passi del viaggio del loro caro, con traguardo l’aldilà.