“Ginevra Sforza”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello – Parte seconda [continua]
Si riconciliarono, sorridendo e abbracciandosi, perché come al dolore il cuore non sa dire scompari, così all’amore non sa dire calmati, per cui torna più di prima alla passione e al piacere.
Dunque le nuvole si diradavano quel giorno. Ma chi poteva dirlo che un’altra tempesta non si preparasse sul loro cielo? Il conte D. aveva invitato nel suo bel palazzo una schiera di nobili coppie, tutte vicine alla famiglia Bentivoglio. Tra i nobili più in vista vi era il conte della Porretta, accompagnato dalla moglie Nicolosa. Era stata un’ottima occasione per Sante e l’amante. Per tutta la sera avevano ballato e brindato insieme sotto lo sguardo geloso delle donne presenti. Geloso non sembrava invece il marito. In un momento in cui la musica taceva e si dava più spazio al cicaleccio, il conte approfittò per avvicinarsi a Sante e lo pregò di seguirlo in un angolo del viridario.
-“Sante, vorrei spiegarmi con brevi e chiare parole. Come sai, la mia salute da tempo è compromessa e ho già superato la sessantina. Io ho visto come voi due vi scambiate sguardi e sorrisi, come corre tra voi grande simpatia. Vi capisco e certamente non posso impedire alla mia giovane sposa di avere quel che io non posso più darle. Ti chiedo però di non infangare il nome della mia famiglia, che è stata sempre rispettabile per onorabilità e per onestà, dignità, legalità e amore per la cultura e la bellezza”.
Sante ascoltava in silenzio, con rispetto e ammirazione verso quel vecchio che parlava con calma e quasi con distacco. Fece soltanto un cenno col capo, si allontanò e raggiunse gli altri invitati.
Qualche giorno dopo ne parlò a Nicolosa e restò fortemente meravigliato che lei non sapesse nulla. Quindi il vecchio era a conoscenza di tutto e si era limitato a suggerirgli di mantenere un comportamento corretto.
Quel 19 maggio 1454 fu un giorno di grandissima festa. Fiori e vessilli dappertutto, finestre e balconi con drappi colorati, la gente assiepata ai lati delle strade attendeva il passaggio del corteo nuziale. Le dame erano vestite con abiti sontuosi in velluto, in prezioso broccato e damasco; la pellanda sfarzosa e ricca di ornamenti con strascico foderato di seta, faceva intravedere la gamurra con la vita alta e le maniche basse con larghi squarci da cui uscivano gli sbuffi della camicia. Tutte portavano preziose collane di perle, braccialetti, anelli, reti d’oro ingioiellate che raccoglievano i capelli. I cavalieri non erano da meno per l’eleganza: indossavano il lucco chiuso al collo da un gancio d’oro, cappello con medaglie e appuntati sul petto cammei, collane d’oro, cintura di velluto chiusa da una fibbia d’oro e al fianco la spada. La sposa, bellissima e giovanissima, riceveva applausi a ogni passo. Le madri piangevano lacrime di gioia e di tenerezza per quella principessa e avrebbero voluto che le loro figlie rassomigliassero almeno un po’ a quella splendida creatura che passava dinanzi a loro e salutava con tanta grazia.
Un fatto imprevisto smorzò la gioia della festa. Quando il corteo giunse davanti a San Petronio, trovò il portone della cattedrale sbarrato. Dopo un momento di smarrimento, lo sposo diede ordine di dirigersi verso la chiesa di San Giacomo, dove entrò la schiera delle seicentotrentaquattro coppie di nobili invitate al matrimonio.
