“I fratelli Giordanella” un racconto di Vincenzo Fiaschitello
di Vincenzo Fiaschitello
Il commissario Valentina Spanò era appena entrata nel suo ufficio, quando sentì squillare il telefono: ”Buongiorno, dottoressa, sono il questore. La informo che non è più necessaria la relazione che le ho chiesto ieri. Il caso è ormai del tutto chiarito. Vorrei approfittare, piuttosto, per invitarla domani sera alla festicciola con un gruppo di amici in occasione del mio compleanno. Avrò anche il piacere di salutarla e
brindare con lei, visto che fra qualche giorno non sarà più dei nostri. Ma io non riesco a capire come lei abbia voluto lasciare la nostra grande e bella Milano per un piccolo paese sperduto della Sicilia. A proposito come si chiama? Non riesco mai a ricordarlo!”
-“Castelvago, signor questore! Castelvago…”
-“Ah, sì certo, Castelvago. Ma cosa farà laggiù, abituata com’è ormai a trattare con i mascalzoni di qua?”
-“Ne troverò degli altri, signor questore, e forse anche più agguerriti!”
-“Contenta lei! Ha fatto bene a convincere l’agente Rocco Patanè, suo conterraneo, a fargli chiedere il trasferimento. E’ un ottimo elemento, se è riuscito in sei anni di permanenza a Milano, a fare il suo dovere di agente e a studiare fino a conseguire la laurea. Bene, bene! Allora l’aspetto domani sera alle otto.”
-“Grazie, signor questore. A domani.”
La dottoressa Spanò, con un abito semplice ma elegante, brillava in mezzo a quegli uomini per lo più attempati, grassi e calvi, accompagnati da mogli ingioiellate e incipriate. La sua giovinezza e avvenenza veniva sottolineata dagli sguardi controllati di quei mariti, che sentivano alle spalle la presenza ingombrante delle mogli. Pure le parole di ammirazione giungevano all’orecchio del commissario senza alcun risparmio. Erano tutte parole di compiacimento per la sua persona e di rammarico per la sua partenza. La dottoressa sorrideva a tutti, alzava il bicchiere per brindare e, con piacevolissimo gesto della persona, si allontanava per parlare con le signore.
Quella gente non poteva immaginare quel che pensava la dottoressa Spanò: “Ecco uno stuolo di evasori, imprenditori, avvocati, costruttori, trafficanti, tutti da arrestare! Che simulatori! Guarda quel tizio con la pancia, gli occhi rotondi che quasi gli scappano dalle orbite. Lo immagino bambino con il lecca-lecca o con il bastoncino dello zucchero filato. Che buffo! Sciolgo, infine, questo periodo della mia vita. Successi
pochi, insuccessi tanti! Vado, parto, lascio la città immensa, questa gente tirerà un sospiro di sollievo, a cominciare da quel falso e melenso questore che ogni volta che entro nel suo ufficio mi fa la ruota come un gallinaccio. E tuttavia un cane, che se ti pesca in fallo, è pronto ad azzannarti. E’ meglio fermarmi qui, non vorrei andare oltre con i miei pensieri: dovunque compromessi, favoritismi, inviti a bendarti gli occhi.
D’altronde è un sintomo del tempo. Non vorrei più sentire di raddrizzare i miei pensieri, a loro dire, rovesciati”.
La serata finì con i saluti, i sorrisi e le promesse di rivedersi.
Qualche giorno dopo la dottoressa Spanò lasciò Milano per raggiungere la sua nuova sede di servizio: Castelvago. Rocco Patanè già da circa due mesi si trovava a Castelvago e nel corso di varie telefonate aveva rassicurato il commissario, dicendo che l’ambiente era più che tranquillo. Ma il fato volle che all’arrivo della dottoressa Spanò accadesse un caso molto complicato, che risaliva a una vecchia storia di oltre venti anni prima di cui le cronache del tempo avevano a lungo dibattuto.
