Gli “spirugghiafacenni” e Filippo Mantellina
di Mario Pintacuda
Il mese scorso mi è capitato di riferire sull’odissea che attende ogni giorno centinaia di Palermitani per il rinnovo della carta d’identità.
Ieri inoltre, sul “Giornale di Sicilia”, ho letto che code non meno estenuanti toccano in sorte in questi giorni agli sventurati che, dovendo regolarizzare i vecchi pass per il parcheggio dopo la modifica delle “zone” blu e bianche, si devono mettere in coda negli uffici delle circoscrizioni sin dalle cinque di mattina.
Più si verificano situazioni del genere, più mi viene in mente una provvidenziale categoria di persone adibita un tempo (ma spesso ancora oggi) a risolvere i difficilissimi problemi creati dalla tentacolare burocrazia isolana. In Sicilia si chiamano “spirugghiafacenni”.
Occorre anzitutto una breve premessa lessicale.
Il verbo “spirugghiàri” nel vocabolario siciliano-italiano del Mortillaro si trova nella forma “spidugghiàri” (la “d” intervocalica spesso passa a “r” nella pronuncia orale: cfr. “vìdiri”, cioè “vedere”, pronunciato “vìriri”); a “spidugghiàri” viene assegnato il significato di “ravviare le cose avviluppate, ordinare” e, nella forma “spidugghiàrisi”, quello di “uscire d’intrigo, di imbarazzo, d’impaccio”.
Nell’altro vocabolario dialettale, quello del Traina, “spidugghiàri” viene considerata forma corrotta del verbo “sbrugghiàri”, nel senso dunque di “sbrogliare”, “levar l’imbroglio”.
Parallelamente, esiste il vocabolo “impidùgghiu” (o, con aferesi, “’mpidugghiu”) che indica un “intrigo”, un “impaccio” che va risolto: l’“impidùgghiu” va “spidugghiàtu”, l’imbroglio deve essere sbrogliato.
In dialetto “baariòto”, se qualcuno resta impigliato da qualche parte con una parte del vestito, dice: “Arristàvu ’mpirugghiatu”; la stessa frase, in senso metaforico, si dice quando si resta bloccati da un problema o da una pressante incombenza. Infine, a Bagheria l’imperativo “spirùgghiati” vuol dire “spìcciati, fai presto”, sempre con l’idea di doversi “liberare” in fretta da altre incombenze.
Tornando agli “spirugghiafacenni”, per commemorare adeguatamente questi personaggi e in particolare il più celebre di loro (tale Filippo D’Amico, inteso “Filippo Mantellina”), mi sono rivolto a Domenico Sciortino, memoria storica bagherese e fonte diretta inesauribile di ricordi e testimonianze preziose. Riporto dunque qui di seguito, quasi integralmente (con lievissime modifiche) il contenuto di un suo messaggio, in cui ieri mi ha fornito interessanti informazioni sugli “spirugghiafacenni” (lui però scrive “spirugghiafacienni”, con una “i” in più che rispecchia la pronuncia orale “baariota”).
«Per quanto riguarda gli “spirugghifacienni”, con un sinonimo detti anche “specciafacienni”, erano delle persone disoccupate o pensionati, con una certa preparazione scolastica di poco superiore alla media: sapevano leggere e scrivere discretamente e si intendevano di legge e di burocrazia ma solo per esperienza, avvantaggiati per questo rispetto alla gente comune. Stazionavano, generalmente, davanti agli uffici comunali, aspettando gli immancabili clienti. Alcune persone, o per evitare le file, o perché non sapevano a quali uffici rivolgersi per ottenere qualche documento, o perché non sapevano fare o scrivere una domanda per potere ottenerli, si rivolgevano agli “spirugghiafacienni” che – forniti di carta e penna – chiedevano le generalità del richiedente e redigevano un’eventuale domanda da fare sottoscrivere, per poi presentarla agli uffici comunali. Inoltre prendevano appunti per richiedere certificati vari (di nascita, di residenza, di matrimonio, stato di famiglia, distato civile ecc.); infatti negli anni ’50 e ’60 questi documenti non erano rilasciati a vista, ma dopo uno o più giorni. Gli “specciafacienni” si trovavano anche presso gli uffici del Catasto e alla stazione ferroviaria, ad es. per compilare gli stampati per la spedizione di pacchi e merci. Per tutte queste prestazioni non c’era una tariffa fissa, ma lo “spirugghiafacienni” si affidava alla generosità dell’utente per stabilire l’entità del compenso.