Era stato il cardinale Bessarione in persona a disporre la chiusura della cattedrale per il mancato rispetto del decreto che aveva emanato alcuni giorni prima, con il quale vietava il lusso e lo sfarzo nell’abbigliamento in occasione di feste e di cerimonie. Si diceva in città che il cardinale, uomo di grande cultura, benemerito per aver portato codici preziosi dall’Oriente, avesse subito l’influenza dei maestri domenicani dello Studium Generale di San Domenico, che erano particolarmente attenti oltre che al rispetto dei dogmi, anche alla morale e ai costumi. Non passerà che qualche decennio e in quello Studium avrà l’incarico prestigioso di maestro un famoso predicatore, Girolamo Savanarola, che senza alcuna moderazione, si scagliava contro la forte decadenza dei costumi e dal pulpito tuonava: “Si assiste all’infinita miseria degli uomini, a stupri, a turpiloquio. La società ha perduto ogni capacità di bene. Vedi oggi le donne portare le insegne e gli ornamenti delle meretrici e tutti i modi di ornarsi che usano le meretrici le li vogliono usare anche loro. Quando tu vedi una donna andare spettorata e lisciarsi superfluamente non dì tu: che segni sono questi? Questi non sono segni di donna onesta. Certo la debbe essere maculata da qualche cattiva intenzione. Se tu la vedi tutto il dì cicalare coi giovani, tu ne fai cattivo concetto, che la non sia pudica. Perciò io dico che è giusto proibire con decreto vesti scollate ed elaborate acconciature delle donne, di proibire alle donne di portare gioielli e collane al collo, alle braccia e perle e stoffe ornate d’oro. Se così si farà, il Signore Iddio promette certamente a questa città grandissimo gaudio”.
Dopo il matrimonio come aveva promesso, Sante continuò a frequentare la sua amante, anche se con molta prudenza per evitare scandali nella sua famiglia e in quella del vecchio Sanuti. Costui, pochi mesi dopo, dalla sera del ricevimento durante la quale lo aveva blandamente avvertito di non disonorarlo, morì a causa della sua malattia, senza lasciare figli. La sorte, dunque, favorì i due amanti, ma la presenza di Ginevra e la conseguente gelosia di Nicolosa nei suoi confronti crearono molti dissapori. Sante non faceva in tempo a trovare scuse e giustificazioni verso l’amante, che doveva rassicurare la legittima sposa, già da tempo venuta a conoscenza della sua infedeltà. Da un anno all’altro, sebbene giovanissima, Ginevra era maturata alquanto, sia con lo studio delle lettere che non aveva abbandonato da quando aveva lasciato la casa paterna di Pesaro, sia con la frequentazione di varie persone colte. Restò affascinata soprattutto da un frate del convento francescano, fra’ Alberto Pisani con il quale aveva continui colloqui, e da una donna, Gentile Budrioli, bellissima moglie di un notaio, che aveva casa di fronte al convento dei domenicani. Si legò di così forte amicizia con Gentile al punto che la volle come dama di compagnia.
I primi cinque anni di matrimonio riservarono alla giovanissima Ginevra grandi soddisfazioni per la vita sfarzosa che poté condurre. Non le mancarono gioielli e abiti preziosi che nelle cerimonie e feste pubbliche poteva sfoggiare, ammirata da tutti. Ma non le mancarono neanche molte amarezze. Quella che più di tutte la angustiò e mal sopportò fu l’infedeltà di Sante. Questi la trascurava, tutto preso com’era dai problemi politici e dalla passione amorosa che lo legava a Nicolosa. Ginevra dovette attendere ben cinque anni dal matrimonio prima che le nascesse il primo figlio, Ercole.
-“Ora finalmente, le diceva Sante, hai assolto il tuo dovere di moglie. Mi hai dato un erede e spero che mi lascerai in pace per qualche tempo.”
-“Sì certo, ribatteva Ginevra, così agli occhi dei bolognesi potrai apparire come il signore che ha garantito la successione del potere dei Bentivoglio. Ma bada bene che le famiglie che ti odiano sono tante e non apprezzano affatto che sperperi denaro in regali lussuosi con la tua amante.”
Battibecchi di tal genere erano diventati molto frequenti nella casa dei Bentivoglio. Nell’animo di Ginevra si insinuava un sottile desiderio di vendetta.
