“Ginevra Sforza”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello – Parte quarta [continua]
Da quel momento feci oggetto dei miei interessi culturali anche la filosofia.
Nonostante l’avvertimento del filosofo greco, io volevo proseguire nel mio lavoro di scavo e scendere in quell’abisso dell’anima, dove ero certo di trovare una radice che mi avrebbe consentito di conoscere meglio me stesso e il mondo. Tuttavia capivo vagamente che più precipitavo nella mia interiorità e più cresceva la mia inquietudine. La notte, i sogni erano incubi. Sentivo voci strane, lunghe risate, lamenti e pianti. Credevo proprio di essere diventato pazzo. Cercavo certezze, ma mi ritrovavo come in uno spazio intermedio tra un campo ben ordinato e compatto di grano maturo e un acquitrino dove nuotavano animali ripugnanti. Sentivo l’impossibilità di accedere al mistero, anche se una energia sconosciuta proveniente da quella sorta di magma di ragione e di follia mi spingeva a farlo. Ma era una energia priva di parola che non mi avrebbe dato alcuna possibilità di interpretazione. Mi quietavo e liberandomi da quella lotta interiore mi dicevo che era meglio che il mistero rimanesse tale. Comunque dopo quella inquietudine, quelle turbolenze che mi sconvolgevano, mi accorgevo di possedere una maggiore lucidità nell’escogitare prove ed esperimenti. Infatti ora il mio intuito mi consiglia bene e riesco a ottenere molte guarigioni. Ti suggerisco di seguire il mio esempio: devi interrogarti continuamente, macerarti dentro così come si fa con le erbe. Questo è il segreto, se vuoi acquistare fama di guaritrice. Devi evocare quella voce interiore, quello spirito che ti fa agire senza errore, ma… Aspetta! Non hai sentito anche tu un fruscio? E fra’ Silvestro corse verso la porta, l’aprì ma non vide nulla. Dobbiamo essere prudenti, non creare sospetti di alcun genere. E’ meglio che tu non venga più nel mio laboratorio. Parleremo di astri e di erbe solo al termine delle lezioni all’università”.
Prima di salutarsi, fra’ Silvestro diede in dono a Gentile alcune delle sue boccette di erbe miracolose e dispensò preziosi consigli sul tipo di malattie e sulla somministrazione degli infusi.
Nei mesi seguenti, Gentile nella sua grande casa del Torresotto di Porta Nova, da dove scorgeva la chiesa di San Domenico e il convento dei domenicani, riservò per sé una stanza dove si ritirava per approfondire le conoscenze di erboristeria e per fare le sue prove di guaritrice. I suoi primi pazienti furono una vecchietta che soffriva di vertigini e un bambino di pochi anni che aveva disturbi allo stomaco.
Poco alla volta i bolognesi apprezzarono l’arte di guaritrice di Gentile; la sua fama si diffuse anche come dama di compagnia e consigliera di Ginevra. Le due donne venivano accomunate nel bene e nel male di ogni evento che si verificava in città. I nemici dei Bentivoglio erano pronti a diffondere malevolenze contro il signore di Bologna, Giovanni. Tra le altre cose gli rimproveravano il fatto che era succube di quelle donne che influenzavano pesantemente la politica della signoria. Giovanni aveva fatto sua l’idea del cugino Sante di costruire un palazzo sontuoso dove appunto trasferirsi con la corte. Quando più tardi fece costruire accanto al palazzo un’alta e imponente torre che avrebbe dovuto difenderlo da ogni pericolo di rivolta del popolo, ecco che i suoi nemici ebbero buon gioco a far crescere ancora di più il malcontento tra la gente.
Ginevra, impegnata in continue gravidanze, non aveva molto tempo per sfoggiare i suoi preziosi abiti, le acconciature dei capelli impreziositi da forcine d’oro e da perle, ma quelle poche volte che si profilavano le occasioni, non mancava di presenziare ai ricevimenti di personaggi illustri, di artisti, di dotti ecclesiastici e di potenti uomini di stato che venivano a far visita a Giovanni. Bologna da sempre era una città ammirata per la cultura come sede di università e rispettata politicamente come signoria alleata ai potenti Sforza del ducato di Milano, cosa questa che serviva soprattutto per tenere a bada le ambizioni dei pontefici che rivendicavano diritti su tutto il territorio.
