I giorni del fuoco di Maria Gabriella de Judicibus
Non tutti sanno ( specialmente tra i più giovani) che il Carnevale è una festività molto antica e legata profondamente alle radici agricole del nostro territorio.
Anticamente febbraio, infatti, era il mese dei cosiddetti riti di purificazione, tenuti in onore del dio etrusco Februus e della dea romana Febris, nomi che rammentano l’etimo del verbo latino februare che significa proprio “purificare” e che si collegano con la necessità di ingraziarsi i defunti al termine dei lavori nei campi, dopo la vendemmia e la raccolta delle olive, prima del momento in cui la madre terra deve riposare per prepararsi al passaggio dall’inverno alla primavera.
Durante il periodo denominato attualmente del Carnevale, quindi, nell’antica Roma si celebrava la fertilità della terra attraverso feste dedicate agli dei agresti come i Saturnalia dedicati al dio Saturno o le Dionisie greche, in onore del dio Dioniso ( Bacco per i latini), dio del vino e dell’ebbrezza. Le feste saturnali erano inserite, infatti, in un contesto più ampio di festeggiamenti detti Brumalia dedicati anche alla dea Cerere ( Demetra) dea del grano e del pane, propiziatrice del buon raccolto. Le “baccanti” erano fanciulle discinte, con il capo adorno da spighe di grano e tralci di vite che danzavano fino a stordirsi e diventavano licenziose nello stordimento del vino: Semel in anno licet insanire , dicevano i padri latini, con una frase che ben si adatta anche al Carnevale moderno, ovvero Una sola volta all’anno è lecito darsi alla follia!
Poiché Saturno era l’antico dio dell’età dell’oro, in cui tutti vivevano felici ed uguali godendo di ogni prelibatezza che la terra copiosamente donava ai suoi figli, durante i Saturnalia, si onorava Saturno con banchetti e balli offerti dai più ricchi e potenti che acconsentivano, durante la festa, al sovvertimento dell’ordine sociale e delle gerarchie, accettando di azzerare le differenze sociali, mescolando razze e religioni, in chiave scherzosa e dissoluta. Così la plebe più miserevole poteva trasformarsi per una volta in ciò che desiderava essere, e servitori e schiavi potevano sentirsi uomini liberi ed eleggere un proprio Princeps , con pieni poteri, facendo la caricatura della classe dominante.
Travestito con costumi adatti e con il volto coperto da una maschera, egli poteva impersonare una divinità degli inferi , Saturno o Plutone, preposta alla custodia delle anime dei defunti e protettrice dei raccolti. Era opinione comune, infatti, che queste divinità vagassero sulla terra per tutto il periodo invernale, ovvero quando la terra era a riposo, e che i riti e le offerte servissero a farle tornare nell’oltretomba, favorendo così il raccolto della stagione estiva. Finito il periodo di festa, l’ordine veniva ristabilito.
I festeggiamenti maggiori del Carnevale moderno, avvengono il Giovedì ed il Martedì, giorni definiti “grassi”, in quanto sono l’ultimo giovedì e l’ultimo martedì prima della Quaresima, periodo in cui bisogna fare penitenza ed eliminare ogni cibo succulento dalle tavole imbandite.
Una costante del carnevale, infatti, è proprio la penitenza che segue alla sfrenatezza della festa; è questo il significato più profondo del carnem levare e cioè fare a meno della carne nel periodo della Quaresima.
Importante corredo delle feste carnevalesche fin dall’antichità era ed è, ancora oggi, la maschera.
La maschera, d’altronde, era legata alla tradizione teatrale comica e tragica dell’antichità. Utilizzata fin dalla preistoria per rituali religiosi, la parola sembra di origine preindoeuropea, da masca «fuliggine, fantasma nero», non lontano dal significato attribuito al termine dal latino tardo e medioevale màsca, “strega” (significato in cui è attestato nell’editto di Rotari: «strigam, quod est Masca»), tuttora utilizzato in tal senso nella lingua piemontese ma anche nel dialetto salentino mascia.
Si trova traccia dell’origine del termine nell’antico alto tedesco (leggi longobarde) e nel provenzale masc, “stregone”. Dal significato originale si giunge successivamente a quello di “fantasma”, “larva”, aspetto camuffato per incutere paura. L’evoluzione linguistica portò probabilmente all’aggiunta di una ‘r’ facendo assumere al termine la forma dapprima di mascra e successivamente di mascara. E’ interessante anche la derivazione dell’etimo dalla locuzione araba maschara o mascharat, “buffonata”, “burla”, derivante dal verbo sachira, “deridere”, “burlare”, importata nel linguaggio medievale dalle crociate. Tuttavia tale vocabolo è già presente in alcuni testi anteriori alle crociate. Il Dizionario etimologico italiano di Carlo Battisti e Giovanni Alessio lo riconduce al termine baska da cui abbiamo il verbo francese rabacher nel senso di “fare fracasso”. In un modo o nell’altro, la maschera è una falsa identità, sia essa utilizzata per incutere paura o per divertire.