Dal giorno in cui Sante si era insediato a Bologna come signore della città, Giovanni, cugino di Sante, ancora ragazzo e legittimo successore, era stato inviato per la sua formazione presso la corte di Napoli, ma in realtà per tenerlo lontano. Tornato a Bologna, cominciava a farsi notare per la sua intelligenza e per l’elegante portamento. Le giovani dame già lo guardavano con simpatia e interesse. Su chi, se non su di lui, Ginevra poteva mettere gli occhi? In poco tempo non fu difficile accorgersi che tra i due era nata una tenera intesa, sulla quale però sia Ginevra che Giovanni mantenevano il più stretto riserbo.
In quel tempo Ginevra ebbe l’opportunità di allontanarsi dalla città e dal peso delle responsabilità della amministrazione della casa per trascorrere un piacevole soggiorno nel palazzo del duca Federico da Montefeltro, che qualche mese prima aveva preso in moglie la sorella Battista. Era stata lei a pregare il marito di rivolgere l’invito a Ginevra, che appunto aveva accettato con gioia. Quando nel palazzo di Urbino, Ginevra si incontrò per la prima volta con quell’uomo dall’aspetto solenne, severo e principesco, ebbe una forte emozione che poi condivise in privato in un lungo cicaleccio con la sorella.
Anche su di noi ancora oggi il ritratto di Federico, che fa parte del famoso dittico di Piero della Francesca, suscita una forte impressione, specie se lo sguardo si concentra su quel naso particolarissimo.
Federico era ben noto tra la sua gente come mecenate, protettore di artisti e letterati. Durante le piacevoli conversazioni serali in una delle grandi sale del palazzo, accanto al gigantesco camino scolpito, Federico manifestava tutta la sua ammirazione per le botteghe artigiane di artisti che sapevano creare cose belle e straordinarie. “Voi a Bologna, diceva, dovete tenervi molto caro Bessarione, il legato del papa. Ha fatto bene il papa a concedergli il cappello cardinalizio, perché ha salvato molti preziosissimi manoscritti dalla furia selvaggia e distruttiva dei turchi. Se non avesse previsto la caduta di Costantinopoli di qualche anno fa, gran parte della cultura dell’antica Grecia sarebbe stata dispersa.”
A sentire il nome di Bessarione, Ginevra, ricordando l’episodio di San Petronio, non poté trattenersi dal fare una piccola smorfia di cui per fortuna il principe non si accorse. Ma certamente riconosceva al cardinale quei meriti che Federico gli attribuiva.
-“E’ per farvi una felice sorpresa che domani arriveranno qui i due fratelli Laurana, Luciano e Francesco. Sono due scultori di gran fama, anche se ancora giovani. Ho commissionato due busti di marmo per eternare la vostra bellezza”. Battista e Ginevra accennarono a un applauso e attesero con gioia a sottoporsi a quella gradita prova. Lo scultore Luciano si dedicò al busto di Battista, mentre il fratello Luciano scolpì quello di Ginevra.
Nel lasciare Urbino, Federico le assicurò che non appena terminata le avrebbe fatto avere la scultura a Bologna. (1)
I rapporti tra Ginevra e Sante erano andati migliorando; Ginevra aveva avuto una seconda gravidanza ed era nata una bambina. Invece la passione tra i due amanti Sante e Nicolosa, dopo la morte del marito di lei, era venuta meno. Prima, in certi momenti speciali nei quali si abbandonavano ai sogni, intravedevano la possibilità che un giorno avrebbero potuto vivere insieme in un palazzo splendido costruito dai migliori architetti del tempo. Ora che Nicolosa aveva ereditato una immensa fortuna dal duca suo marito, sembrava a Sante profondamente cambiata. Vedeva in lei consolidarsi un senso pratico che la faceva sentire lontana e distaccata, come se fosse scomparso l’amore. La durezza di quel limite che per la prima volta emergeva dalla sua personalità gli procurava una grande delusione. Lei cercava di giustificarsi ogni volta che le faceva notare quel cambiamento: “Caro, ho promesso a Nicolò sul letto di morte che, in sua memoria e per l’onore
della famiglia Sanuti, farò costruire il più bel palazzo di Bologna. Anche tu, con il tuo potere, potrai far costruire un palazzo, il palazzo Bentivoglio, altrettanto bello e sfarzoso. Così i nostri due palazzi gareggeranno in bellezza!” Sante, adirato, non rispondeva o diceva: ”Non devi essere tu a dirmi cosa e come devo fare”. E se ne andava, lasciandola sola.
