Gli Arabi in Sicilia: politica, cultura e istruzione
di Vincenzo Fiaschitello
Gli Arabi fecero sentire la loro presenza in Sicilia sin dall’826, quando tentarono di operare alcune scorrerie. Ma non si può dire che già da allora pensassero alla Sicilia come a una possibile conquista, giacché all’invito dell’ex ufficiale bizantino Eufemio di portare la guerra in quella terra, una parte degli ottimati e dei giuristi di Al-Cairuan, consultati da Ziadat-Allah, si mostrò incerta e comunque incline a che gli Arabi non vi stabilissero colonia (M. Amari, Cronaca Araba, Biblioteca Arabo-Sicula, Torino, Bona,1880).
Ciò che nell’opinione di alcuni membri dell’assemblea poteva essere una comune scorreria, si trasformò per volontà di Ziadiat-Allah in una grande impresa destinata a lasciare un segno incancellabile nella storia e nella cultura siciliana. La conquista dell’Isola, però, fu lenta e contrastata. Anni piuttosto difficili e sanguinosi caratterizzarono il periodo che va dall’887 al 902 (caduta di Taormina); gli eccidi si accompagnarono alle carestie e alle pestilenze che misero a durissima prova le popolazioni della Sicilia, già così provate da guerre, da lotte spesso anche religiose.
Per avere un’idea della tristezza dei tempi, si pensi che quando gli Arabi entrarono in Palermo (831) non trovarono che appena tremila uomini dei sessantamila che contava la città prima del doloroso assedio. Poche le città che preferirono arrendersi quasi senza combattere; le altre lottarono tenacemente, sia organizzando da sé la difesa, sia invocando l’aiuto dell’impero bizantino. Ma questo, preso da altre difficoltà, non interveniva e lasciava cadere nel vuoto i ripetuti richiami di soccorso. Ciò lo faceva sembrare ai più, molto lontano e prossimo a capitolare, minato com’era dall’interno e assalito alle frontiere (F. Gabrieli, Storia e cultura musulmana, Napoli, Ricciardi,1947).
La cultura bizantina proprio nel tempo delle guerre arabe di conquista è in piena decadenza e manda i suoi ultimi bagliori.
Il monaco Teodosio, condotto prigioniero dopo la resa di Siracusa (878), si stupisce dello splendore di Palermo che egli vede come la città degli Arabi e si duole dell’omaggio e sottomissione che è costretto a fare a quella civiltà.
Cessate le lotte per la conquista, i musulmani tennero saldamente l’isola che era loro costata così gravi sacrifici, riorganizzando la vita pubblica, curando in modo eccellente l’agricoltura con la costruzione di sagge opere di irrigazione, con la introduzione di nuove piante, migliorando le vie di comunicazione e incrementando il commercio. Palermo divenne la capitale dell’isola e la Medina, dove risiedeva il Walì o emiro di Sicilia che con autorità civile e militare governava come un sovrano, assunse un ruolo di primo piano nella vita del paese, sia dal punto di vista economico, sia da quello artistico culturale. Il viaggiatore arabo Ibn Hawqual intorno all’anno 977 scrive:
“Palermo si compone di cinque quartieri…il primo è la città grande, propriamente detta Palermo, cinta di un muro di pietra alto e difendevole, abitata dai mercanti…l’altra città ha nome Al Halisac… Soggiorna nella Halisac il sultano con i suoi seguaci; v’ha due bagni, una moschea…la prigione, l’arsenale di marina… Il quartiere detto Harab as Seqalibah è più ragguardevole e popoloso…la più parte dei mercati giace tra la mosche di Ibn Siqlab e il quartiere nuovo…i cambiatori e droghieri soggiornano fuor le mura della città, e similmente i sarti, gli armaioli…La città di figura bislunga racchiude un mercato che l’attraversa da ponente a levante: tutto lastricato di pietra da un capo all’altro; bello emporio di varie specie di mercanzie (M. Amari, Cronaca Araba, op. cit. p.10).