Luciano Giordanella, uno dei due protagonisti della storia, da venti anni viveva in montagna, senza che nessuno conoscesse la sua identità. Dal suo rifugio, la sera spesso guardava le stelle; provava a contarle, le più luminose, e dopo un certo numero si limitava a dire: più una, più una, più una. Il vento scendeva dalla colline, sfiorava le sue guance umide, correva verso i tetti delle case del paese addormentato. Tutto attorno era quiete profonda, il sonno era dentro le crepe dei muri, dentro la corteccia degli alberi traforata dai picchi, instancabili durante il giorno, dentro gli steli reclinati di due fiori che sembravano abbracciarsi; solo sui suoi pensieri il sonno volava alto e dondolava come una luce dalla quale essi tentavano di ripararsi, fuggendo, divincolandosi e attorcigliandosi fra loro.
-“Sento passi e respiri, così pensava Luciano, sparsi al vento della notte. Chiusa è la mia carne da vent’anni tra queste rocce, testimoni di una vita assente, di una vita che da così tanto tempo non c’è per il mondo intero per assurda vendetta. Verrà qualcuno! Qualcuno verrà e mi toglierà questo esterno di vita insopportabile, bagnato di odio e di paura. Perché così a lungo, cielo, mi hai celato la verità? Potevo essere Abele, il fratello buono, umile, ubbidiente e sottomesso, e scelsi invece di essere Caino per paura e per vendetta. Venti anni di carcere ho regalato al fratello, che lui, sì, dichiarò di essere Caino, ma poi le circostanze ne fecero un Abele e tutta la pietà si riversò su di lui. In autunno, quando soffia il vento, io so che le foglie parlottano fra loro. Tutte lamentano che vengono meno le forze e che presto si lasceranno
andare dai rami. Si dicono che debbono morire. A me il vento riempie il vuoto che la coscienza ha scavato dentro e svela tormenti prima di dormire. Sento di essere vivo solo perché negli altri vedo il mio vivere. Tu, gallo canterino, al mattino sveglia il mio debito verso la vita di mio fratello, la tua voce che esce dall’alba mi aiuti a ricordare che sono sempre io, lo stesso di allora, quando concepii il delittuoso inganno. Quel giorno, donna, soffrivi forse di solitudine, entrando nella mia camera. Sognavi carezze che non potevo darti. E la tua veste portava il profumo d’erica, l’odore della terra e degli alberi. Eri tutta nel sorriso del tuo viso, nella voce e negli occhi che stringevano sguardi di passione. Le tue parole non furono
dissimili da quelle che un giorno udì il Nilo e che fecero scaturire la giusta ira di Putifarre, l’ufficiale del Faraone. Tu, respinta, accusasti me, il cognato. E la calunnia aprì la strada all’odio e alla rovina. A scatti si è fatta avanti questa mia vita cancellata dal registro dell’esistenza, ripiegata e nascosta tra questi arbusti e rocce, dove prima arrivavano solo le capre di massaro Cannata. E’ per suo merito se con altro volto e altri
occhi ho potuto continuare per tanti anni ad abitare questi luoghi selvaggi”.
Ora Luciano Giordanella era deciso a fare il gran passo.
-“Massaro, voglio tornare a vivere nella comunità!”
Massaro Cannata, che in quel momento stava mungendo una capra, con un calcio rovesciò il recipiente del latte e assestò un violento pugno sul dorso della capra, che fuggì via spaventata. Poi si sollevò di scatto e andò con gli occhi quasi fuori dalle orbite verso Luciano Giordanella:
-“Ma che vi passa in testa? Siete impazzito? Quale comunità? Voi lo sapete che da venti anni siete bello che morto. Voi non avete nessuna comunità, siete uno sconosciuto.”
-“Avete ragione massaro Cannata, ma io qui non resisto più. Non è solo il rimorso che mi perseguita, ma anche questa nuova vita che mi avete cucita addosso. Sento tutta la contraddizione tra quello che sono costretto a dire alla povera gente che sale fin quassù per chiedermi conforto e consigli, come a un santo eremita, e quello che veramente sono, uno che si porta dentro il peccato di una vendetta terribile.”
