Giorgia Deidda, Una pancia piena di sassi, Placebook Publishing, Rieti, 2022. Analisi critica di Lorenzo Spurio
Con Una pancia piena di sassi (2022) la giovane foggiana torna di nuovo a stupire il lettore, dopo la precedente silloge Sillabario senza condono (2020) di cui alcune poesie sono state riedite nell’antologia poetica al femminile Donne d’Amore (2022) a cura di Alberto Barina. Entrambe le pubblicazioni sono state edite da Placebook Publishing di Rieti. Dalle suggestioni che richiamano la stagione del tormento esistenziale esperito con una scrittura fulgente e automatica, ricca di scandagli nella massa grigia delle emozioni, Deidda ci consegna un’opera potente e struggente al contempo. Echi altisonanti della vicenda drammatica (e traumatica) della scissa Virginia Woolf (quella era un’altra età, con altre preoccupazioni, certo, ma la dissociazione e il disturbo psicologico dopotutto non conoscono differenze temporali) e camei più o meno evidenti e percepibili della più alta tradizione lirica, tra sofferenza e allucinazione, travaglio e grande potenza espressiva, di autrici quali Alejandra Pizarnik e Sylvia Plath, tra tutte, si percepiscono via via che la lettura del denso libro procede nelle mani del curioso e mai sazio lettore.
Una pancia piena di sassi, quale ipotetica costruzione nominale aggettivata e contestualizzata, richiama alla mente l’idea di una stortura, di una pesantezza indotta, di una circostanza viziata dagli atteggiamenti, da azioni più o meno coscienti, da fatti personali e sociali inarrestabili. Una pancia dovrebbe essere piena di cibo – semmai – e mai di sassi che, come noto, non possono e non potranno mai fornire un normale nutrimento per i fabbisogni del corpo. I sassi arrecano un peso non quantificabile ma ad ogni modo esorbitante, doloroso e insostenibile. A sua volta genera una situazione di fissità e ammorbamento delle strutture, di assuefazione. Di cosa sta, effettivamente, parlando la Nostra? Ci parla di dolori, sofferenze varie, tentativi di fare pace con se stessa, dilemmi profondi, tentativi di dialoghi con un’alterità scissa da lei ma anche con chi – come l’amato compagno Gabriele Galloni scomparso prematuramente a venticinque anni nel 2020 – non abitano più questa terra presente, sulla quale calpestiamo giorno dopo giorno.
Gabriele Galloni, del quale è recentemente uscito il libro postumo La luna sulle case popolari (ChiPiùNeArtEdizioni – Haunie, Roma, 2021) grazie all’impegno della madre Irma Bacci, è ricordato dalla Deidda nella sua dimensione d’assenza (“brucia la mancanza, brucia la solitudine. / È una poesia che fa male”, p. 28), nel grande congedo che ha prodotto (“pesa il vuoto, pesa l’indice di abbandono, / pesa quando non sei; pesa la rabbia che divampa, / pesano le tue mani lontane”, p. 45), nella lancinante sofferenza della sua separazione dalla Nostra ma anche, per brevi squarci, dalle immagini e agli ambienti a lui cari, quelli del Lungotevere a Roma e la spiaggia di Focene (resa da lui celebre anche da alcuni sonetti della stagione dell’Estate del mondo, della provincia assolata e dei suoi frugali misteri suburbani). Galloni è, comunque, per la Nostra non solo un ricordo vivido e immancabile, ma un pezzo di concretezza, di vita vissuta e da lei interiorizzata nel profondo: “La vita mi possiede – / mi possiede senza alcuna pretesa” (p. 25). Con una spontaneità che è quella degli amanti, tra promesse reiterate nel silenzio dei giorni e ricomposte in una mente lucida che mai viene meno al colloquio con l’altro da sé che è parte (costante e inclusiva) del proprio sé.