Più tardi Palermo conobbe uno splendore e una raffinatezza civile tali che la resero in breve famosa in tutta Europa. Edrisi così la descrive:
“Prima nel novero Balarm la bella ed immensa città; il massimo e splendido soggiorno; la più vasta ed eccelsa metropoli del mondo; quella che a narrarne i vanti si finirebbe quasi mai; la città ornata di tante eleganze; la sede dei re nei moderni e negli antichi tempi. Da lei moveano già alle imprese le armate e gli eserciti, a lei ritornavano, nella stessa guisa che oggidì. Giace in riva al mare, nella parte occidentale dell’isola circondanla grandi e alte montagne, con tutto ciò la sua spiaggia è lieta, ridente. Ha Palermo edifizi di tanta bellezza che i viaggiatori si mettono in cammino attratti dalla fama delle meraviglie che quivi offre l’architettura, lo squisito lavorio, l’ornamento di tanti peregrini trovati dall’arte. D’ogni intorno alla capitale della Sicilia il terreno è solcato di acque e vi erompono dalle fonti perenni. Palermo abbandona di frutte; i suoi edifizi e le sue eleganti villette confondon chi si mette a descriverle e abbagliano gli intelletti. A dirla in una parola, questa città fa girare il cervello a chi la guarda” (M. Amari, Cronaca Araba, op.cit. p.59).
Nel castello ‘Al Qasr risiedeva il corpo municipale dei musulmani della città, riunione di sceicchi o anziani, capi di famiglie nobili o dei vincitori, capi di arti corporative, dotti e ricchi. Il popolo, gente di varia nazionalità, fu favorito dagli emiri scelti dalla casa Kelbita perché costituisse una difesa contro la nobiltà che si andava facendo sempre più prepotente e riottosa. Nonostante fossero numerose le comunità venute in gran parte dalla Tunisia, dall’Africa settentrionale, dalla Spagna al seguito dei conquistatori, la maggior parte della popolazione era costituita dai cristiani, cioè dagli indigeni. E’ interessante come costoro vivessero secondo tre condizioni diverse.
Le popolazioni indipendenti, chiuse entro la cerchia delle proprie mura, avevano resistito agli invasori e obbedivano più o meno all’imperatore bizantino, il quale non si curava e non poteva intervenire; ragione per cui aumentava smisuratamente l’autorità dell’aristocrazia della curia. Così scrive Michele Amari nella sua monumentale opera della Storia dei Musulmani in Sicilia:
“I comuni indipendenti operarono come repubbliche negli ultimi anni del nono e i primi del decimo secolo; quando lo impero del tutto li abbandonò “ (M. Amari, Storia dei Musulmani in Sicilia, Catania, Prampolini,1933-1939).
Una seconda categoria di cittadini era quella dei tributari appartenenti a quei municipi che avevano potuto conservare l’autorità civile e liberarsi dal pericolo della guerra, pagando agli Arabi il tributo che prima solevano mandare a Costantinopoli. I soli ad avere un concreto vantaggio erano gli Arabi che così potevano senza fatica alcuna intascare il denaro e i magistrati municipali, i quali non più controllati distribuivano inegualmente il peso delle imposte tra i loro miseri concittadini.
Erano ridotti alla condizione di vassalli, gli abitanti delle città che si erano sottomesse. Erano i più numerosi. Senza autorità politica tuttavia conservavano i beni privati e vivevano secondo le proprie leggi e i propri costumi. Essi erano chiamati “dimmì”, cioè posseduti. L’Amari riporta un brano significativo in cui si può riconoscere la natura dei rapporti intercorrenti tra i cristiani e i musulmani. E’ un patto che sebbene riguardi le popolazioni di Siria e d’Egitto può considerarsi tipico:
“Questo è uno scritto indirizzato al servo di Dio ‘Umar dai cristiani di Siria e d’Egitto. Quando veniste a noi, vi chiedemmo l’aman (sicurezza) per le nostre persone, figliuoli, beni e gente di nostra religione; onde stipulammo di non fabbricare nelle nostre città e nei dintorni alcun novello monastero, né chiesa, né romitaggio, né riparare quelli che andassero in rovina nelle contrade abitate da musulmani. Stipulammo di più di lasciar entrare in quei edifizi i passeggeri e i viandanti; e dar ospizio e vitto per tre dì ad ogni musulmano che ce ne richiedesse. Inoltre abbiamo pattuito di astenerci dalle cose seguenti: dare ricetto nelle chiese e case a spie che venissero ad esplorare le faccende dei musulmani; leggere il Corano ai nostri figliuoli; promuovere la nostra religione, facendo proseliti; attraversare i nostri parenti che volessero farsi musulmani; di più onoreremo i musulmani e quando entrino nelle nostre brigate ci alzeremo se essi vogliono adagiarsi. Non imiteremo lor fogge di vestimenta, berretti e turbanti. Non piglieremo lor nomi né soprannomi;…non mostreremo le croci; non faremo processioni in istrada con palme;… non faremo piagnistei pei morti;… non cercheremo di guardare entro le case dei musulmani; non inalzeremo le nostre (più delle loro)”. (M. Amari, Storia, op. cit. p.620).