-“Non ci pensate Giordanella, questa vita vi è andata bene per vent’anni, avete avuto cibo, vestiario, tutto il necessario,sicurezza e segretezza. Ed ora, tutto a un tratto, vi svegliate con questa smania di tornare in comunità. Sappiate che così facendo mi rovinate: la gente che è salita fin qui per vedervi e ascoltarvi
ha sempre portato, come si conviene, una buona elemosina. E ora tutto questo ben di Dio verrebbe di colpo a cessare. E poi, sappiate che questo è il momento più sbagliato per comparire in paese. Avete saputo che vostro fratello ha finito di scontare la pena per il vostro delitto e proprio domani uscirà dal carcere? Non avete forse l’intenzione di presentarvi e farvi riconoscere? Certo non vi darebbe il bentornato, ma una coltellata al cuore!”
-“Massaro Cannata, pensatela come volete, ma io ho già deciso. Domani stesso andrò in paese.”
Massaro Cannata non replicò, gli voltò le spalle, si toccò i capelli bianchi con una mano e poi rientrò nella sua baracca. Il mattino seguente, Luciano Giordanella si alzò presto. Aveva cambiato aspetto: tagliata la lunga barba, messe da parte la veste scura e la rozza corda che gli cingeva i fianchi, indossati un paio di pantaloni, una camicia e una giacca che qualche tempo prima massaro Cannata gli aveva regalato, sembrava un’altra persona, un uomo comune che non differiva da tanti altri. La casa penale di Castelvago, che nel passato era stata un enorme convento francescano, sorgeva al centro del paese. Tutto intorno vigilavano a turno, notte e giorno, quattro guardie che ai vertici del lungo rettangolo, avevano le loro garitte dove rifugiarsi in caso di pioggia o di freddo. Di solito percorrevano su e giù il marciapiedi, accanto alla gente che passava e alle macchine. Le grate di ferro che proteggevano le finestre delle
celle non avevano le persiane, per cui i detenuti potevano con lo sguardo partecipare alla vita che si svolgeva intorno al carcere. Era una occasione per alleviare in piccola parte il dramma della perduta libertà, soprattutto quando si svolgevano feste, fiere e altre iniziative simili. Qui, Salvatore Giordanella scontò, dopo i dieci anni in istituti di pena di altre città, gli ultimi dieci anni, quattro mesi e tre giorni. Allo scadere di tale periodo, infatti, finalmente riacquistò la libertà.
Si avviò con passo incerto, timoroso, tanto che gli capitò di voltarsi indietro un paio di volte, quasi temesse che qualcuno lo seguisse e lo richiamasse indietro. Man mano che si allontanava, gli tornavano in mente i giochi che da ragazzo, insieme con il fratello e altri compagni, faceva lungo quella strada e come l’immagine del carcere, così familiare in quel tempo, non incutesse paura. Guardavano la mole della struttura senza pensare alle persone che vi stavano rinchiuse, anche se talvolta, alzando lo sguardo verso le celle, intravedevano il volto triste di chi stava dietro le sbarre.
Nello stesso giorno il fratello Luciano lasciava alle spalle i boschi e i monti da dove era disceso, percorreva la provinciale, un tempo ingombra dai carretti dei contadini e ora dalle automobili che sfrecciavano veloci. Gli sembrava tutto cambiato, intravedeva in lontananza l’antica casa di campagna, quasi diroccata e seminascosta dalle sterpaglie. Là aveva sperimentato il duro lavoro del contadino. E là il padre padrone
aveva deciso il suo destino. Una sera, a tavola, il padre espresse la sua volontà irrevocabile riguardo alle continue richieste dei due figli di voler prendere moglie.
-“Dovete sapere, disse il contadino, che io non sono più tanto giovane e sento che le mie energie diminuiscono di giorno in giorno. La terra ha bisogno di braccia. Non potete, dunque, andarvene entrambi e lasciarmi qui solo a languire. Ho pensato che è bene che tu, Luciano che sei il minore resti ad aiutarmi nei lavori dei campi e che tu, Salvatore, prenda pure moglie.”
Dette queste parole, il padre senza aggiungere altro si alzò e si accinse a salire le scale per andare nella sua camera.
Un silenzio cupo scese tra i due fratelli. Il maggiore, senza dare a vedere la propria soddisfazione, rivolse qualche parola di incoraggiamento al fratello: “Vedrai che fra non molto, verrà anche per te l’occasione. Ora non è ancora tempo, non hai nemmeno una ragazza!”