“Fulippu Mantillina”, al secolo Filippo D’Amico, era un signore di alta statura, sulla sessantina (ma a quei tempi gli anni nelle persone si vedevano molto di più); era claudicante a causa della poliomielite e abitava a Bagheria in via delle Palme. Era lo “spirugghiafacienni” più noto e più richiesto, perché era il più abile e più disponibile di tutti. Riusciva a risolvere ogni problema, anche perché aveva la possibilità di accedere direttamente nei vari uffici, forse perché conosceva molti impiegati o perché per la sua situazione fisica gli era concessa questa possibilità.
A quei tempi dunque, per antonomasia, quando si aveva a che fare con una persona che tirava fuori dalle tasche biglietti, “pizzini”, carte e appunti vari, si esclamava, ed ancora oggi lo si dice a chi lo ha conosciuto, “Ma cu sì [Ma chi sei], Fulippu Mantillina?”».
Mimmo conclude dicendo che l’epiteto di “Filippo Mantellina” gli era stato attributo d’ufficio da sua madre, sia per i molti “pizzini” che aveva nelle tasche sia perché più incline, rispetto ai suoi fratelli, a “spirugghiari facienni”.
Io a mia volta ricordo che una volta mio padre, in epoca già “post-mantellinesca”, dovendo sbrigare da Genova una pratica al Comune di Bagheria, chiese aiuto telefonicamente a mio zio Masino,c he rispose: «Ccà ci vulissi ‘na specie di Fulippu Mantillina».
Su Internet si legge una simpatica (anche se non eccelsa) commedia in tre atti, scritta da Antonio Sapienza, intitolata “L’ultimo spurugghia-facenni”, che ha per protagonista un faccendiere in un quartiere popolare.
Il protagonista Orazio Fatuzzo, titolare di una “agenzia d’affari” elenca così le sue competenze di “spirugghia-facenni”: “noi sbrighiamo pratiche varie. Transazioni, sensalie, pratiche matrimoniali, disbrigo documenti”. Deve però ammettere la crisi in cui è entrata ormai la sua professione e la fine dei tempi d’oro: «Grazie a Diu, c’era macari tanta gente gnuranti, analfabeta, ca si affidava a nuatri littirati pi qualsiasi pratica e noi li servivamo e ci buscavano onestamenti la jurnata. Ma ora nun si fa più nenti di nenti. Ora tutti sannu leggiri e scriviri, tutti sannu di tuttu, tutti sunnu smaliziati. E nuavutri? I spurugghia-facenni, cchi facemu, ah? A fami, naturalmenti!».
Forse però l’autore era troppo pessimista: siccome le “faccende” qui in Sicilia sono sempre “impirugghiate”, cioè complicate e contorte, qualcuno che le “spirugghi” occorre ancora…
In conclusione, ringraziando ancora Mimmo Sciortino per la sua preziosa testimonianza, non mi resta che augurare, ai tanti cittadini siciliani tuttora dispersi nel labirinto della burocrazia, di poter sempre trovare un “Filippo Mantellina” che riesca a risolvere il loro problema, magari accontentandosi di un buon “caffè”.
P.S.: Nemmeno Mimmo è riuscito a chiarirmi un dubbio, relativo al motivo del soprannome “Mantellina” affibbiato al glorioso Filippo D’Amico. Lui ipotizza che derivasse dal fatto che questo signore era nato a fine Ottocento e forse aveva indossato un tempo le mantelline che si usavano allora; io però, non sapendo se questa “ingiuria” accomunasse tutta la sua famiglia (come faceva Verga con i “Malavoglia”), non ne sarei sicuro. Ma pensando a come mi sono dovuto imbacuccare io per fare la coda alle cinque di mattina, non escludo che un tempo una “mantellina” potesse servire come “divisa” per chi doveva appostarsi di buon’ora all’aperto in attesa di… clienti.
Mario Pintacuda
Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.