La terza e ultima categoria della popolazione era costituita dagli schiavi.
Con il rafforzamento della pace e dell’ordine pubblico, cominciarono a fiorire gli studi presso i musulmani di Sicilia. Già Abu-al Qasim e i suoi successori fino a Jusuf (989-998) che furono valorosi guerrieri, si dimostrarono protettori di poeti, letterati e artisti, accolti onorevolmente nella loro splendida corte. Nei primi tempi però gli scrittori di fama non abbondarono e per lo più si limitarono agli studi giuridici. Celebre giurista fu Abu-Sa’id-Lockman, del quale si sa che insegnò diritto per quattordici anni a Palermo: narra la leggenda che morisse di una piaga fattasi al petto che soleva appoggiare a una tavola su cui scriveva e spiegava. Più tardi eccelse nella giurisprudenza Al Mazari, siciliano, ammirato nelle scuole musulmane per la sua vasta erudizione, il quale morì in Marocco in seguito alla conquista normanna. Accanto a lui si ricordano il Sementari, così detto dal villaggio siciliano dove nacque, appartenente alla setta puritana dei Sufiti e lodato dal famoso antologista Ibn-Al Katta; e Abu-Amr-Meimun che ebbe la dignità di Kadì e rimase celebre per la sua erudizione e austera integrità, per cui ripartì dopo molti anni malato e povero.
Sotto l’emiro Jusuf sorsero grammatici, lessicografi, verseggiatori, filosofi, medici, geometri. Il siciliano Abd-Allah collaborò a una versione dell’opera medica di Dioscoride; il grammatico e lettore del Corano, Ibn-Knorassan ci offre il primo esempio di studi filologici; nella matematica acquistò grande fama Abu-Mohammed, astronomo, che cooperò alla fondazione dell’osservatorio eretto al Cairo nel 1020 circa.
Dall’antologia dei poeti compilata nel secolo XII dal grammatico storico e poeta Ibn-Al Katta, si ricavano ben 170 nomi di poeti arabo siciliani. Di questi forse il maggiore fu Ibn-Hamdis, il quale nato a Noto intorno al 1056, fu costretto a lasciare l’isola non si sa bene per quale motivo. Morì in esilio nel 1135 in tarda età. Egli è “il poeta delle follie amorose, delle ebbrezze voluttuose e dei giardini in fiore, è anche il poeta civile della patria perduta. Nelle sue poesie lampeggianti di impeti lirici e intessute di immagini ardite, cui offrono copiose messi di similitudini, l’antica vita del deserto e i dolci ricordi di una giovinezza avventurosa ed ebbra di godimenti, esplode volta a volta uno sconfinato amore per la Sicilia paradiso di delizie. (A. De Stefano, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, Palermo, Ciuni,1938 p.16) . Ecco una poesia di Ibn-Hamdis nella traduzione di Michele Amari:
O vento sia che tu corra presso alle nubi, o che ti involi, / non lasciare assetata la mia collina lontana/. La sai tu? Ai fervidi raggi del sole vi olezzano i verdi suoi rami/. Qual meraviglia: in quei luoghi imbeve lo spirto d’amore l’aria dei suoi profumi/.Ahi, che la lontana isola tien chiuso il cuore che m’ama,/ quello che un dì nelle vene tutto il sangue mi infuse./ Come pei boschi, di preda avidi, errano i lupi,/ devastatrici s’abbatton sui siculi campi, le sventure/. Là, nelle folte selve, fui compagno ai leoni nel gioco/, e visitai le gazzelle spesso ne’ loro covili./ Tu mi nascondi, o mare, un paradiso dietro l’opposta sponda,/ mai le sventure, ma sol gaudii conobbi nella mia terra./ Ivi all’alba di mia vita, vidi splendere fulgido il sole/ ora, lontano ed in lacrime, io lo rivedo al tramonto./ Oh, perché mi si nega la terra, che il mare divide?/ Eppur questo solo desio, sì discreto mi appare!/ Avrei montato il battello della luna falcata, volando/ alle sicule sponde, per affondare nel petto del sole. (M. Amari in Biblioteca Arabo Sicula, Torino, Bona 1880, Vol.II p.313).
Notevoli poeti furono anche: Abul Arab e Ab dar Rahman da Trapani.