Luciano si alzò e senza dire nulla, aprì la porta e uscì fuori. Era già buio, non c’era neanche la luna. Non aveva nemmeno una ragazza!, ripeteva le parole che gli aveva detto il fratello. – Nemmeno una ragazza!-
In fondo era vero. Si poteva sposare con una ragazza che non aveva mai frequentato, mai baciata?
Pensava: “Così, fratello, te ne vai da questa nostra terra che ci ha visto bambini felici correre e saltare tra l’erba, tra le gialle margherite e i fiordalisi, te ne vai da una terra che allora ci appariva madre e ora povera e dura matrigna. Portati pure la tua bella sposa nella tua nuova casa, ti rappezzerà i calzini, ti preparerà la minestra calda la sera e ti accoglierà con un sorriso al tuo rientro, dopo una giornata di lavoro. Sarà come hai sempre sognato!”
Luciano aveva appena raggiunto le prime case del paese, quando una donna, dopo averlo scrutato attentamente dalla finestra, scese giù in strada, gli si parò davanti e disse:” Santo eremita, vi ho riconosciuto anche se indossate questi abiti. Come mai avete abbandonato la vostra vita di solitudine?
Volete finalmente ritornare nel mondo?”
-“Cara sorella, vorrei pregarti di non diffondere la voce del mio ritorno. Sappi che è un abbandono solo temporaneo. ho una missione da compiere e subito dopo tornerò a vivere tra le montagne”.
-“Se è così, santo eremita, io sono pronta ad ospitarvi per il tempo della vostra missione. La mia casa, dove vivo sola, è pronta ad ospitarvi e nessuno saprà nulla del vostro segreto.”
-“Grazie, sorella, accetto la vostra ospitalità e vedrò come potrò ricompensarvi”.
Luciano si sistemò in una camera che la donna mise a sua disposizione e aspettò il momento opportuno per incontrare il fratello.
Massaro Cannata covava il suo odio e la mattina seguente decise di scendere in paese. Chiese in giro dove potesse trovare il carcerato che aveva scontato la pena di venti anni per l’omicidio del fratello e che era stato posto in libertà in quei giorni. Non gli fu difficile trovarlo perché lo conoscevano tutti e molti ricordavano il lontano fatto di cronaca di cui per mesi si occuparono i giornali.
Con circospezione, massaro Cannata prese a dire che lui era un po’ pastore, un po’ montanaro e boscaiolo, che viveva sui monti in solitudine. -“Un giorno però, disse massaro Cannata, mi trovai faccia a faccia con uno sconosciuto, vestito con poveri stracci, con barba e capelli lunghi che gli coprivano il collo fino alle spalle. Non rispose a nessuna delle mie domande, mi chiese un po’ di cibo, dell’acqua e un sacco pieno di foglie su cui riposarsi durante la notte e si andò a rifugiare in una delle tante grotte che si trovano su quei monti. Per alcune settimane lo osservai, aiutandolo come potevo. Poi decisi di saperne di più. Conquistata la sua fiducia mi rivelò finalmente il suo segreto: era fuggito da casa perché il fratello voleva ucciderlo e restò nascosto per parecchi giorni. Lo credettero morto e il fratello fu accusato del delitto e dell’occultamento del cadavere. Si tratta proprio di tuo fratello, per il quale hai sofferto il carcere. E posso assicurarti che è vivo e ha vissuto finora con la fama di santo eremita, tanto che non è mancata la gente andata fin lassù ad ascoltare i suoi consigli e il conforto della sua parola, portando sempre buone elemosine, che abbiamo condiviso in armonia.”
-“Sì, lo riconosco, è proprio lui! Da ragazzo era solito, dopo un diverbio, andarsi a nascondere. E il padre e io lo chiamavamo invano per ore. Poi usciva dal silenzio lunare e a tarda sera bussava alla porta di casa. Il padre gli apriva bofonchiando e lui, senza dire nemmeno una parola, mangiava i pochi resti della cena e andava a dormire. Allora era quasi un gioco. Quando, invece, dopo il processo, fui condannato per l’omicidio che non avevo commesso, nonostante la mia disperata difesa e la mia dichiarazione di innocenza, avrebbe dovuto presentarsi per scagionarmi. Non lo fece. E questa fu la sua terribile vendetta per l’accusa di mia moglie, accusa che dopo qualche tempo lei stessa mi confessò che era falsa. Ma ora
tu aiutami a trovarlo, vorrei parlargli.”
