Grazia Deledda tra la fenomenologia dello spirito e il sapere dell’anima. Una hegeliana tra Zambrano e Proust
di Pierfranco Bruni
“La vita passa e noi la lasciamo passare come l’acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca”. È Grazia Deledda di “Canne al vento”. La scrittrice, Nobel della letteratura, che ha trascinato il senso della memoria tra le pareti del mito in una icona che ha un vissuto da “sottosuolo”, in cui le nostalgie sono il rigoroso richiamo di quei simboli che solo apparentemente hanno una visione naturalista.
Il paesaggio non è ciò che si vede in un immaginario geografico. Il vero paesaggio della Deledda è quello fenomenologico. Ovvero una dimensione della apparenza cammina nel suo linguaggio che ha la espressività del tempo cangiante tra il terribile del perduto e il profetico del mistero che si annuncia.
I suoi personaggi sono il destino di un’epoca in decadenza, non un’epica decadente, che mannianamente solca il reale attraverso il pozzo del passato.
Il passato è sì la memoria de” Il Paese del vento”, proustiana lezione di non dimenticare, ma è anche l’autocoscienza di “Cosima”. Questo ultimo è il romanzo del limite, non del finito, ma degli orizzonti che dal senso ancestrale conducono ad un incipit quasi dantesco, ovvero di una vita nuova.
Cos’altro è la “Vita niva” in Grazia Deledda se non un attraversamento di autometafora. Il ciò non significa soltanto scardinare una vita attraverso un linguaggio biografico, ma attraverso un vocabolario dell’esistente in quanto esistenza del possibile, che rende tale ciò che in incipit era considerato impossibile.
Grazia Deledda dirà: “Mutiamo tutti, da un giorno all’altro, per lente e inconsapevoli evoluzioni, vinti da quella legge ineluttabile del tempo che oggi finisce di cancellare ciò che ieri aveva scritto nelle misteriose tavole del cuore umano”.
Il proustiano abbandono della storia e la discesa nel sottosuolo della consapevolezza della memoria è, appunto, una fenomenologia dello spirito. Una lettura non hegeliana ma divenuta tale attraverso gli strumenti fenomenologici applicati non alla critica, ma alla creatività della pagina.
La Deledda non è il ricordare nel rimorso rimpianto, non è gli uomini in nero e le donne con lo scialle sardo o i paesaggi isolani. Non è da leggere attraverso questi parametri. È una concezione della letteratura come altro e oltre la letteratura stessa.
D’altronde “Cosima” è la sintesi di tutto, ma è anche il raggruppamento di tutti i personaggi in uno solo, ovvero: Cosima.
Un brano consistente racconta la scrittrice e la donna.
Ecco: “L’editore mandò cento copie del volume, per tutto compenso dell’opera: il valore non superava quello dell’olio e del vino rubati in cantina; e il grosso pacco piombò in casa come un bolide sconquassatore. La madre ne fu atterrita, la sera gli girò attorno con la diffidenza spaventata di un cane che vede un animale sconosciuto: per fortuna Cosima ricordò che un suo cugino in terzo grado aveva una bottega di barbiere e spacciava giornali e riviste. Era un intellettuale anche lui, a modo suo, perché mandava la corrispondenza locale al Giornale del capoluogo: e la proposta di Cosima, di spacciare qualche copia del romanzo fu da lui accolta con disinteresse completo.
Ma per la scrittrice fu un disastro morale completo: non solo le zie inacidite, e i benpensanti del paese, e le donne che non sapevano leggere ma considerano i romanzi come libri proibiti, tutti si rivoltarono contro la fanciulla: fu un rogo di malignità, di supposizioni scandalose, di profezie libertine: la voce del Battista che, dalla prigione opaca della sua selvaggia castità urlava contro Erodiade era meno inesorabile. Lo stesso Andrea era scontento: non così aveva sognato la gloria della sorella, della sorella che si vedeva minacciata dal pericolo di non trovare marito.
Il tutto è qui. Il meno è qui. Il Novecento delle civiltà travestite di transizioni antropologiche è tra le pagine di “Cosima”. Grazia Deledda è Cosima al di là del bene e del male in una visione hegeliana con la presenza di echi di Nietzsche, in cui il viaggio d’esistere è dentro una griglia di archetipi. Il suo tempo è il mondo e il mondo è la rappresentazione vichiana di una ciclicità del primitivo che vuole abbandonare il “selvaggio” del mito e del rito per focalizzarsi come, appunto, archetipo del ritorno.
La Deledda vive nell’abisso del ritorno metaforico e mai metastorico. Dove è la storia? È una parvenza. Dove è il naturalismo? È una crepa dell’esistenzialismo che resta esistenziale della memoria. Dove il realismo? È una simbolica forma manierista per andare oltre don Gesualdo. Deledda è la provvidenza manzoniana della definizione dei personaggi nel tempo e non nella storia.
Già l’incipit di “Cosima” è il narrato nel narrabile profeticamente tra letteratura e vita: “La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po’ basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l’ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello.
La stanza a sinistra dell’ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come le altre, un camino col pavimento battuto. Null’altro. Un uscio solido pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e d’intimità”.
Quanta confessione come genere letterario insiste nella Deledda? Maria Zambrano avrebbe detto che la sua confessione è semplicemente un “sapere dellanima”.
Dunque? Siamo alla fenomenologia della apparenza, ovvero dello spirito. L’importanza delle “cose” può essere fondamentale? Non direi cose, ma fatti. Fatti tra eventi e destini. Arriva sempre il giorno cercato.
Così: “Finalmente arrivò il giorno tanto atteso…”, in “Elias Portolu”. Perché occorre sempre “frugare nel camino” per chiedere alla cenere di restituire dal nascosto l’oblio. “L’incendio nell’oliveto” è vento dell’anima che pone l’immaginario come immaginazione. Ascoltare il vento è sentire il ritmo della voce della madre: “…il rumore del vento accompagnato dal mormorio degli alberi” è il cadenzato del suono de “La madre”.
In “Memorie infantile” da “Azzurro” dirà: “Infanzia!… È forse questa una parola magica e misteriosa, un geroglifico orientale, inteso indistintamente dall’anima, dalla mente, dal cuore, nei quali desta ricordi soavi, dolcissimi, benché sfumati tra le nebbie del passato, e sorrisi vagolanti e dolci come quei ricordi, e sussulti di rimpianto e dimenticanze del presente?”.
Il cerchio non si chiude dunque. Ma cerchio resta. È l’infinito che diventa tramite dell’impossibile verso il possibile. Si riaffaccia così “Cosima”. Ovvero l’autocoscienza, ovvero ancora la rousseauniana fenomenologia dell’infanzia dell’uomo che scava nel sottosuolo dei popoli e del primitivo che è dentro la stanza degli uomini: “Anche questa lezione le servì per la scuola della vita…”.