In tali incontri, Ginevra non si separava mai da Gentile. Entrambe con la loro eleganza, bellezza e cultura, si facevano apprezzare da una società maschilista per i loro interventi saggi e pertinenti che suscitavano ammirazione e rispetto. Giudicavano la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi un gravissimo pericolo e auspicavano una unione di forze per fermare la loro avanzata in Europa. Apprezzavano la riscoperta della cultura classica latina e greca, che ora con l’invenzione della stampa poteva avere una grande diffusione. Dicevano al riguardo che la loro città di Bologna poteva ritenersi all’avanguardia perché proprio in quegli anni (1470-1471) era stato stampato a Bologna un primo libro secondo la tecnica di Gutenberg per iniziativa di due cittadini bolognesi, loro amici: Baldassarre Azzoguidi e Guglielmo Malpigli. I due imprenditori avevano avuto un incoraggiamento da parte di Giovanni. Essi lamentavano il fatto che l’università non era del tutto entusiasta del nuovo metodo, perché un gran numero di scrivani come amanuensi, copisti, decoratori, artigiani della pergamena, di solito ex studenti, sarebbero rimasti senza lavoro: “In compenso diceva il signore di Bologna, se viene meno l’interesse per la stampa da parte dell’università, ricordatevi che c’è un vasto campo che può favorire la vostra impresa: c’è la Chiesa con la stampa di testi devozionali, di edificazione religiosa; c’è la signoria per la stampa dei decreti, delle leggi, degli statuti. Vedrete che la gente istruita avrà bisogno dei classici, delle grammatiche e altro”.
Altri temi nei quali le due giovani donne amavano intervenire erano quelli della famiglia dei Medici di Firenze, della presenza del frate Girolamo Savanarola, del rafforzamento del tribunale dell’Inquisizione di Bologna. Quanto alla famiglia dei Medici, Ginevra non poteva non ricordare il lungo legame affettivo e politico; diceva infatti che Sante era stato educato a Firenze ed era stato appoggiato da quella famiglia per diventare signore di Bologna. Lei stessa ammirava tanto i Medici al punto che aveva affidato il suo primo figlio, Ercole, avuto da Sante alla corte di Firenze per la sua formazione. Apprezzava senza riserve il giovane Lorenzo de’ Medici, che dopo la morte del padre Piero, aveva preso in mano le redini del potere superando la tristissima vicenda della congiura de’ Pazzi. Quel che più le piaceva della sua politica erano quelle stesse idee che lei manifestava in ogni occasione: lottare per imporre uno spirito libero e laico. La sua opposizione al papa era la stessa che lei condivideva pienamente e non mancava di sollecitare Giovanni a tenersi in guardia dalla agguerrita autorità del legato pontificio, sempre pronto a far naufragare quel nuovo spirito di rinascenza, di arte e di cultura. Non per nulla Ginevra al pari di Lorenzo amava proporsi come mecenate e diceva che lui era fortunato perché grandi artisti come Botticelli e Leonardo da Vinci avevano accettato di lavorare a Firenze. Sentendola discutere di tali argomenti, gli uomini dimenticavano di avere dinanzi una donna e ascoltavano quelle opinioni con grande rispetto. Certo, ammetteva Ginevra che la presenza di Savanarola a Firenze (tra l’altro invitato a Firenze dallo stesso Lorenzo), con le continue prediche dai pulpiti delle chiese, mentre profetizzava disgrazie di ogni tipo sulla città se i costumi continuavano a mantenersi nel lusso sfrenato e nella lussuria e se il governo della città non smetteva di restare in mano a una sola persona per trasformarsi invece in repubblica, costituiva una dolorosa spina.