Massaro Cannata promise che entro pochi giorni glielo avrebbe portato dinanzi.
Luciano, intanto, meditava sull’incontro con il fratello. Da una settimana se ne stava rinchiuso in casa della vedova Carmela, la quale lo serviva con rispetto e si sentiva una privilegiata rispetto alle sue amiche. Peccato che non poteva vantarsene come avrebbe voluto perché aveva promesso al santo eremita la
riservatezza.
Un mattino, Luciano Giordanella, assalito dai tanti ricordi della fanciullezza, volle uscire per andare verso la strada che conduceva alla casa e all’antico podere del padre.
Ancora prima che massaro Cannata mantenesse la parola, Salvatore Giordanella aveva fatto le sue ricerche e, non si sa come, gli era arrivata la voce che presso la vedova Carmela Tiralongo era andato ad abitare quello che chiamavano il santo eremita. Non perse tempo e, trovata la casa della vedova, chiese
di poter incontrare quell’uomo. La vedova si morsicò la lingua perché evidentemente qualche chiacchiera le era sfuggita con le vicine di casa. Disse che non poteva aiutarlo dal momento che quella mattina era uscito e aggiunse che lo aveva visto prendere la strada dei monti.
Lo cercò per un paio di ore, poi non avendolo trovato se ne tornò deluso in paese.
La sera, la vedova non vedendolo rientrare, pensò che l’eremita fosse tornato nella sua montagna e non fece altri pensieri. Il giorno dopo tutto il paese di Castelvago commentava il ritrovamento del cadavere di un uomo. Un tale diceva che la moglie, trovandosi a passare da quelle parti prima dell’arrivo della polizia, aveva visto in volto quell’uomo e giurava che si trattava proprio del santo eremita, che più di una volta aveva visitato nella sua grotta.
L’intervento dei suoi uomini aveva consentito alla dottoressa Spanò di isolare la zona e di impedire a chiunque di avvicinarsi. Il cadavere, coperto da un lenzuolo, giaceva su un piccolo spiazzo verde del sentiero. Rocco Patanè che seguiva ogni mossa del commissario aveva subito azzardata l’ipotesi dell’omicidio. Il cadavere presentava tumefazioni sul volto, sulle braccia e sulle gambe e aveva un taglio profondo sul collo. Era evidente che qualcuno lo aveva colpito con un bastone e poi accoltellato.
La dottoressa Spanò aveva dei dubbi e diceva di aspettare il giudizio del medico su quelle ferite. Nel pomeriggio, il magistrato diede l’ordine di rimuovere il cadavere e raccomandò alla dottoressa di tenerlo informato sugli sviluppi delle indagini.
-“Per prima cosa, Rocco, dobbiamo scoprire l’identità del cadavere. Non sono stati trovati documenti, né denaro, né carte o biglietti che possano aiutarci a identificarlo. Vedi di scoprirlo al più presto e poi faremo le nostre valutazioni.”
Rocco Patanè, nel giro di qualche ora, apprese tutto ciò che la maggior parte della gente del paese già sapeva. Furono soprattutto le donne che, vista la foto del volto dell’uomo, dettero la conferma che si trattava proprio di quello che era conosciuto come il santo eremita. Con quella preziosa informazione, la dottoressa Spanò e Rocco Patanè, accompagnati da due agenti, salirono verso la zona che le donne
avevano indicato come il luogo dove viveva l’eremita.
-“Ecco il massaro di cui mi hanno parlato le donne, disse Rocco Patanè, è l’uomo che sollecitava i visitatori a lasciare compensi in denaro o in natura”.
-“Buongiorno massaro, disse la dottoressa Spanò, sono il nuovo commissario. Forse le è giunta notizia che da queste parti è stato ucciso un uomo. Sappiamo che fino ad alcuni giorni fa, viveva in questi luoghi. Lei lo conosceva?”
-“Sì, viveva come un selvaggio in una di quelle grotte vicino al bosco. Io lo vedevo di tanto in tanto e gli davo qualcosa da mangiare”.