Di Galloni, però, c’è anche altro imbevuto nella scrittura della Deidda. In un’intervista che Ilaria Palomba a giugno 2019 fece a Galloni su «Pangea», lui propose un “lunatico” manifesto del “gallonismo”, di quella venatura ispirativa tutta particolare che lo ha connotato e che lo descrive peculiarmente anche oggi che non c’è più. Lì, tra i vari punti da lui delineati e in posizione preminente figurava “l’attrazione per il mondo al di là – o sotterraneo. Per il rimosso, il tabù, il limite. Il morire, la ritualità del morire; la Morte. I morti (of course). La civiltà dei defunti, l’architettura funeraria”. Aspetto che troviamo senz’altro in varie liriche di Una pancia piena di sassi di Giorgia Deidda: “io sono amica dei morti” (p. 47); “la luna è un’escrescenza, bulbosa / risiede nelle nostre teste, / ci spiega la morte se la guardiamo” (p. 51); “la morte non è ch’ombra sottile sui nostri volti, / si gira a guardarci e i morti ci parlano” (p. 75).
Come già osservato altrove, anche da altri, la Deidda è una voce nuova e irruenta nel panorama della poesia contemporanea, le cui urla non rimangono inascoltate. Il verso tendenzialmente ampio è contenitore di lamenti e appelli, tentativi di soccorso ma anche inviti all’ascolto, un peregrinare convulso in quella “Antartide nera” di cui parlava proprio Galloni, al quale amorevolmente scrive: “Sai che ti vedo dappertutto, / […] voleremo assieme / […] lo spirito mi guiderà” (p. 14).
Ci troviamo dinanzi a un’autobiografia minima in medias res della poetessa: il suo libro è il tracciato delle vicissitudini e dei sobbalzi emotivi, dei rischi continui di sprofondare nell’abisso ma anche il tracciato meno evidente di possibili geografie proiettate verso una maggiore autocoscienza, al compimento di passi intermedi di un percorso che traghetta l’essere a una comprensione meno frugale e fugace del presente.
Importante è il testamento della poesia confessionale di stampo statunitense – come non pensare ad Anne Sexton – ma con lei non può non essere richiamata anche la vicenda (troppo breve) e tragica dell’ucraina Nika Turbina, la poetessa giovanissima della Crimea che si definì una “bambola rotta” e che, con un linguaggio franto e icastico non dissimile da quello della Deidda, purtroppo mise in scena nel reale un tentativo di fuga estremo dal mondo ritenuto disattento, inclemente, non in linea con la sua natura tribolata di essere pensante, disturbato e dotato di grande capacità creativa e un’indissolubile ansia. Deidda sembra fare eco alla Turbina quando annota: “Io sono una creatura spezzata, tenuta in piedi / da stampelle ortopediche” (p. 27).
Sono, questi, riferimenti che forse potrebbero (dovrebbero?) non essere fatti in tale circostanza perché, sebbene in molte cose siano richiamabili in quanto a consonanze con la Deidda, d’altra parte non dovrebbero iscriverla totalmente in quella corrente della disperazione totale, del disprezzo della vita (che in Deidda infatti – e lo rimarco – non c’è) e del disancoramento dal reale a favore di un’immersione in uno spazio-tempo confuso, illusorio, improntato a una continua minaccia al sé, a un disfacimento logorante del pensiero.
La citazione posta in esergo dalla Deidda nella sua nuova opera è tratta da Tagore, testo della tradizione e della filosofia orientale, nella quale si legge: “La nuvola nasconde le stelle e canta vittoria ma poi svanisce: le stelle durano”. In poche parole è ben espressa la metafora della transitorietà del reale, ma anche del labile camuffamento della realtà fisica che ci fa apparire le cose diverse da come le conosciamo, per giungere alla certezza della luce. Tema, quest’ultimo, assai caro anche alla tradizione cattolica in cui ravvisa, nella sua immagine e simbologia, l’idea di una liberazione totale e di una rinascita in un mondo universale. Le stelle di Giorgia Deidda sono simboliche ed emblematiche, figurate e ipotizzabili, lontane e vicine, illusorie e concrete, umane e non…tra quelle di sembianza umana vi si ritrovano senz’altro il già citato Galloni e la cara amica – anch’ella poetessa – Ilaria Palomba. Sono, tuttavia, segni labili che, al pari di ogni elemento del reale, non trasmettono completa sicurezza, simboli di una transitorietà dubbia, di una levità momentanea, irrimediabilmente inarrivabili fin quando non intraprendono una deludente (e angosciante) caduta: “Le mie stelle da comodino, le luminose fisse, / non spiano più – / sono cadute a frotte già per il pavimento / e adesso risplendono dal basso verso l’alto” (p. 18).