Abul Arab rimpiange la patri perduta:
“Ma dove ne andrò? Già l’anima mia esitante/ or verso occidente, or verso oriente si volge/. E’ necessario partire: ma questo pensier mi tormenta”.
Ab ar Rahman celebra la sua bellissima e regale villa di Favara nei dintorni di Palermo:
“Quale visione, offri tu, Favara eccelso palazzo!/ Tu soggiorno di voluttà, alle rive dei due mari/… Tra le frondi di smeraldo ardono le arance mature/ ove pallido luccica il limone, simile a giovin doglioso/ quando solingo passa la notte, dalla sua amante lontano”. (M. Amari, Biblioteca… op. cit. vol. II, pp.439-441).
Nonostante le apparenze, pure occorre dire che lo spirito arabo mai si fuse con quello del paese: causa questa non ultima della decadenza del dominio musulmano nell’isola. Il mondo degli arabi si mostrò estremamente geloso e refrattario ad ogni esperienza o idea proveniente dall’altro, quello cristiano, anche se riconobbe il rispetto per esso con la conservazione delle principali istituzioni.
Ora la formazione di tanti studiosi arabi, spesso di gran fama, avvenuta nei due secoli circa di dominio, proprio in Sicilia, presuppone una importante organizzazione scolastica di cui sfortunatamente si hanno solo notizie piuttosto frammentarie. Michele Amari nella sua Storia dei Musulmani riassume un lungo passo del mercante arabo Ibn Hawqual del secolo X, il quale descrivendo Palermo parla di trecento moahllems (pedagoghi), che educavano i fanciulli in numerose scuole pubbliche. Nulla si sa sui metodi di insegnamento: si può ipotizzare che tali scuole non solo dovevano essere frequentate dai ragazzi arabi, ma anche da un certo numero di fanciulli siciliani, i cui genitori erano sollecitati da motivi commerciali ad abbracciare la fede e la cultura arabe. Si sa invece con esattezza che il ruolo di maestro era coperto da pubblici funzionari, i quali però, se si deve prestare fede ad una frecciata di Ibn Hawqual, oltre a non possedere una specifica preparazione, lasciavano adito a chiacchiere piuttosto gravi sulla loro integrità morale:
“Nulla era in essi né di bello, né di buono”…non essere in Palermo begli ingegni, né uomini dotti, né sagaci, né religiosi” (M. Amari, Storia…op.cit. vol.II, p.350).
Dallo stesso Ibn Hawqual apprendiamo che il luogo dove si impartiva l’insegnamento erano le moschee (più di 500 su 350 mila abitanti), disseminate nella sola città di Palermo. Anzi egli riprende i palermitani per questa sovrabbondanza e li accusa di superbia e vanità, narrando che un giurista giunse a fabbricare, ad appena venti passi dalla propria, una moschea per il figliuolo, affinché vi desse lezioni di diritto. Molte di queste mosche infatti erano luogo di riunioni per uomini di scienza e insegnanti che vi davano lezioni a livello universitario. Fu certamente in una moschea palermitana che si formò il grande poeta e storico Ibn Al-Qatta, facile poeta a tredici anni e autore tra l’altro di una Storia di Sicilia a noi non pervenuta. Ebbe come maestro in lettere e tradizioni Ibn Abd al Birr.
Tutte questa attività, questa insigne cultura fiorita in due secoli di dominazione, non potevano scomparire al primo turbinio delle armi normanne e infatti lingua e istituzioni arabe rimasero in vita anche parecchi anni dopo il declino politico, le cui cause vanno ricercate nella imperfetta assimilazione dei vinti, nella impotenza del dispotismo e nella confusa democrazia municipale sfociata nell’anarchia generale.
Bibliografia
- M. Amari, Cronaca Araba, Biblioteca Arabo-Sicula, Torino, Bona, 1880
- M. Amari, Storia dei Musulmani in Sicilia, Catania, Prampolini, 1933-1939
- A. De Stefano, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, Palermo, Ciuni, 1938
- F. Gabrieli, Storia e cultura musulmana, Napoli, Ricciardi, 1947
- U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo, Flaccovio,1975
- F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Palermo, Sellerio, 2003
- A. Costantino, Gli Arabi in Sicilia, Palermo, Antares, 2010
- F. Maurici, Breve storia degli Arabi in Sicilia, Palermo, Flaccovio, 2010
- A. Vanoli, La Sicilia musulmana, Bologna, Il Mulino, 2016