-“Vieni Rocco, andiamo a dare un’occhiata a quelle grotte”.
Al ritorno, passando di nuovo davanti alla baracca del massaro, la dottoressa Spanò disse a Rocco che quell’uomo le era sembrato reticente, non aveva fatto alcun cenno al movimento dei fedeli che venivano ad ascoltare l’eremita.
-“Avvertilo che domani mattina deve presentarsi in commissariato”.
All’indomani massaro Cannata, puntuale, si trovava nell’ufficio del commissario.
Questa volta in risposta alle domande incalzanti della dottoressa e di Rocco Patanè, massaro Cannata non poté fare a meno di raccontare tutto ciò che sapeva dell’eremita: il suo nome, la sua storia, compreso il colloquio avuto con il fratello, uscito dal carcere in quei giorni.
-“Adesso lei può andare, ma domani mattina si ripresenti qui alla stessa ora”.
Dopo una pausa, la dottoressa Spanò si rivolse a Rocco Patanè:
-“Che ne pensi? Mi è sembrato sincero”.
-“Secondo me un indizio di colpevolezza nei suoi confronti c’è. La decisione dell’eremita di lasciare quei luoghi e venire in paese per cercare il perdono del fratello, lo aveva rovinato. I fedeli non sarebbero più saliti fin lassù e sarebbe cessato il flusso di denaro e di regalie. Perciò ipotizzerei un omicidio per vendetta”.
-“Certo, Rocco, però non dimenticare che un altro uomo aveva tutte le ragioni per vendicarsi: il fratello! Quindi non affrettiamo le conclusioni; fatti accompagnare da un agente e portami qui questo fratello”.
Il signor Salvatore Giordanella, piegato da venti anni di carcere, era abituato ad essere molto rispettoso e umile verso le autorità e profondendosi in inchini, si accomodò di fronte al commissario.
-“Perché lo ha ucciso?”
Non si aspettava una domanda così brutale e restò interdetto e indispettito: “Signor commissario, se si riferisce a quell’uomo trovato morto ieri mattina, le faccio presente che mi avevano informato che in paese c’era un uomo che diceva di essere mio fratello. Mi aveva già avvertito un certo massaro Cannata, il
quale mi aveva promesso che me lo avrebbe portato dinanzi al più presto. Io però non ho voluto aspettare e senza perdere tempo, ho chiesto notizie e ho saputo che questo presunto mio
fratello viveva presso una vedova che lo aveva ospitato provvisoriamente. Così ieri mattina presto sono andato a casa di quella vedova, ma è stato inutile perché non l’ho trovato. Era già uscito per una passeggiata verso i monti.”
-“Bene, signor Giordanella, a questo punto non resta altro da fare che procedere subito al riconoscimento del cadavere”.
Salvatore Giordanella, dopo venti anni, rivide il fratello, disteso su un tavolo di marmo. Alzato il lenzuolo, lo guardò con pietà, si soffermò sulle sue ferite, specie quella sul collo, guardò sul braccio destro la voglia somigliante a una foglia di vite che aveva dalla nascita, abbassò gli occhi come per una preghiera di raccoglimento, poi si voltò e disse al commissario: “ E’ lui, non ho dubbi!”
Tornati in commissariato, la dottoressa Spanò disse al signor Giordanella:” Ora lei può andare, ma non si allontani dal paese e domani mattina venga alle nove”.
Sul suo tavolo Rocco Patanè le indicò il referto del medico legale, che confermava la morte di Luciano Giordanella per dissanguamento, dovuto al taglio della gola probabilmente mediante lama affilata di coltello. Massaro Cannata non dormì la notte, assalito da incubi e pensieri che lo prostrarono fino alle prime luci del mattino. Non volle perdere tempo, voleva chiudere quella faccenda con il commissario perché aveva intuito che poteva mettersi male per lui. Si avviò, dunque, che era appena sorto il sole e si diresse verso il paese. Aspettò in piazza, finché il campanile suonò le otto. Allora si decise a presentarsi in commissariato. Dopo una attesa di una decina di minuti, il dott. Patanè lo fece entrare nell’ufficio del commissario.