Contributi di lettura e d’interpretazione arricchiscono il volume fornendo alcuni spunti utili per una migliore e più approfondita esegesi dell’opera, di alcuni componimenti, dei contenuti così versatili e numerosi, tendenzialmente difficili da mappare, da collegare tra loro, essendo l’intera opera poetica della Nostra un mare magnum vasto e inestricabile, una campitura toponomastica con poche pietre miliari e punti di raccordo e molte anse vorticose, abissi inarginabili, zone d’ombra, interrogativi che via via richiedono tempo, giusta attenzione, auto lettura e interrogazione.
La prefazione è a firma di Antonio Rotondo che scrive: “Tra le righe dei suoi scritti traspare quella necessità di evasione” (p. 8). Aspetto, questo, di cui si è in qualche modo detto – o alluso – parlando di tentativi di fuga, per l’appunto, ma anche di necessità dell’io lirico di porsi dinanzi a un simbolico specchio che fornisca la lettura del reale, spesso così difficile da estrinsecare dai fatti della vita. L’evasione è possibile e al contempo è funzionale proprio per fornire quel dettato prevalentemente angustiato che proviene da una frenesia e disorientamento generale dell’io lirico (parliamo di questo evitando la sciatteria di far coincidere l’io lirico con l’Autrice sebbene, come si è detto, pare di credere di trovarsi dinanzi a una sorta di autobiografia).
L’evasione è anche propedeutica per evitare il collasso, la rottura, l’inabissamento, il naufragio, in altre parole: la caduta. Vale a dire quel rischio che si corre continuamente e che si fa sempre più pernicioso: non è un caso che in precedenza la Deidda abbia parlato di un “sillabario senza condono”, alludendo a un improbabile volume nozionistico che fornisca, come in una tarda lallazione da intraprendere, suoni e segni di una scrittura da interiorizzare. Esso è un condono (una remissione di una condanna o di una mancanza in generale), ma anche un viatico, una sorta di elisir o medium pensato come efficace per evitare il tracollo. Il titolo del suo romanzo, La fenice sul filo di spago (2021), evidenzia, in chiave sinottica, l’aspetto della possibile rinascita (la fenice) a partire da una distruzione segue una catarsi che dà vita nuova con una maggiore tempra sebbene questa sia inserita in una situazione di sospensione e incertezza quale è appunto quella di un filo di spago: troppo fino e vulnerabile, insicuro, prossimo a sfilacciarsi e a far cadere, poggiata in una levità transitoria su un supporto che si sgretola velocemente decretando una discesa rovinosa[1]. Tutti questi titoli delle opere della Deidda non possono non far pensare anche al tessuto confuso e all’introspezione esasperata seppur dissociata e frenetica che la Plath ne La campana di vetro – opera ritenuta maggiore anche alle poesie di Ariel – assume nel corso della narrazione, depistante, diplopeica e a più livelli, aggrovigliata e crespa, fortemente imbevuta di una tristezza accumulatasi nel tempo. C’è una seconda prefazione, a firma di Yuri Ferrante, che parla di questo secondo aspetto – quello del sentore dell’imminente tracollo – quando annota della “possibilità della rottura, della frattura, dell’essere spogliata di ogni carne” (p. 11).
Si entra così nel vivo nel riferirsi all’opera della Deidda quale poesia organica, poesia delle ossa, della consunzione e del dissipamento. Il tema delle ossa richiama l’idea della spoliazione e della nudità, ma anche di una crudezza che ha perso la sua materia. Continui riferimenti e occorrenze lemmatiche alle ossa nell’opera della Nostra (e quasi mai, o per lo meno molto meno, di sangue che richiamerebbe l’idea di un dissipamento e crimine, di un fiottare doloroso che porta alla fine della vita) vengono incontrati dal lettore: “l’osso si distanzia e si deforma, / crepa di venature violacee” (p. 23), “la gente informe guarda l’osso incavo che squaglia la deformità della parete” (p. 26) sino al potente verso che dà il titolo alla raccolta: “cammino con i sassi nella pancia; / l’osso sbuca dalle costole, / il cibo che non ho ingurgitato” (p. 30). Al contrario, le ossa sono immagini di uno svelamento che porta all’ossificazione, che va dritto alla materia organica nelle sue più infime caratteristiche: l’avvicinamento al dato fisico – microfisico – è empirico e simbolico al contempo. Le ossa non sono un reperto archeologico, né l’oggetto di disanima di un’analisi autoptica ma, al contrario, è l’evidenza di un tormento consustanziale della carne, al trauma e alla sofferenza – che non è tanto fisica, quanto psicologica – che l’essere vive (sopporta, soffre, arreca con sé).
