Giuseppe Greco, un artista a tutto tondo
di Paolo Vincenti
Ha fatto piccoli quadretti delle sue poesie, arricchiti dai suoi schizzi, e li distribuisce a destra e a manca quando si trova in amicali consessi, quali presentazioni di libri o readings letterari in giro per il Salento. Parabita è la sua terra ma il suo estro poetico, la vivacità delle sue tele, la mitezza del suo carattere e la piacevolezza della sua frequentazione sono conosciuti ben oltre i confini provinciali.
Il Salento è la sua terra, amata, cantata nei versi delle sue liriche e impastata nei colori delle sue tavole, ma egli ama viaggiare perché in tutta Italia vengono apprezzate le sue poesie. Parliamo di Giuseppe Greco, Pippi per gli amici, poeta e pittore parabitano, che chi legge queste pagine già conosce molto bene. Poeta del pennello e pittore delle sue poesie, Giuseppe Greco continua a fare incetta di premi e a partecipare ad una miriade di concorsi letterari su e giù per lo stivale. La stampa locale non manca di dare notizia dei successi conseguiti da questo poeta originale, erede della grande tradizione della poesia dialettale studiata a suo tempo e antologizzata dai più importanti critici letterari della nostra cultura salentina.
Nel numero del maggio 2010 di “NuovAlba”, rivista di storia e cultura parabitana, appare un articolo di Ortensio Seclì intitolato “Emozioni rivissute ricordando La scioscia ‘mmutata”. In questo articolo, Seclì torna su una pubblicazione di Greco che ha visto la luce un paio d’anni fa, vale a dire “Traìni te maravije misteri te culori te tanti jiaggi poisie” (Parabita, Martignano Tipolitografica, 2008)[1] .
L’articolo è una rielaborazione della relazione letta da Ortensio Seclì la sera della presentazione del libro, che si tenne, nel luglio 2008, in un gremito atrio del Castello di Parabita, in una bella e calda serata estiva, con Donato Valli, Giuliana Coppola e alla presenza dell’autore. Traìni te maravije misteri te culori te tanti jiaggi poisie, è una “raccolta d’opere di segni-colori-parole, tecnica mista”, con Prefazione di Donato Valli e traduzione in lingua italiana di Giuliana Coppola, e ad oggi l’unico libro pubblicato da Giuseppe Greco, per il resto abbastanza restio a raccogliere in volume i suoi scritti extravagantes.
Forse egli preferisce farli circolare, di serata in serata e di bocca e in bocca, solo oralmente, come avveniva in un passato remoto quando la trasmissione della poesia era affidata alla memoria e alla lettura degli aedi, poeti girovaganti raccoglitori delle storie di un popolo. Questa unica sua silloge poetica, comunque, ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Scioscia, Ttre rrose, A lla ‘mpete, U specchiu sape, Scindi, Cumete, U celu crìggiu, To ‘ francate, Canisci te stelle, sono i titoli di alcune poesie. Giuseppe Greco, che in un lontano passato, con gusto spagnoleggiante, come pittore si faceva chiamare Josè Amaz, ha insegnato per 35 anni “Teoria e Applicazioni di Geometria Descrittiva e Rilievo Architettonico” presso l’Istituto Statale “Giannelli” di Parabita, quella Parabita alla devozione della cui protettrice, la Madonna della Coltura, Greco è da sempre fortemente attaccato, come confermano alcune sue opere pittoriche, in particolare penso ad una installazione artistica di grandissime dimensioni in cui è raffigurata la Madonna parabitana e che accompagna in maggio i festeggiamenti in onore della patrona degli agricoltori.
Queste opere pittoriche di Pippi Greco sono sostenute da una forte fede e sospinte da un afflato religioso che si avverte anche nelle sue composizioni poetiche nonché, oserei dire, nelle sue personali scelte di una vita modesta, appartata, sobria e quasi francescana. La sua lingua raffinata, attraverso accostamenti di emozioni anche contrapposte, suscitate dall’osservazione delle cose, crea sicuro e suggestivo effetto. Si trovano, nelle sue liriche scritte in punta di penna, come Primavera, T’ha ‘mmutata, Marisciu te Natale, chiaroscuri, nuances, fatti minimi quotidiani, trasposti in poesia. Una poesia che non ha nulla di retorico né di effettato ma che crea, attraverso le combinazioni semantiche e lessicali e la originalità di una scrittura dialettale che ha poche collaterali in Salento, grande affabulazione e partecipazione umana nell’ascoltatore.
E’ curioso come nella sua produzione, a volte partendo da una “poetica degli oggetti”, di matrice quasi realistica, rafforzata anche dall’uso della “lingua de lu tata”, ovvero il dialetto, Greco passi ad inserire oggetti e situazioni comuni in una atmosfera rarefatta, quasi onirica, attraverso delle immagini evocative che ci fanno viaggiare, proprio come sui suoi “carretti di meraviglie”, nel tempo e nello spazio. Tutto ciò, conservando sempre una naturalezza e una estrema semplicità delle situazioni descritte, che prendono a pretesto contesti antropologici minimi, e suscitano nel lettore quasi un senso di nostalgia nei confronti di quell’ambiente umile e spartano e di quel tempo passato pregno di valori e di solidarietà fra consimili. Alcune liriche creano una sincera commozione e molti astanti si scoprono gli occhi umidi di pianto, alla fine di un reading poetico, a cercare di celare quell’empito mal trattenuto.
In poesie come Veni ‘cqua vanda ca se vite a ‘luna, Ssattati ripa ripa su’ lli scoji, o ‘A luna jeu tie l’addhri e lle cose, che trovano humus nel nostro paesaggio salentino, metabolizzato da Greco nel suo sangue di parabitano, partendo da un ambito propriamente municipale, pensiamo a Matonna t’a Cutura, egli raggiunge una dimensione molto più ampia, il suo orizzonte si slarga fino a dilatarsi in concezione del mondo. Sicché, credo, a ragione, potremmo parlare, per Pippi Greco, di una vocazione universale che ne fa un autentico e indiscusso poeta.
PAOLO VINCENTI
Pubblicatoin “Il Galatino”, Galatina, 24 settembre 2010.
[1] Paolo Vincenti,“Quei carretti pieni di meraviglie” di Giuseppe Greco, in “Presenza Taurisanese”, Taurisano, luglio 2008.