Giuseppe Marius Conte, La risacca Poesie e prosa, Avola, Libreria Editrice Urso
Recensione di Vincenzo Fiaschitello
Nel presentare ai lettori questa limpida silloge di versi, il poeta Giuseppe Marius Conte confessa di aver ritenuto per lungo tempo “opportuno che rimanessero in un angolo buio della coscienza certi vissuti, certe fluttuazioni del suo spirito, come se non avessero sufficiente dignità per essere ammesse alla comunicazione”.
Recuperandole e pubblicandole, il poeta ha voluto rimediare al suo errore perché “anche le minute verità della vita reclamano imperiosamente di rientrare sulla scena…non c’è niente al mondo che non sia giovevole”.
Parafrasando un verso del poeta greco Manolis Anaghnostakis, potrei dire che Conte abbia piantato le sue parole come chiodi per sottrarle al vento dell’oblio.
Non è affatto un caso che mi sia venuto in mente il nome di un poeta greco perché il linguaggio poetico di Conte ad ogni passo rinvia alla classicità della Grecia, che resta pur sempre il panorama culturale nel quale trovano posto i suoi pensieri, i suoi sentimenti e le sue emozioni. Proviamo, infatti, a muoverci secondo quanto l’autore stesso dichiara e cioè che due sono i motivi centrali della silloge: il movimento-mutamento e la speranza.
Dobbiamo riconoscere che il movimento-mutamento è strettamente legato al desiderio del viaggio, del cammino, dell’andare e del tornare, come può essere il movimento delle onde marine (la risacca, appunto!). Ma il cammino rinvia anche all’esperienza dello scorrere del tempo (si pensi al viaggio di Ulisse), che a sua volta porta con sé il mutamento.
Non c’è dubbio che quel che emerge da queste riflessioni sia l’antico rapporto tra essere e divenire. Tutta la nostra cultura occidentale è fondata da un lato sul pensiero greco, incline al senso tragico della vita in quanto ritiene che l’uomo va verso il nulla, è mortale; dall’altro sul pensiero giudaico cristiano, che attenua il profondo pessimismo dei greci, introducendo il tema di una seconda vita e quindi il tema della speranza.
Entrambe le dimensioni, cammino-trasmutazione e speranza, Conte le avverte anche nella realtà della natura: “ho visto l’acqua/ del Simeto/ oltre il ponte della ferrovia rotolare di polla in polla,/ e frantumarsi/ e poi ricomporsi… Fu questa la sua sorte. Vivere e spegnersi…per continuare ad essere nella varietà dell’immenso mare”.
Appare più che evidente che, al di là della declinazione di tanti aspetti dolorosi e inquietanti della vita (la gente d’Africa, i bambini innocenti e sofferenti, l’assenza di pace), il poeta predilige la dimensione della speranza che vede rifulgere nella memoria, “quale materia divina/ essenza che pulsa per essere un sogno/… la cosa più vera”, la speranza che prevale persino sul dolore, così come sale “il vento dalle praterie dell’anima”.
Questa presenza, apparentemente muta, silenziosa, sbuca e si fa luce nel ricordo degli ulivi delle Terre Nere, che intristirono quando a vent’anni non privo di attese e speranze li lasciò per cambiar vita tra le “candide trine della galaverna lombarda…E ora -così mi dicono- non hanno/ più linfa./ Guardano il cielo e attendono l’acqua per dissetarsi”.
Il poeta è consapevole che “tutto è mutamento sulle rovine del tempo” e che “restò la polvere/ di tutto quanto più amammo./ Ma solo in parte l’avevamo perduto/… Rifacemmo la casa che il destino ci ha dato”. E più avanti: “la speranza/ porterà braccia e remi robusti alla barca che va”.
Ma dove il viaggio-cammino-mutamento e la speranza si delineano con tutta la loro poeticità e drammaticità è in una sorta di splendido poemetto dialogico che narra della vicenda di Karim, un giovane africano che lascia il suo villaggio e la sua sposa Amina e affida la sua vita a un barcone. Amina che porta nel suo ventre il seme di Karim vorrebbe raggiungerlo, ma egli la dissuade, le confida che non è bello il suo viaggio e che “il sogno/ è un sogno,/ un fantasma vano./ Assai più vera la nostra fede in Dio… non sfidare la sorte, dolcissima Amina!… io tornerò,/ sarò/ la ruota del nostro mulino”.
Dunque ancora la speranza e, in questo caso, la speranza dettata dalla fede religiosa.
Chiude la silloge poetica una breve raccolta di racconti. Mi piace segnalare l’ultimo In corriera, che si chiude ancora con un richiamo alla cultura greca: “Là, nella masseria, avevo imparato assai per tempo a riconoscere il senso del limite, la tragica inclinazione di tutte le cose esistenti verso la loro immancabile fine…Mi rendevo conto che dove c’era il vivere, c’era sempre un lento impercettibile fatalissimo morire”.
Da un lato, il senso del limite: se vuoi raggiungere non certo la felicità (impossibile possederla perché non è un oggetto, è un cammino) ma uno stato di equilibrio o al massimo di temporanea gioia, devi renderti conto che occorre sempre confrontarti con un limite invalicabile. Se sei un poeta non puoi darti l’obiettivo di superare Dante o se sei uno scultore, non puoi aspirare a oltrepassare la fama di Fidia.
Dall’altro lato, il senso della morte e la conseguente angoscia, che l’uomo può tenere sotto controllo nel corso della sua esistenza, soltanto con i sogni, le illusioni, il richiamo della Bellezza, o se credente con la fede in una seconda vita.