Non passò molto tempo che Sante si ammalò. Era una malattia sconosciuta. I migliori medici che si alternavano al suo capezzale si ritiravano sconfortati, incapaci di fare una diagnosi attendibile. Sante peggiorava di giorno in giorno, la febbre lo divorava specialmente di notte. La notizia della sua malattia non poteva restare nascosta. A Bologna non si parlava d’altro.
Le famiglie nemiche, anche se non apertamente, gioivano e facevano pensieri ambiziosi. Il piccolo Ercole non aveva neanche due anni. L’unico che poteva aspirare a raccogliere l’eredità era il giovane cugino Giovanni. Ed era noto a tutti che tra lui e Ginevra c’era una intesa sentimentale.
Ginevra passava molte ore di quelle difficili giornate presso l’imponente letto chiuso da spesse cortine dove giaceva Sante. Questi, nei rari momenti di lucidità e di quiete, raccomandava alla moglie di elargire generose elemosine ai poveri della città, di fare larghe donazioni al convento dei domenicani e di lasciare una forte somma di denaro per la messa perpetua in suffragio della sua anima. Dopo una vita piuttosto sregolata, dedita all’esercizio del potere, agli odi dei nemici, alle feste mondane, al lusso, ai piaceri sessuali, ecco in Sante riemergere in punto di morte quella coscienza medioevale sostanziata dal pensiero di Dio, dell’anima, della carità, che lui, uomo del Quattrocento, fino a poco tempo prima aveva fortemente irriso, circondato com’era da uomini illustri, artisti e letterati che celebravano l’uomo come centro dell’universo, come fattore unico della propria fortuna (2).
(1)Il busto di Battista può ancora oggi essere ammirato, non altrettanto purtroppo quello di Ginevra: andrà distrutto quando il palazzo dei Bentivoglio verrà raso al suolo. Lo scultore Francesco Laurana aveva voluto incidervi il suo nome. In pochissime altre sue sculture si trova la firma dell’autore. Una di queste è la Madonna col bambino detta Madonna della neve sul cui bordo superiore della base si legge Franciscus Laurana me fecit 1471. E’ una statua proveniente dall’antica città di Noto distrutta da un terremoto alla fine del seicento. Recuperata fortunosamente venne collocata su un altare della chiesa del Crocifisso nella città ricostruita in un altro sito. In questa città, dove ho trascorso la mia fanciullezza e la prima giovinezza, ho trovato una sorta di filo rosso con la vicenda umana di Ginevra, non solo per l’opera d’arte del Laurana, ma anche per due altri personaggi che sono ricordati con due busti di marmo nei giardini pubblici: il primo è l’umanista Giovanni Aurispa, che insegnò all’Università di Bologna e fu maestro di Lorenzo Valla; il secondo è il teologo Rocco Pirri, probabilmente appartenente alla stessa famiglia di quel Domenico Pirri, teologo e inquisitore del tribunale di Bologna, vissuto un secolo prima, che ha un posto di primo piano nella presente narrazione.
(2)Nella famosa Orazione sulla dignità dell’uomo, Pico della Mirandola scrive: “O Adam…medium te mundi posui, ut circumspiceres inde commodius quicquid est in mundo. ( O Adamo… ti ho collocato nel centro del mondo affinché tu possa meglio contemplare ciò che il mondo contiene)