Dinanzi a uno scenario desolante e grandguignolesco che Ferrante definisce (forse minimizzando) una “scenografia febbrile [con] agitate inquietudini” quest’ultimo sostiene che non vi è mai una completa rassegnazione (p. 11). Tra gli altri contributi critici segnalo quelli che serrano il volume. Come erano due le prefazioni, in un’ottica di completezza e di equanime confronto tra gli esegeti del testo, due sono le postfazioni: Damiano Maggio sottolinea la metafora (diremmo l’atteggiamento) di “scavare l’osso” in questa poesia del tormento in cui “la parola diventa cosa, diventa carne e sangue” (p. 94). A seguire sono alcune parole di considerazione di Rossella Venusto.
Per meglio analizzare la magmatica opera della Deidda (“non so dire il garbuglio che mi porto dietro”, p. 20) reputo fondamentale citare i suoi stessi versi: ci consentiranno di avere un panorama ampio e concentrato della sua visione poematica.
Nelle poesie della “ragazza della terza contrada di destra” (di Orta Nova), prevalentemente d’interni e notturne[2], troviamo immagini di tagli, ferite, incrinature, lesioni varie, crepe e ricuciture, collisioni dinanzi alle quali l’io lirico è alacremente impegnato in stratagemmi di ricomposizione e ricucitura del trauma che corrode e del dolore che sfibra. Elementi di un mondo residuale e scatologico, di un mondo degradato (ruggine, sbavature), tentato o minacciato (sembianze demoniache), sottoposto all’analisi autoptica, all’azione vivisezionatrice, a lastre, raggi X profondi fino all’anima. Occhi vitrei, metastasi, spine nella carne, oscillazioni pericolose e incontrollabili, vertigini e presagi di morte, mentre i legni scricchiolano e si formano ributtanti e fosche file di insetti, si assomma il disturbo psicologico da lei presentato con il suo vero nome: la dismorfofobia (“gli specchi mi rendono la mia immagine / tutta deformata”, p. 58).
Pensieri ossessivi e assuefazione, stordimento e astenia che il supporto psicofarmacologico in parte acquietano in quell’instabilità dei giorni dominata dalla (e si noti la forza pungente di queste espressioni[3]) “amputazione del pensiero” (p. 85). L’esperienza della sofferenza (“i dolori sono tanti e vari. Li ho affrontati tutti, negli ospedali, a casa, nel letto”, p. 28) ha, se non abbandonato del tutto la Nostra, senz’altro contribuito a forgiare un carattere nel corso degli accadimenti che sono intercorsi (“io non sento altro che dolore scavato nella roccia”, p. 13) e hanno visto l’io lirico sedotto e ingannato da abulia, stanchezza e disordine mentale (“e dormo in una stasi marmorea, / in un’indicibile distimia e abulia”, p. 60). Quel dormire appare come un’eco dell’amara e congedante “Voy a dormir” dell’argentina Alfonsina Storni che, come le altre poetesse citate nello scritto, decise da lei la propria fine.
Lorenzo Spurio
Jesi, 23/11/2022
[1] “Nel sole io muoio, io nasco nelle tenebre / nel raggio io verto sui tetti del mondo” (p. 13); “Nel fango c’è la vita” (p. 21).
[2] “La notte mi fa da compagnia, è una noesi / in cui io divento l’abbandono” (p. 53).
[3] Alcune forti immagini (di dolore e in qualche modo disturbanti) mi ricordano Infezione (Arpeggio Libero, Lodi, 2012) e Venere storpia (Montedit, Melegnano, 2014), due sillogi della poetessa Sunshine Faggio lette e recensite a suo tempo.