Virgilio descrive le maschere indossate in onore di Bacco, in un clima celebrativo gioioso e spensierato, come “ora horrenda” e la relazione fra maschera e morte si accentua nell’ambito dei culti misterici romani ed ellenici. La maschera di Sileno, ad esempio, diviene uno dei simboli per eccellenza della morte iniziatica (cfr. affreschi della Villa dei Misteri a Pompei); all’interno del contesto greco-romano possiamo così ritrovare l’interrelazione fra sacro e profano, attuata per mezzo dell’uso teatrale della maschera. Nel Salento e, in genere, nell’area meridionale, sono antichissime e molto note le cosiddette maschere con funzione apotropaica (dal greco αποτρέπειν, apotrépein = “allontanare”) atta ad allontanare gli influssi maligni. Spesso usate come elemento decorativo, si possono trovare sui portali in tufo o granito delle abitazioni, sui portoni principali a fare da battente e sulle fontanelle d’acqua sorgente. Specialmente quelle con le corna lunghe, la bocca aperta e la lingua di fuori nella tradizione popolare sono efficacissimi amuleti contro gli invidiosi, in grado di spaventare gli spiriti del male e di provocarne la fuga.
Maschere tipiche della tradizione salentina sono Tidoru e Paolinu, ma soprattutto sciacuddhi masci e caremme.
Lu sciacuddhri è la maschera tipica del Carnevale Aradeino e rappresenta un famoso spiritello alto un palmo e mezzo con tanto di ventre e di cappello largo e “pizzuto” che nella fantasia popolare aradeina, la notte si accoccola sul petto degli uomini e delle donne prese di mira. Un folletto che è chiamato con nomi diversi a seconda delle zone nel nostro Salento (uru, scazzamurrieddhu, lauru, laurieddhu, municeddhu,ecc.).
Cicinella, personaggio lesto e scaltro, è la figura simbolo del Carnevale di Cursi. Il suo fantoccio dà inizio ai festeggiamenti e sempre a lui, è dedicata la lunga sfilata di carri e maschere.
Mielina è la maschera tipica della festa di Melendugno, Paolinu ( per Copertino e Lecce) e Tidoru o Titoru
( per Gallipoli) sono poveri popolani vestiti di stracci ma arguti, spiritosi e assidui frequentatori di osterie. Si racconta che morirono il giorno di Carnevale a causa di una indigestione dovuta ad una abbuffata dopo diversi giorni di fame. A Lecce si celebrava il processo, la condanna a morte per bruciamento e /o il funerale con pianti e lamenti da parte delle mascie , donne vestite di nero, in parodia delle cosiddette prefiche, pagate per piangere ai funerali come nella tradizione salentina.
Alla caduta dell’Impero romano, nel periodo di passaggio tra mondo antico e mondo moderno, il Carnevale ebbe alterne vicende: il periodo consacrato alle feste ed alla goliardia venne spostato da dicembre a febbraio, in modo che la Chiesa potesse collegarli con la Quaresima (i quaranta giorni che precedono la Pasqua). Il clero, infatti, riteneva necessario rallegrare gli animi prima della tristezza del periodo quaresimale. I giullari e i clerici vagantes ovvero studenti che passavano da una sede universitaria all’altra, spronavano il volgo, oppresso dallo strapotere dell’aristocrazia e dilaniato dalla rivalità tra imperatore e papa, a esprimere, attraverso la parodia, il rovesciamento dei valori correnti, della serietà e autorità del potere politico e religioso e delle sue leggi, affermando un “mondo alla rovescia” che sosteneva le ragioni materiali e corporali contro quelle spirituali dominanti e che darà vita ad una vera e propria letteratura carnevalesca.
Le rappresentazioni buffonesche del “mondo alla rovescia”parodiavano le cerimonie e i riti civili della vita di ogni giorno, dalla proclamazione dei nomi dei vincitori di un torneo cavalleresco, alla cerimonia per la concessione di diritti feudali, fino alla vestizione di cavalieri con la partecipazione di buffoni e teatranti che parodiavano tutti i momenti del cerimoniale serio. Durante le feste ufficiali, infatti, le differenze gerarchiche erano mostrate in modo evidente: in esse bisognava apparire con tutte le insegne del proprio titolo, grado e stato e occupare il posto assegnato al proprio rango. Al contrario, nel Carnevale medioevale si ripeteva ciò che era tipico del mondo antico: tutti, in questo periodo, erano considerati uguali e per le strade e nelle piazze si respirava l’ebbrezza della libertà, del sentirsi alleviati dalle barriere insormontabili poste dalla propria condizione sociale , dal possesso di ricchezze o dalla povertà più assoluta, perfino dal sesso, dall’età o dalla condizione civile di celibi, nubili o coniugati. Di probabile origine medioevale è anche il domino una maschera costituita d un lungo e largo mantello con cappuccio di colore nero ( ma anche rosso o bianco) simboleggiante il demonio, ovvero il signore ( dominum) delle tenebre e della morte. Nel Rinascimento fiorentino i festeggiamenti carnascialeschi coincidono con il celebre componimento di Lorenzo de’ Medici “ Il trionfo di Bacco e Arianna”, splendida canzone a ballo scritta in occasione del carnevale del 1490, celebrazione della giovinezza e dei piaceri della vita, nonché invito a godere dell’amore e delle altre gioie terrene quando ve ne è ancora la possibilità.
La canzone allude ad una sfilata in maschera che segue il “carro” di Bacco ed Arianna, tradizione ancora viva nel Carnevale di diverse cittadine italiane famose per i propri carri allegorici, parodie dei tempi moderni con figuranti in maschera che sfilano su mastodontici carri come a Viareggio, a Putignano, a Gallipoli. Le maschere apocotropaiche, i folletti dispettosi ( laurieddhi) , le streghe ( macare), gli orchi ( lu nanni orcu) sono tornate a Lecce e hanno sfilato a Venezia grazie alla pro loco cittadina ed ai suoi straordinari artisti ed artigiani come l’attrice e musicologa Deborah De Blasi e la make up artist Ida Collabolletta.