“Signor Cannata siamo convinti, disse la dottoressa Spanò, che lei abbia voluto vendicarsi contro Giordanella, l’eremita, perché con la sua partenza le veniva meno un lucroso affare”.
-“Ma che dice, signor commissario, io non sono capace neanche di uccidere un capretto per la Pasqua. Mi rivolgo sempre a un pastore, mio amico, che lo fa al posto mio. A me il sangue ha fatto ribrezzo sin da quando ero bambino”.
-“Andremo questa mattina, disse Patané, a ispezionare la sua baracca e vedrà che verrà fuori il coltello con cui ha colpito Giordanella”.
-“Fate pure, non troverete nulla. Io non potevo ucciderlo. Perché invece non pensate a un altro. Potrebbe essere il fratello, il colpevole: avrà voluto vendicarsi per quel che ingiustamente ha sofferto a causa del terribile inganno”.
-“Questo suo pensiero, intervenne Patané, ha tutta l’aria di qualcosa vicina a una confessione”.
-“Coraggio, massaro Cannata, ci dica che lei ha fatto un pensiero di morte nei confronti di Giordanella”.
Massaro Cannata tacque per un po’ e si rifiutava di aggiungere altro. Ma la dottoressa Spanò incalzava: “Se lei non vuol parlare, glielo dico io che cosa le frullava nella mente. La sua vendetta voleva essere sottile, senza rischi. Pensava di vendicarsi con l’aiuto della volontà di vendetta del fratello. Per questo lei è venuto a raccontargli che aveva scoperto il segreto dell’eremita. Salvatore Giordanella, venti anni prima, aveva già ucciso il fratello Luciano, aveva già scontato una lunga pena, non poteva dunque, uccidendolo una seconda volta, essere condannato per lo stesso delitto. Lei ha trovato una facile intesa con il signor Salvatore Giordanella, convincendolo che si trattava di un lavoro estremamente facile e senza conseguenze. Avrebbe dovuto essere come cancellare un’ombra, eliminare qualcuno inesistente, non più in vita, morto già da tempo”.
Massaro Cannata, col capo chino, piangeva mentre ascoltava quella ricostruzione dei fatti. Sul volto di Rocco Patanè si leggeva una grande soddisfazione per l’intuito della dottoressa Spanò.
-“Sì, ammise massaro Cannata, sono colpevole, ma solo nelle intenzioni, non nei fatti. Ho pensato di fare tutto quello che lei ha detto, ma le giuro che io non ho affatto spinto Giordanella a uccidere il fratello. Lo speravo in cuor mio, ma niente di più.”
-“Va bene, signor Cannata, per oggi basta così”. E rivolgendosi a Patanè, disse di trattenerlo per ulteriori chiarimenti. Poi fu introdotto Salvatore Giordanella.
-“Signor Giordanella, quando il massaro Cannata venne a raccontarle che suo fratello era vivo, ha avuto l’impressione che volesse sollecitare il suo desiderio di vendetta?”
-“Niente affatto, signor commissario. Inoltre io gli feci capire che in me non c’era volontà di vendetta, ma piuttosto di riappacificazione. Volevo incontrarlo e parlargli, perché in fondo anche io ero colpevole. Le accuse di mia moglie nei suoi confronti erano del tutto false, per cui se io ho trascorso venti anni in carcere, lui ha ugualmente sofferto, nascondendosi per altrettanti anni. Avevamo dunque bisogno di chiarirci. Io, signor commissario, sono sicuro che anche lui avrebbe voluto abbracciarmi, tallonato dai ricordi della nostra casa di famiglia. Deve sapere che il sentiero dove giaceva, noi da ragazzi e da
giovani lo percorrevamo sempre. E’ il sentiero che chiamavamo inferno per distinguerlo da quello chiamato purgatorio. Il primo era quello che poteva essere percorso solo dai coraggiosi perché
molto impervio e pericoloso per le rocce sporgenti e ripide; il secondo, come si capisce dal nome, molto più facile, meno rischioso. Ora mio fratello, preso dalla nostalgia, ha voluto percorrere il sentiero dell’inferno e a un certo punto si è trovato in grave difficoltà; è precipitato ed è rotolato fino allo spiazzo
dove è stato trovato. Quella ferita alla gola quasi certamente gliel’ha inflitta quella maledetta lama del diavolo, una lama di ferro che la ricordo sempre incastrata tra due rocce e che nessuno mai è riuscito ad estrarre.”