Un altro argomento di discussione, per la verità piuttosto pericoloso, era la vittoria dei domenicani di Bologna che avevano finalmente avuto via libera per accrescere l’autorevolezza dell’Inquisizione con la chiamata di nuovi e più preparati teologi e rigorosi inquisitori, tra i quali si faceva il nome di Domenico Pirri. Costui era oltre che teologo, fermo custode dei dogmi della Chiesa, anche un esperto giurista, collaudato sostenitore della caccia alle streghe. La sua cultura giuridica spaziava dalla perfetta conoscenza delle norme di diritto canonico che risalivano al 1140, agli esiti di centinaia di processi, di bolle papali, di leggende popolari, di prediche, di testi penitenziari, tutti inseriti nel Decretum, fino al famigerato Malleus maleficarum (Il martello delle streghe) dei domenicani H. Kramer e J. Sprenger. Naturalmente tutti questi particolari non potevano essere conosciuti da Ginevra e da Gentile e nemmeno da quei signori e nobili. Ma le voci, che circolavano sul personaggio in questione che sarebbe arrivato a Bologna con l’incarico di Reggente dello Studio Generale domenicano, incutevano preoccupazione, timori se non terrore, visto che in altri territori, inquisitori del suo stampo avevano proceduto con torture e spargimento di sangue.
Tra i presenti, durante la conversazione, ci fu qualcuno che confermando quelle voci e credendo di poter giustificare l’operato di un tribunale dell’Inquisizione, precisò che era l’invocazione demoniaca soprattutto a preoccupare un giudice e che per salvaguardare la fede ogni mezzo poteva legittimamente essere usato, compresi la tortura e il rogo.
In questi ultimi accenni al tribunale dell’Inquisizione presente nel convento di San Domenico, Gentile ebbe il buon senso di non intervenire, dal momento che era risaputo in città che lei frequentasse assiduamente un frate francescano esperto di erboristeria, che avesse assistito alle lezioni di astrologia all’università e che soprattutto venisse considerata una guaritrice. C’erano per queste ragioni sospetti più che sufficienti per considerarla una donna da tenere sotto stretta sorveglianza.
Nel 1487 fu chiamato a Bologna Girolamo Savanarola. I domenicani lo avevano sottratto a Firenze con la speranza di avere un formidabile predicatore, castigatore di costumi corrotti. Ben presto essi si accorsero che fra’ Girolamo non possedeva grandi doti oratorie, come comunemente si credeva, ma aveva una parola così tagliente, nei confronti dei potenti che non si adeguavano ai principi morali della Chiesa e in genere contro tutti i peccatori, che il popolo lo ascoltava ammirato e terrorizzato. Restò nella memoria di tutti i bolognesi, quel giorno in cui mentre predicava dal pulpito, vedendo entrare in chiesa Ginevra, con eleganti vesti di velluto, inanellata e con perle al collo e tra i capelli, puntò il dito contro di lei gridando: “Tu sei il diavolo!” E le impedì di entrare.
Gentile continuava la sua opera di guaritrice. Sempre più persone, anziché rivolgersi al medico, preferivano chiamare Gentile, la quale quando giungeva dinanzi al letto del malato, gli toccava la fronte, lo guardava attentamente, poi restava un po’ con la testa bassa, gli occhi chiusi come se stesse in preghiera e finalmente apriva la sua ampia borsa, prendeva una boccetta, l’apriva e prendendo un pizzico di quella mistura d’erba la mescolava con un po’ di acqua e la faceva bere all’infermo. Di solito il rito si ripeteva almeno tre giorni di seguito. Era sempre molto felice quando trovava il malato guarito e riconoscente.
Una sera tornava verso casa dopo aver visitato una povera ragazza. Piena gli occhi della luce lunare che si specchiava nell’acqua delle pozzanghere, Gentile sentiva tutta l’effervescenza delle sue intuizioni e ne era soddisfatta. Sperava che quella ragazza potesse presto guarire: “E’ così giovane e carina”, diceva. E di tanto in tanto saltellava e canticchiava. Procedeva come in estasi senza temere di fare qualche brutto incontro. Il suo sguardo scrutava nella penombra anche quei particolari che sotto la luce del sole non avrebbe neppure notato: un ciuffetto d’erba che si era guadagnata la vita in mezzo alla sottile striscia di terra tra un sasso e l’altro, i graffiti sui muri delle case, un gatto nero che frugava tra i rifiuti in un angolo della via al riverbero della fiaccola posta a un bivio. Da una viuzza laterale sbucò nella grande piazza dove c’era la chiesa di San Domenico, il convento e a pochi passi la sua casa.