La dottoressa Spanò rimase molto soddisfatta dal discorso di Salvatore Giordanella.
-“Rocco, scegli due agenti amici della montagna e buoni arrampicatori e con il signor Giordanella aspettami sul sentiero del ritrovamento del cadavere per fare un accurato sopralluogo. Io vi raggiungerò con la mia macchina. Ho bisogno di cambiare abbigliamento.”
A casa la dottoressa Spanò indossò un paio di jeans e scarpe adatte per un sentiero di montagna. Al suo arrivo il signor Giordanella, non ritenendo di poter fare il percorso per mancanza di agilità ed energie, si limitò a indicare la via di accesso e la direzione della roccia con la lama incastrata. Occorreva salire almeno per una decina di minuti. Patanè e il signor Giordanella restarono ad aspettare, mentre la
dottoressa Spanò e i due agenti si avviarono per l’arrampicata. Man mano che procedevano, la dottoressa Spanò notava che gli arbusti a lato del sentiero erano piegati e la terra mista a sassi era vistosamente smossa. A un certo punto del percorso si trovarono di fronte una grossa roccia che costituiva quasi un
ostacolo insormontabile. Era la roccia descritta dal signor Giordanella. Effettivamente sbucava dalla roccia una lama affilatissima e arrugginita. I due agenti si fermarono in una posizione precaria e tuttavia aiutarono il commissario ad avanzare per osservare meglio la lama. Vi erano evidenti tracce di sangue sulla punta e su un lato. Non sembrava che ci fossero dubbi. Anche i due agenti confermarono.
Effettuato il sopralluogo, il commissario chiese di incontrare il medico legale, al quale confidò quello che aveva scoperto.
Costui non ebbe difficoltà ad ammettere che le ferite sul corpo erano compatibili con il rotolamento sul terreno scosceso e che il taglio alla gola poteva essere stato causato da quella lama acuminata, sulla quale evidentemente Luciano Giordanella era caduto.
Ma i fatti non si erano svolti così. La dottoressa Spanò ne era convinta: nella borsetta aveva la prova inconfutabile. Chiamò Rocco Patanè e gli disse:” Portami qui il massaro”. Costui si presentò in maniche di camicia e al rimprovero della dottoressa, che aveva respinto la scusa che nella camera di sicurezza si soffocava per il caldo, lo obbligò a indossare la giubba.
Lo tenne in piedi dinanzi a sé per almeno un minuto, squadrandolo dalla testa ai piedi con piglio severo. Rocco Patanè era meravigliato per quel comportamento perché era già convinto che il massaro avrebbe potuto lasciare il commissariato senz’altra restrizione. A quel punto la dottoressa Spanò scoprì le sue carte:
-“E’ lui l’assassino del signor Giordanella”, disse rivolta a Rocco Patanè. Tirò fuori dalla sua borsetta un rotolino di carta. Dentro c’era un bottone.
-“Massaro, alla sua giubba manca un bottone. E’ forse questo?”
A Rocco Patanè bastò una rapida occhiata per accorgersi che il bottone che mancava alla giubba del massaro era proprio quello posato sulla scrivania della dottoressa, del tutto simile agli altri. Il massaro taceva e, sempre in piedi, se ne stava col capo chino senza parlare.
-“ Glielo dico io cosa veramente è successo su quel sentiero, disse il commissario. Quella mattina, sempre accecato dall’ira e dall’odio, lei ha seguito il signor Giordanella e ha cercato ancora una volta di convincerlo a tornare alla sua vita di eremita. E di fronte all’ennesimo diniego, ha iniziato una
colluttazione e lo ha spinto con violenza proprio lì sulla lama del diavolo incastrata nella roccia. Poi per far meglio credere alla disgrazia, lo ha fatto rotolare giù. Stamattina, durante il sopralluogo, ho trovato il bottone della sua giubba vicino alla roccia”.
Massaro Cannata non poté più fare a meno di ammettere le sue responsabilità e confessò il delitto.