La vista di quella ragazza aveva acceso la sua fantasia. Si vide bambina quando giocando con le sue amiche in quella magnifica piazza si rincorreva attorno alla bellissima tomba di Rolandino de’ Passeggeri a fianco della caratteristica facciata della chiesa. Pensava al tempo trascorso e girando attorno alla tomba, si fermava e toccava la pietra. D’un tratto sentì un rumore secco, come di imposte sbattute dal vento. Ma quella sera non c’era vento; forse qualcuno spiava dietro le persiane, forse l’aveva riconosciuta e si domandava da dove tornasse a quell’ora tarda e con quell’aria leggera, con passo saltellante come di danza allacciata non si sa con chi e protetta da chi è facile immaginare. E poi perché toccava la tomba di Rolandino?
In città i malumori tra la gente crescevano. Ognuno credeva di aver visto qualcosa di sospetto; c’era chi giurava di aver sentito strane invocazioni luciferine; altri erano sicuri di aver visto nelle ore notturne anziane donne che correvano, anzi volavano per riunirsi in luoghi misteriosi.
Queste dicerie si andavano diffondendo velocemente, sia perché ben si accordavano a credenze che si perdevano nella notte dei tempi, sia perché alimentavano facilmente un generale malcontento del popolo a seguito del recente aumento del prezzo del pane. Qualcuno soffiava sul fuoco. Si diceva che la famiglia Bentivoglio sperperava il denaro per costruire un grande palazzo e non pensava più a far distribuire almeno una volta al giorno una minestra per sfamare i più bisognosi. Le infuocate prediche di Savanarola dai pulpiti delle chiese di Bologna evidentemente producevano i loro effetti!
Membri della famiglia Malvezzi, antichi nemici dei Bentivoglio, erano stati visti in giro fra la gente a sobillare i più facinorosi; altri, addirittura travestiti da mendicanti affamati, si lamentavano e indirizzavano bestemmie e maledizioni contro Giovanni, che se ne stava come un re ben protetto nella sua casa, circondato da schiere di guardie e da domestici.
Visto che la situazione peggiorava di giorno in giorno e che le proteste si allargavano per tutte le vie di Bologna, Giovanni mise in allarme le truppe della signoria che, fino a quel momento dietro suo ordine, si erano limitate a intervenire solo per le zuffe tra i giovani più prepotenti durante la spartizione di piccoli bottini. Ma quando, crescendo il tumulto, una gran folla si riversò fin sotto la casa di Giovanni con l’intenzione di assalirla, ecco che i soldati intervennero con violenza. La folla si disperse, lasciando numerosi morti e feriti sulla strada. Ciò nonostante il tumulto non cessò. I superstiti, ai quali si aggiunse un gran numero di cittadini guidati dai due più giovani Malvezzi, si ritirarono nella parte vecchia e popolare della città per decidere le azioni da intraprendere il giorno dopo, anche in attesa dell’appoggio del Legato pontificio e di un intervento di altri cittadini contrari al governo di Giovanni, incline alla dittatura. Questa volta Giovanni diede ordine al capitano delle truppe di non attaccare i rivoltosi, anche perché non sarebbe stato facile snidare la plebaglia casa per casa. Sarebbe stato a suo dire una scelta militare sbagliata. Occorreva invece aspettare e prenderli per fame. Così fu predisposto una sorta di assedio dell’intero quartiere, dal quale nessuno poteva uscire, né entrare. Giovanni ebbe ragione. Non passarono che pochi giorni e già la fame, la sete, la stanchezza e alcuni casi di morti sospette per malattia, fecero desistere i ribelli che si arresero. Furono arrestati una decina di ribelli, tra i quali i due fratelli Malvezzi, gli altri furono liberi di tornare alle loro case.